Le vin herbé segna, nel percorso
ininterrotto di ricerca e di maturazione stilistica di Frank
Martin, la tappa più importante, un punto di arrivo ma
contestualmente anche un nuovo punto di partenza, come Piguet
sintetizzava nel corso degli Entretiens: «Il ne faut
pas oublier que Le vin herbé est votre oeuvre
fondamentale où nous pouvons trouver tout votre style et le
génie de votre expression à l’état pur; toute
votre évolution future est comme déjà contenue dans
Le vin herbé».[1]
L’opera, cui l’autore faceva sempre
riferimento per dare chiarimenti circa il suo modo di lavorare, la
sua estetica, le sue tecniche compositive, i suoi rovelli,[2]
è stata studiata sotto diverse angolazioni,[3] e costituisce
un buon punto di osservazione per valutare il lascito di Martin in
modo meno rigido e dogmatico di quanto non si sia fatto nel
passato: ciò che André Baltensperger, nel suo importante
saggio del 1991 sulla genesi del Concerto per violino,
dichiarava dovere urgente della musicologia.[4] All’interno
della tavola rotonda sul tema Frank Martin, o la misura della
ricerca, che ha inteso accogliere quella sollecitazione, questa
doppia relazione su Le vin herbé si è proposta di
mettere a fuoco da un lato la natura dell’operazione
culturale condotta da Bédier nel Roman de Tristan et
Iseut, e dall’altro, gli stimoli che spinsero Martin a
scrivere un’opera su quel testo, e a portare a maturazione
quella particolare sintesi stilistica, ritenuta esemplare nella sua
produzione.
PARTE PRIMA
di Maria Sofia Lannutti
Il «Roman de Tristan et Iseut» di Joseph
Bédier e il suo impiego nell’oratorio «Le vin
herbé»
Il Roman de Tristan et Iseut di Joseph
Bédier viene stampato nel 1900,[5] ma la sua stesura
risale in realtà al 1896, anno in cui nel XXV volume della
rivista «Romania» si annuncia che Bédier ha
cominciato a lavorare all’edizione del Tristan di
Thomas, dopo la rinuncia del filologo tedesco Ferdinand Vetter e
contemporaneamente alla stesura di una versione in francese
moderno.[6] Il lavoro filologico sul Tristan di
Thomas, presumibilmente iniziato nel 1895, si intreccia dunque con
la stesura del Roman, che avrà comportato
un’assimilazione e una meditazione delle differenti redazioni
medievali della leggenda non senza ripercussioni sul lavoro
filologico. Durante gli anni che separano la stesura del
Roman dall’edizione del Tristan di Thomas, che
verrà pubblicata tra il 1902 e il 1905,[7] e
dall’edizione delle Folies Tristan, pubblicata nel
1907,[8] si può ritenere che Bédier abbia
approfondito lo studio della leggenda, conseguendo dei risultati di
tipo storico-metodologico che superano la visione espressa nel
Roman e al contempo la approfondiscono e la precisano,
cioè dipendono da essa. Nella stesura del Roman viene
sviluppata per la prima volta, con ogni probabilità,
l’idea di un archetipo della leggenda, di un
Urtristan, che sarà centrale in sede scientifica e che
era già comparsa in un articolo del 1886, in cui Bédier
pubblicava la versione in prosa della parte finale della leggenda
tràdita dal manoscritto fr. 103 della Bibliothèque
nationale de France. Questa versione sarà riproposta in
appendice all’edizione del Tristan di Thomas e
costituirà una delle fonti del capitolo finale della
riscrittura.[9]
Pubblicato con una prefazione di Gaston Paris,
maestro di Joseph Bédier, su cui avremo modo di riflettere, il
Roman de Tristan et Iseut riscuote immediatamente un
successo davvero formidabile, che perdurò per molti anni,
tanto da rappresentare un vero e proprio caso editoriale. Si pensi
che si contano 576 edizioni francesi, l’ultima delle quali
del 1980, e che il romanzo fu tradotto in più di trenta lingue
fino almeno al 1988.[10] Qualche anno dopo la pubblicazione del
romanzo, nel 1903, Bédier succede a Gaston Paris sulla
cattedra di lingua e letteratura francese del Medioevo al
Collège de France. Paul Meyer, anch’egli allievo di
Paris, scrive in una lettera a Adolf Tobler di essere in disaccordo
sulla candidatura di Bédier: Bédier è un «bon
diable», scrive Meyer, ma è davvero «peu
philologue».[11] Meyer era allora l’esponente
più autorevole dell’École des Chartes, espressione
della più rigorosa tradizione filologica francese, e non
è improbabile che il suo giudizio su Bédier, come ha
notato Lino Leonardi in un intervento sui rapporti tra Paris e
Bédier,[12] fosse influenzato dal successo del
Roman de Tristan et Iseut, in cui i testi medievali sono
interpretati e ricreati per offrire a un pubblico non certo di
addetti ai lavori un prodotto che agli occhi di Meyer doveva
apparire come puramente divulgativo.
Nel gennaio del 1872 Gaston Paris firma
l’articolo introduttivo del primo numero della rivista
«Romania». Come è stato riconosciuto ormai da tempo,
oltre che da Alain Corbellari nel libro su Bédier, da Giovanni
Fiesoli nel suo lavoro sulla genesi del lachmannismo e da Ursula
Bahler nel libro su Paris,[13]
«Romania» costituisce «la risposta francese a
Germania di K. Bartsch».[14] L’articolo
di Paris contrappone la cultura romanza a quella germanica,
evidenziando la superiorità del mondo neolatino, la cui
ampiezza e varietà non impediscono una sostanziale coesione,
sull’idea di un’omogeneità razziale, e attribuisce
alla rivista un ruolo di grande importanza, il compito di far
rivivere, attraverso lo studio delle lingue e delle letterature
romanze, lo spirito di civilizzazione, che è insito nella
cultura latina e che storicamente, secondo Paris, subisce una
battuta d’arresto a causa delle invasioni dei popoli
germanici. Siamo nella fase più acuta del revanscismo,
all’indomani della sconfitta di Sedan e dell’esperienza
della Comune. L’idea dei fondatori di «Romania» era
di riappropriarsi della propria letteratura e di reimpostare i
metodi filologici per dare una nuova luce scientifica agli studi
romanzi in Francia, per dimostrare la superiorità dei filologi
romanzi francesi rispetto ai colleghi tedeschi. In effetti si
può dire, come sottolinea Leonardi nell’intervento a cui
ho già accennato sulla scorta delle osservazioni di Formisano
e Ridoux,[15] che questo obiettivo fu perseguito anche
attraverso la rivendicazione di un primato francese
nell’applicazione del metodo stemmatico ai testi
romanzi.[16] Sta di fatto che l’edizione di
Paris della Vie de saint Alexis, fondata su un metodo di
tipo genealogico, su principi di tipo lachmanniano, finisce per
assumere il valore di un modello che apriva la strada a un
rinnovamento metodologico. Leonardi ha anche messo in evidenza
alcune zone d’ombra nell’atteggiamento di Bédier
rispetto al ruolo di caposcuola in ambito ecdotico assunto e
all’occorrenza rivendicato dal suo maestro Paris.[17]
È noto che nell’edizione del Lai de l’Ombre
del 1913 e poi nel contributo del 1928 Bédier attribuisce a
Lachmann il metodo della ricostruzione stemmatica attraverso gli
errori comuni,[18] con una forzatura che è stata messa
in luce nel citato libro di Fiesoli.[19] Leonardi
sottolinea inoltre l’assenza di qualsiasi riferimento
all’edizione della Vie de saint Alexis di Paris,
interpretando la circostanza come espressione della volontà di
Bédier di negare al suo maestro un ruolo fondativo, come una
testimonianza del rapporto conflittuale, se non antagonistico, che
li legava.[20] Credo tuttavia che la scelta di
Bédier possa essere spiegata anche con altri argomenti. Penso
in particolare al suo antigermanismo, che andava molto al di
là dell’antigermanismo espresso da Paris
nell’editoriale di «Romania», era un convincimento
ben più profondo, duraturo e radicale, come rivelano diverse
circostanze della sua biografia, su cui tornerò. La filologia
di tipo genealogico, sostenuta e praticata da Paris, era di matrice
tedesca, e la scuola tedesca, in particolare berlinese, la cui
autorità era sicuramente preminente, riconosceva in Lachmann
il proprio indiscusso maestro.[21] Ed è allora
probabile che l’attribuzione arbitraria del metodo degli
errori comuni a Lachmann da parte di Bédier e la sua
contestuale demolizione vadano lette, oltre che come espressione
della volontà di ridimensionare il ruolo di Paris ex
silentio, anche come manifestazione di un antigermanismo
pervasivo. Le obiezioni di Bédier a Paris si coniugano
d’altra parte con l’antigermanismo anche per quanto
riguarda la critica verso le teorie di stampo romantico sulle
origini dei fabliaux, delle chansons de geste, della
stessa leggenda di Tristano e Isotta, come vedremo meglio, teorie
che erano state sostenute e promosse soprattutto dalla scuola
tedesca.[22] E non è da sottovalutare il fatto
che proprio l’antigermanismo abbia potuto incoraggiare
l’approdo di Bédier in sede strettamente filologica a un
metodo che rifugge da ogni ricostruzione ideale, da ogni
interpretazione fondata sull’idea romantica di popolo, di
cultura popolare, in fin dei conti su ogni dogmatismo, per
insistere sulla necessità di attenersi ai documenti, ma anche
sulla necessità del dubbio, su uno scetticismo che appare
doveroso, inevitabile.[23]
Il capitolo del libro di Corbellari dedicato al
periodo della Grande Guerra ci rivela con chiarezza
l’antigermanismo di Bédier, che negli anni del primo
conflitto mondiale si manifestò anche pubblicamente e
ufficialmente.[24] Prima di essere antitedesco Bédier
era patriota. Divenne ufficiale dell’Académie nel 1893,
«officier de l’instruction politique» nel 1902,
Officier della Legione d’Onore nel dicembre del 1912. La sua
carriera nella Legione d’Onore procederà fino al
conferimento della Grande Croix nel 1937.[25] Durante il primo
conflitto mondiale Bédier fu incaricato dal ministero della
guerra di curare la pubblicazione di un pamphlet intitolato
Les Crimes allemands d’après les témoignages
allemands, che fu tradotto nelle principali lingue europee e
diffuso in tutto il mondo. Alla pubblicazione i tedeschi risposero
rifiutando le accuse. Bédier pubblicò allora una seconda
brochure dal titolo L’Allemagne essaye de justifier
ses crimes, e poi riunì i due pamphlet in un unico
volume dal titolo Les Violations des lois de la guerre par
l’Allemagne. Siamo nel 1915. A questi scritti ne
seguiranno altri dello stesso tenore. In una lettera alla marchesa
Arconati-Visconti Bédier considera il libro che riunì i
primi due pamphlets migliore dei suoi monumentali studi
sulle leggende epiche: «Je n’en suis plus content que de
mes Légendes épiques, car il fera crier les Allemands de
colère et d’humiliation».[26] In esso è
chiara l’idea di un complotto tedesco destinato a distruggere
l’umanità, e questa idea non lo abbandonerà fino
alla morte, avvenuta proprio nel 1938, alla vigilia del secondo
conflitto mondiale, se è vero, come ci informa più di un
necrologio, che a qualcuno che gli domandava, diverso tempo dopo il
trattato di Versailles, come mai la Grande Guerra non avesse
prodotto poemi epici Bédier rispose «Parce que la Guerre
du 14-18 n’est pas finie…».[27]
Nell’assunto fondamentale del maggiore tra i
suoi lavori scientifici (i quattro volumi delle Legendes
épiques, pubblicati dal 1908 al 1913), cioè la
dimostrazione della matrice colta e non folclorica dei poemi epici
e della loro origine francese, l’antigermanismo di
Bédier si percepisce soprattutto come affermazione
dell’identità nazionale sin dal medioevo. Lo testimonia
anche la ricezione dell’opera, a cui fu attribuito un
importante riconoscimento, il Prix Gobert, con la motivazione di
aver comprovato «notre génie national à une
époque où il était vraiment initiateur dans tous les
domaines de l’action, de la pensée et de
l’art». Si tratta dunque di un’opera di interesse
nazionale, di un’opera di «résurrection», come
si legge in un articolo giornalistico del tempo.[28] Ma il
nazionalismo di Bédier appare con chiarezza già nella
fase precedente della sua attività scientifica, dedicata alla
leggenda di Tristano e Isotta.
Come rileva Corbellari nel citato capitolo dedicato
agli studi tristaniani di Bédier, nel secondo volume
dell’edizione del Tristan di Thomas, Bédier
sostiene un argomento fondamentale ai fini del nostro discorso,
cioè che si può parlare di leggenda di Tristano solo in
relazione al romanzo di Tristano concretamente inteso. Secondo
Bédier la storia di Tristano e Isotta non ha origini remote,
in una mitologia indoeuropea, non è una leggenda celtica, ma
esiste come opera narrativa dal momento in cui è stato creato
un roman anglonormanno nel XII sec., un roman
francese. Gli elementi celtici, cioè folclorici, ci sono, ma
sono, secondo Bédier, tutto sommato irrilevanti per
quantità e importanza. Sempre nel secondo volume
dell’edizione del Tristan di Thomas, Bédier
sostiene che è necessario immaginare un romanzo francese
composto verso il 1120 al più tardi, cioè in epoca
contemporanea alla Chanson de Roland, e che questo romanzo
è opera di un uomo di genio che ha saputo organizzare
coerentemente la materia tristaniana. Bédier si spinge anzi
oltre, riproponendo e sviluppando l’idea di un
Urtristan, di una versione archetipica della leggenda dalla
quale dipendono le versioni conosciute e che comunque può
essere ricostruita solo a partire dai testi che ci sono pervenuti.
In sede scientifica, di questa versione Bédier delinea infatti
solo i tratti essenziali, gli episodi, non si spinge a ricostruire
il racconto. Lo fa invece proprio con la stesura del romanzo, la
cui suddivisione in capitoli non è molto lontana dalla
scansione in episodi dell’archetipo, come ha sottolineato
Corbellari. Trova quindi conferma in questa analogia l’idea
di un legame tra il Roman de Tristan et Iseut e
l’elaborazione dell’archetipo della leggenda,
l’idea di una sinergia tra la stesura del romanzo e la
definizione della valutazione storico-filologica che sarà
sviluppata in sede scientifica.
Nel Roman de Tristan et Iseut, Bédier
affida a una breve nota preliminare la descrizione sommaria delle
fonti dei diversi capitoli. Dalla nota apprendiamo che lo scrupolo
primario di Bédier consiste nell’evitare ogni
anacronismo, per cercare di ottenere da se stesso di non mescolare
la mentalità moderna alle antiche forme di pensiero e di
sentire:
Comme M. G. Paris l’a trop bienveillamment
exposé, j’ai tâché tout mélange de
l’ancien et du moderne. Écarter les disparates, les
anachronismes, le clinquant, vérifier sur soi-même le
Vetusta scribenti nescio quo pacto antiquus fit animus, ne
jamais mêler nos conceptions moderne aux antiques formes de
penser et de sentir, tel a été mon dessein, mon effort,
et sans doute, hélas!, ma chimère.[29]
La certezza di aver fallito nell’obiettivo di
rimanere fedele alla mentalità medievale non può dirsi
smentita dai risultati della riscrittura, se è vero che il
Roman di Bédier può essere considerato per molti
aspetti, come vedremo meglio, un romanzo simbolista.
I diciannove capitoli sono introdotti da
un’epigrafe, e le epigrafi appaiono come un distillato della
narrazione, dalla grande forza evocativa. Le riporto di seguito,
secondo la lezione del romanzo di Bédier, con il numero e il
titolo del capitolo che introducono.
I
|
Les enfances de Tristan: Da woerest
zwáre baz genant: / Juvente bele et la riant.
(Gottfried von Strassbourg)
|
II
|
Le Morholt d’Irlande : Tristrem seyd:
«Ywis, / Y wil defende it as knizt».
(Sir Tristrem)
|
III
|
La quête de la Belle aux cheveux
d’or : En po d’ore vos oi paiée / O la parole
do chevol / Dont je n’ai puis eü grant dol.
(Lai de la Folie Tristan)
|
IV
|
Le philtre : Nein, ezn was nith mit wine, /
doch ez im glich woere, / ez was diu werbde swaere, / diu ende
lôse herzenôt / von der si beide lâgen tôt.
(Gottfried von Strassbourg)
|
V
|
Brangien livrée aux serfs : Sobre totz
avrai gran valor, / s’ailtals camisa m’es dada, / Cum
Iseus det a l’amador, / Que mais non era portada.
(Rambait, comte d’Orange)
|
VI
|
Le grand pin : Isot ma drue, Isot
m’amie, / En vos ma mort, en vos ma vie!
(Gottfried von Strassbourg)
|
VII
|
Le nain Frocin : Wé dem selbin getwerge,
/ Daz er den edelin man vorrit!
(Eilart d’Oberg)
|
VIII
|
Le saut de la chapelle : Qui voit son cors et
sa façon, / Trop par avroit le cuer felon / Qui nen avroit
d’Iseut pitié.
(Béroul)
|
IX
|
La forêt du Morois : Nous avons perdu le
monde, et le monde nous; que vous en samble, Tristan, ami? –
Amie, quand je vous ai avec moi, que je fault-il dont? Se tous li
monds estoit orendroit avec nous, je ne verroie fors vous
seule.
(Roman en prose de Tristan)
|
X
|
L’ermite Ogrin : Aspre vie meinent et
dure: / Tant s’entraiment de bone amor / L’uns por
l’autre ne sent dolor.
(Béroul)
|
XI
|
Le gué aventureux : Oyes, vous tous qui
passez pa la voie, / Venez ça, chascun de vous voie /
S’il est douleur fors que la moie. / C’est Tristan que
la mort mestroie.
(Le Lai mortel)
|
XII
|
Le jugement par le fer rouge : Dieu i a fait
vertuz. (Béroul)
|
XIII
|
La voix du Rossignol : Tristan defors e chant
e gient / Cum russinol que prent congé / Em fin
d’esté od grant pitié.
(Le Domnei des amanz)
|
XIV
|
Le grelot merveilleux : Ne membre vus, ma
bele amie, / D’une petite druerie?
(La Folie Tristan)
|
XV
|
Iseut aux Blanches Mains : Ire de femme est a
duter, / Mult s’en deit bien chascun garder / Cum de leger
vient lur amur, / De leger revient lur haïr.
(Thomas de Bretagne)
|
XVI
|
Kaherdin : La dame chante dulcement, / Sa
voiz acorde a l’estrument. / Les mains sont bellese, li lais
bons, / Dulce la voix et bas li tons.
(Thomas)
|
XVII
|
Dinas de Lidan : «Bele amie, si est de
nus: Ne vus sans mei, ne jo sans vus».
(Marie de France)
|
XVIII
|
Tristan fou : El beivre fu la nostre
mort.
(Thomas)
|
XIX
|
La mort: Amor condusse noi ad una morte.
(Dante, Inf. Ch. V)
|
Solo sette epigrafi sono tradotte nei corrispondenti
capitoli. Le altre dodici stabiliscono invece un gioco di rimandi
talvolta molto complesso, sia interni, cioè ad altri capitoli
del romanzo, sia esterni, ad altri testi, anche di materia non
tristaniana. Nei capitoli che saranno ripresi da Frank Martin in
diversa misura, come vedremo, cioè il IV nella prima parte, il
IX-X nella seconda, e il XV-XIX nella terza, sono rappresentate
tutt’e tre le tipologie di epigrafe. Nei capitoli IV e X
l’epigrafe si trova tradotta nella narrazione. Nel XV,
dedicato all’esilio di Tristano e alla sua unione con Isotta
dalle Bianche Mani, l’epigrafe anticipa quello che
accadrà alla fine della storia, nell’ultimo capitolo,
cioè il tradimento di Isotta dalle Bianche Mani, che mente a
Tristano per gelosia, provocandone la morte. E nell’ultimo
capitolo, la citazione del quinto canto dell’Inferno
apre a una prospettiva universale, il triste destino degli amanti
di tutti i tempi, e tra questi anche Tristano.
Il prologo all’inizio del primo capitolo
(«Seigneurs, vous plaît-il d’entendre un beau conte
d’amour et de mort? C’est de Tristan et Iseut la reine.
Ecoutez comment à grand’ joie, a grand deuil ils
s’aimèrent, puis en moururent un même jour, lui par
elle, elle par lui»)[30] riprende quasi
alla lettera l’inizio del Lai du Chevrefoil (vv. 7-10:
«de Tristan e de la reïne / de lur amur ki tant fu fine,
/ dunt il ourent meinte dolur; / puis en morurent en un jur»),
esempio di racconto succinto e evocativo, il più breve, con i
suoi 118 versi, dei lais di Maria di Francia. E si conclude
con la traduzione di due versi di Eilhart von Oberg (vv. 44-45:
«und wie sie dorch in irstarp, / her dorch sie und sie dorch
in» ‘e come ne morirono, lui per lei e lei per
lui’), il primo dei quali si sovrappone all’ultimo di
Maria di Francia, a cui si deve tuttavia la specificazione «en
même jour», mentre il secondo corrisponde alla chiusa
«lui par elle, elle par lui».[31] Il prologo
può essere dunque considerato un’ulteriore epigrafe, ha
la stessa funzione delle epigrafi, anche se è realizzato con
una tecnica più raffinata, che stempera il sofisticato
sincretismo nella traduzione in francese moderno.
Il distillato rappresentato dalle epigrafi e dal
prologo è associato a un testo in cui appare già costante
la ricerca della sintesi, della concisione, come frutto sia di una
scelta, dei modelli e nei modelli, sia di un processo di
semplificazione, che si può annoverare tra le principali
caratteristiche della scrittura di Bédier.[32] Questa
tendenza alla condensazione va vista a mio avviso alla luce del
simbolismo inteso come arte di raffinamento, di riduzione della
materia verbale a quintessenza, che vede la sua massima espressione
nella poesia simbolista francese e in particolare in
Mallarmé.
L’idea che il romanzo di Bédier sia un
romanzo simbolista non è nuova. Già Ferdinand Lot,
allievo e biografo di Bédier, ne sottolineava la
modernità,[33] ma è ad Alain Corbellari che si deve
una compiuta interpretazione in chiave simbolista. Corbellari
ritiene tuttavia che il romanzo, nonostante l’inevitabile
connotazione antiwagneriana data dal forte sentimento antitedesco
di Bédier, sia in realtà costruito come un’opera di
Wagner.[34] Lo dimostrerebbe in primo luogo la
ricorrenza di elementi altamente simbolici, ad esempio
l’anello di quarzo verde che Isotta dona a Tristano e che
diventa il suo segno di riconoscimento. Secondo Corbellari la
ricorrenza di elementi simbolici equivarrebbe al Leitmotiv
wagneriano, ne costituirebbe un corrispettivo letterario. Credo
invece che l’interpretazione delle ripetizioni, che
indubbiamente caratterizzano la scrittura di Bédier, possa
essere precisata prendendo le distanze da Wagner e dal
Leitmotiv wagneriano e sottolineando il carattere
marcatamente formulare della scrittura di Bédier.
In Wagner il Leitmotiv è funzionale ad
esaltare la rappresentazione mitica ed eroica e a potenziare la
componente drammatica. Nel romanzo di Bédier, al ripetersi di
situazioni e stati d’animo mi sembra piuttosto corrispondere
un’ideale di semplicità, anche se si tratta di una
semplicità che rimane di fatto inattingibile, il tentativo,
destinato a fallire, di fissare delle coordinate, le linee-guida di
una realtà che rimane sfuggente. D’altra parte
l’ambiguità che traspare dal racconto è già
insita nelle opere medievali, e Bédier non fa altro che
esaltarla. Significativa è la conclusione dell’episodio,
nel cap. VIII, in cui Tristano sottrae Isotta al lebbroso Yvain al
quale re Marco l’aveva consegnata nell’intento di
infliggerle una pena più dura della morte. Il personaggio
Tristano di Bédier non può mai essere spietato, neppure
quando gli autori medievali lo descrivono come tale, e per questo
è incapace di colpire Yvain: «les conteurs
prétendent que Tristan tua Yvain: c’est dire
vilenie», scrive Bédier (p. 93). Ma la pietà di
Tristano è solo apparente, perché Yvain viene ugualmente
ucciso dal fedele Governal, alter ego di Tristano, che gli
assesta un colpo in testa, facendo colare il sangue fino ai suoi
piedi deformi. Un’analoga contraddittorietà riguarda il
personaggio del re Marco. Da un lato si sottolinea la purezza dei
sentimenti del re Marco, che sono ispirati non dalla stessa pozione
magica che incanta Tristano e Isotta (come vuole parte della
tradizione che Bédier stigmatizza nel racconto: «Le
conteurs prétendent ici que Brangien […] versa dans une
coupe ce qui restait du philtre et la présenta aux époux;
que Marc y but largement […]. Mais sachez, seigneurs, que ce
conteurs ont corrumpu l’histoire et l’ont
faussée», pp. 52-53), ma dalla tenera nobiltà del
suo cuore: «Ni poison, ni sortilège; seule la tendre
noblesse de son coeur» (p. 53); dall’altro si dimostra
la sua efferata spietatezza nella condanna senza appello dei due
amanti, che risalta dal confronto con la pietà della gente
comune:
«Jugement, roi! le jugement d’abord,
l’escondit et le plaid! Les tuer sans jugement, c’est
honte et crime. Roi, répit et merci pour eux!». Marc
répondit en sa colère: «Non, ni répit, ni
merci, ni plaid, ni jugement! Par ce Seigneur qui créa le
monde, si nul m’ose encore requérir de telle chose, il
brûlera le premier sur ce brasier!» (p. 84);
Or, écoutez comme le Seigneur Dieu est plein
de pitié. Lui qui ne veut pas la mort du pécheur, il
reçut en gré les larmes et la clameur des pauvres qui le
suppliaient pour les amants torturés (pp. 85-86).
Emerge dunque anche un tipo di coralità che
può dirsi estraneo all’interpretazione wagneriana, in
cui al coro è affidata una funzione celebrativa, di
esaltazione dell’eroicità. Anche nelle illustrazioni del
tedesco Robert Engels pubblicate nell’edizione di lusso del
romanzo di Bédier, se è vero che le figure sono
imponenti, più germaniche che latine, il loro atteggiamento
è tutt’altro che eroico, è piuttosto di
umiltà, di rassegnazione nei confronti di un destino
spietato.[35]
In Wagner il Leitmotiv è un elemento
pervasivo e magmatico, che pertiene al livello più profondo
dell’espressione musicale.[36] Nel romanzo di
Bédier, la ricorrenza di elementi simbolici è invece a
mio avviso da collegarsi soprattutto alla ricerca della
formularità. Si tratta dunque di ripetizioni di carattere
formulare che non sono diffuse capillarmente, non sono parte
integrante di una narrazione ritmata dalla reminiscenza memoriale,
come è stato rilevato ad esempio per i romanzi di
D’Annunzio, ma corrispondono piuttosto a un procedimento che
è stato riscontrato nella scrittura prosastica di tutti i
tempi, dalla Vita nova dantesca ai Contes cruels di
Villiers de l’Isle Adam.[37] Nel racconto di
Bédier, al ricorrere di elementi simbolici corrisponde in
genere il ricorrere di uno stesso elemento formulare. Il motivo
dell’anello, ad esempio, è costantemente associato al
discorso che Isotta pronuncia nell’atto di donare
l’anello a Tristano:
Mais dès que je l’aurai vu, nul pouvoir,
nulle défense royale ne m’empêcheront de faire ce
que tu m’auras mandé, que ce soit sagesse ou folie (p.
122);
Ami Tristan, dès que j’aurai revu
l’anneau de jasp vert, ni tour, ni mur, ni fort château
ne m’empêcheront de faire la volonté de mon ami (p.
125);
Si jamais je revois l’anneau de jasp vert,
ni tour, ni mur, ni fort château ne m’empêcheront
de faire la volonté de mon ami, que ce soit sagesse ou
folie… (p. 177);
Je me rend pourtant, à la vue de
l’anneau: n’ai-je pas juré, sitôt que je le
reverrais, dusse-je me perdre, je ferais toujours ce que tu me
manderais, que ce fût sagesse ou folie? (p. 202).
In altri casi situazioni e personaggi diversi sono
accomunati da uno stesso costrutto: «Non, ce
n’était pas du vin: c’était la passion,
c’était l’âpre joie et l’angoisse sans
fin, et la mort» (si tratta della traduzione
dell’epigrafe del IV capitolo, che nella narrazione segue il
grido emesso dalla serva nel momento in cui trova il vino che i due
amanti berranno per calmare la loro sete: «“J’ai
trouvé du vin!” leur criat-t-elle», p. 46);
«Non, ce n’est pas de Brangien la fidèle,
c’est de son propre coeur que vient son tourment» (ci si
riferisce alla circostanza in cui Isotta, nel V capitolo, decide di
far uccidere Brangania, p. 54); «Ce ne pas Brangien la
fidèle, c’est eux-mêmes que les amants doivent
redouter» (incipit del VI capitolo, p. 59, che mette in
scena l’incontro presso il grande pino: l’affinità
con il luogo precedente si estende al sintagma Brangain la
fidèle); «Non, ce n’est point par craint que le
roi nous a épargnés […] Non, il n’a point
pardonné, mais il a compris» (il costrutto è in
questo caso un po’ variato: siamo all’inizio del X
capitolo, quando Tristano riflette sul comportamento di re Marco,
p. 110). In altri termini, credo che nel romanzo di Bédier la
ripetizione diventi uno strumento retorico inserito in una
narrazione di stampo tradizionale allo scopo di tradurre
modernamente l’essenza della letteratura narrativa del
medioevo, che è al contempo simbolica e formulare. Funzionale
a questa finalità di traduzione moderna della narrativa
medievale è anche il largo uso di un lessico e di una sintassi
arcaizzanti, in una sorta di mimesi linguistica, in cui è
anche possibile talvolta riconoscere la struttura dei versi della
poesia, come ha ben analizzato Corbellari.[38]
Il capitolo IV, sul filtro, mette in scena il momento
cruciale della vicenda e rappresenta il cuore del romanzo di
Bédier, che dichiara nella nota iniziale di aver attinto
soprattutto dal poema di Eilhart von Oberg e secondariamente da
Gottfried von Strassburg, vale a dire da due opere che sono
riconducibili al filone della versione cosiddetta comune,
rappresentata anche dal roman di Béroul. Il richiamo di
Bédier ai due autori va tuttavia interpretato, a mio avviso,
in relazione al dettato narrativo delle opere, in senso, per
così dire, quantitativo, ma non riguarda
l’organizzazione concettuale complessiva. Soffermiamoci, a
questo proposito, sull’interpretazione del romanzo di
Bédier offerta da Gaston Paris nella prefazione.
La prefazione di Paris si mantiene su toni molto
accattivanti, si potrebbe dire promozionali (e d’altra parte
dalla nota dell’editore che precede la prefazione si apprende
l’esistenza di una committenza: «Ce travail […] a
été entrepris par Joseph Bédier, sur
l’initiative de Henri Piazza»), ma in essa è
comunque possibile percepire l’eco della contrastante visione
epistemologica che i due studiosi espressero nei loro studi
scientifici. Secondo Paris, pur tenendo conto di tutti i testi
tristaniani del medioevo a sua disposizione, Bédier avrebbe
cercato in primo luogo di dare ai frammenti della leggenda di
Tristano «la forme et la couleur que leur aurait données
Béroul» (p. V), in quanto in Béroul più che in
Thomas si conservano gli elementi della cultura celtica da cui
deriva la leggenda di Tristano e Isotta:
Il y avait deux partis à prendre:
s’attacher à Thomas, ou s’attacher a Béroul.
Le premier parti avait l’avantage d’aboutir
sûrement, grâce aux traductions étrangères,
à la restitution d’un récit complet et
homogène. Il avait l’inconvénient de ne restituer
que le moins ancien des poèmes de Tristan, celui dans lequel
le vieil élément barbare a été
complètement assimilé à l’esprit et aux
oeuvres de la société chevaleresque anglo-française.
M. Bédier à préféré le second parti; (p.
III)
En combinant les indications souvent bien
fugitives des conteurs français, on arrive à entrevoir ce
qu’a pu être chez les Celtes ce poème sauvage, tout
entier bercé par la mer et enveloppé dans la forêt,
dont le héros, demi-dieu plutôt qu’homme,
était présenté comme maître ou même
l’inventeur de tous les artes barbares. (p. VII)
Paris enfatizza dunque l’origine celtica della
leggenda, coerentemente con l’interpretazione offerta in sede
scientifica sin dal 1894 (un anno prima che Bédier cominciasse
a lavorare all’edizione del Tristan di Thomas, due
anni prima della stesura del romanzo), in un articolo pubblicato
sulla «Revue de Paris» che ha molti punti di contatto con
la prefazione al romanzo,[39] interpretazione
che Bédier ridimensionerà drasticamente, come si è
visto. Insomma Paris attribuisce a Bédier un’intenzione
che sicuramente Bédier non ha, l’intenzione di
raccogliere gli elementi celtici, folclorici, per completare
l’opera di Béroul, l’intenzione di comunicare ai
lettori che la storia raccontata dai poeti francesi del XII secolo
era estranea al loro ambiente, e che Béroul e Thomas si
sforzarono invano di adeguarla:
Je ne veux pas non plus insister sur les traits de
moeurs et de sentiments barbares […]. M. Bédier,
naturellement, les a recueillies avec prédilection en faisant,
pour compléter l’oeuvre de Béroul, son travail
d’industrieuse mosaïque. Les lecteurs les remarqueront
sans peine, et sentiront combien l’histoire que nos
poètes français du douzième siècle racontaient
à leurs contemporains était étrangère au milieu
dans lequel ils la propageaient, et avec lequel ils
s’efforçaient en vain de la faire cadrer. (p. VIII)
Ci si può chiedere se e quanto Paris ignorasse
il punto di vista di Bédier, se e quanto non fosse in grado di
prevedere la svolta interpretativa che di lì a poco
Bèdier avrebbe espresso negli studi scientifici su
Tristano.[40] Ed è forse indicativo della
complessità di rapporto tra i due studiosi il fatto che la
prefazione di Paris sia stata ristampata integralmente nelle
edizioni anche di gran lunga successive, cioè che Bédier
non l’abbia mai messa in discussione.[41]
L’incongruenza tra la valutazione che Paris
offre nella premessa e l’interpretazione della leggenda nel
romanzo (e nella ricostruzione storico-culturale) di Bédier
è confermata da un altro fattore di grande importanza. Mentre
nella versione di Béroul l’azione del filtro è
limitata, dura tre anni, tanto che allo scadere dei tre anni
Tristano e Isotta rinsaviscono e, grazie all’aiuto
dell’eremita Ogrin, si riconciliano con il re Marco, nella
riscrittura di Bédier il filtro, e quindi
l’amore-passione, ha una durata illimitata, come nel romanzo
cortese di Thomas. La distinzione riguardante la durata del filtro
sembra estranea alla visione di Paris, come dimostra sia la
prefazione («Je rappellerais seulement que l’idée
de symboliser l’amour involontaire, irrésistible et
éternel, par ce breuvage dont l’action […] se
prolonge pendant toute la vie […] a évidemment son
origine dans les pratiques de la vieille magie celtique», pp.
VII-VIII) sia l’articolo del 1894 («une conception
[…] de l’amour illégitime, de l’amour
souverain, de l’amour plu fort que la mort […] est
née et s’est réalisée chez les Celtes dans le
poème de Tristan et Iseut, et forme une des gloires de leur
race»).[42] Essa occuperà invece un posto di
rilievo negli studi scientifici di Bédier, e in particolare
nella ricostruzione dell’Urtristan. Bédier
ritiene infatti che le versioni di Béroul e di Eilhart von
Oberg, che attribuiscono all’azione del filtro una durata
limitata, siano in realtà interpolate, cioè non risalgano
all’Urtristan, abbiano assorbito una connotazione
magica estranea alla leggenda originaria (il ragionamento sarà
invertito di lì a poco, come è stato più volte
notato, da Gertrude Schöpperle).[43] Quindi, se è
vero che Béroul, e con Béroul la versione comune, occupa
un posto di rilievo nella riscrittura di Bédier, anche per
motivi oggettivi (si tratta del romanzo più completo e
più in sintonia con lo stile asciutto, minimalista di
Bédier, come nota Corbellari),[44] riguardo al
principale elemento di differenziazione tra i due romanzi francesi,
Bédier sceglie Thomas, interpreta cioè il tratto più
marcatamente folclorico, sfumandolo, depurandolo da ciò che
accresce la sua valenza magica e sottolineando la sua funzione
simbolica, di simbolo dell’amore-passione e
dell’amore-morte, come dimostra anche l’epigrafe del IV
capitolo tratta dal testo di Gottfried von Strassburg, che viene
tradotta, lo si è visto, nella narrazione: «Non, ce
n’était pas du vin: c’était la passion,
c’était l’âpre joie et l’angoisse sans
fin, et la mort» (p. 46).
L’interpretazione del filtro come simbolo
assume una grande importanza nell’economia del romanzo di
Bédier e determina in gran parte la sua valenza letteraria,
perché, innestato in una narrazione che può dirsi in
sintonia con la letteratura contemporanea, gli conferisce un
carattere simbolista in senso moderno. Questo punto di vista
permette di mettere a fuoco il tratto dell’opera di
Bédier che è forse di maggiore originalità, grazie
al quale il simbolismo medievale si attualizza, evidenzia i suoi
aspetti di modernità, una specifica modernità, tutta
francese, lontana, lo vedremo meglio, dalla rilettura
wagneriana.
Quasi in conclusione della sua prefazione, Paris
allude all’opera di Wagner, quando scrive che l’idea
dell’amore indissolubile e implacabile, oltre che essere
une des plus séduisante e des plus
émouvantes, elle est aussi une des plus dangereuses:
l’histoire de Tristan a versé jadis, on ne saurait
douter, dans plus d’une âme un poison subtil, et
aujourd’hui encore, préparé par le magicien moderne
qui y a joint la puissance de l’incantation musicale, le
breuvage d’amour à certainement troublé,
peut-être égaré plus d’un cœur. (pp.
XI-XII)
Il discorso di Paris è influenzato, mi pare, da
un celebre testo di Mallarmé, pubblicato nel 1885 su «La
revue wagnérienne», in cui il poeta, profondamente
affascinato dal teatro di Wagner, ne prende tuttavia le distanze,
rivendicando una diversità francese, un autonomo impiego del
mito nella letteratura. Concetti ed espressioni di Paris appaiono
anzi direttamente mutuati dal testo di Mallarmé:
Vous avez à subir un sortilège,
pour l’accomplissement de quoi ce n’est trop
d’aucun moyen d’enchantement impliqué par
la magie musicale, afin de violenter votre raison aux
prises avec un simulacre, et d’emblée on proclame:
«Supposez que cela a lieu véritablement et que vous y
êtes!». Le Moderne dédaigne d’imaginer;
mais expert à se servir des arts, il attend que chacun
l’entraîne jusqu’où éclate sa
puissance spéciale d’illusion, puis consent; Tout
se retrempe au ruisseau primitif: pas jusqu’à la source.
Si l’esprit français, strictement imaginatif et
abstrait, donc poétique, jette un éclat, ce ne sera pas
ainsi: il répugne, en cela d’accord avec l’Art
dans son intégrité, qui est inventeur, à toute
Légende.[45] (il corsivo è aggiunto)
Nel dicembre del 1894 si ha la prima esecuzione del
Prélude à l’après-midi d’un
faune, che Debussy compose sull’omonima egloga di
Mallarmé. Mallarmé restituirà al compositore un
esemplare della partitura con le illustrazioni di Manet annotandovi
sopra alcuni versi, che evocano con una sinestesia il motivo della
luminosità: «Sylvain d’haleine première / Si
ta flûte a réussi / Ouïs toute la lumière /
Qu’y soufflera Debussy».[46] Nel 1902 il
Pélleas et Mélisande di Debussy, anch’esso
dramma di amore e di morte, si dimostra finalmente, per molti
aspetti, espressione matura e altissima di un teatro musicale
francese di segno opposto al teatro di Wagner.[47] In questo
contesto culturale, certamente condizionato da forme di
nazionalismo e di antagonismo franco-tedesco, in cui Bédier
non poteva non riconoscersi, si inscrive dunque anche il Roman
de Tristan et Iseut.
La riscrittura di Bédier orienta la vicenda dei
due amanti in senso minimalista, antieroico. I personaggi appaiono
soggiogati dal mistero, dal dubbio, dall’impotenza,
dall’imprevedibilità e dall’indecifrabilità
dei sentimenti e degli accadimenti; sono esaltati dalla dedizione,
dalla pietà, dall’umiltà, addirittura dalla
miseria. Ma soprattutto Bédier fa della leggenda di Tristano e
Isotta un romanzo luminoso. Persino nelle scene notturne, persino
nella vita di stenti condotta nella foresta del Morois trovano
posto momenti di luce che rischiarano l’oscurità.
Durante la notte dell’incontro segreto di Tristano e Isotta
presso il grande pino «la lune brillait, claire et belle»
(p. 68). Se è vero, come nota Corbellari, che nel capitolo del
grande pino prevale l’ambientazione notturna,[48]
è anche vero che si tratta di una notte rischiarata da molti
elementi di luce, ad esempio il marmo bianco del castello situato
nel paese meraviglioso da cui nessuno può fare ritorno che
Tristano descrive a Isotta, un castello che non è illuminato
dalla luce del sole, ma da mille candele, da una luce che impedisce
di rimpiangere il sole:
Mais un jour, amie, nous irons ensemble au pays
fortuné dont nul ne retourne. Là s’élève
un château de marbre blanc; à chacune de ses mille
fenêtres, brille un cierge allumé; à chacune, un
jongleur joue et chante une mélodie sans fin; le soleil
n’y brille pas, et pourtant nul ne regrette sa lumière:
c’est l’heureux pays des vivants» (p. 66).
E di seguito, l’alba rischiara le torri del castello di
Tintagel: «Mais au sommet des tours de Tintagel, l’aube
éclaire les grands blocs alternés de sinople et
d’azur» (loc. cit.). Nel Tristan di
Wagner, questo stesso luogo non è certo l’heureux
pays des vivants, ma è il paese dei morti, inesorabilmente
oscuro, è il prodigioso regno della notte da cui Tristano
proviene e dove desidera tornare:
Dem Land, das Tristan meint, / der Sonne Licht
nicht scheint, / es ist das dunkel nächt’ge Land, /
daraus die Mutter mich entsandt, / als, den im Todes sie empfangen,
/ im Tod sie ließ an das Licht gelangen / Was, da sie mich
gebar, / ihr Liebesberge war, / das Wunderreich der Nacht, / aus
der ich einst erwacht, / das bietet dir Tristan, / dahin geht er
voran.
(RICHARD WAGNER, Tristan und Isolde, II,
3)
Nel capitolo del Morois, nel fitto della foresta, il
viso di Isotta La Bionda è invaso dalla luce del sole
attraverso i rami che ricoprono la capanna nel momento in cui re
Marco li sorprende addormentati: «Le soleil, traversant la
hutte, brûlait la face blanche d’Iseut» (p. 108).
In luogo dell’oscurità del Tristano wagneriano, nel
romanzo di Bédier troviamo una luminosità diffusa. Il
mistero emana dalla luce e non dall’oscurità. Nel XVIII
capitolo, il luogo senza ritorno in cui Tristano, travestito da
folle, dichiara al re Marco di voler condurre Isotta, è una
maison claire, di cristallo, fiorita di rose, luminosa al
mattino quando il sole riluce: «Là-haut, entre le ciel et
la nue, dans ma belle maison de verre. Le soleil la traverse de ses
rayons, le vents ne peuvent l’ébranler; j’y
porterai la reine en une chambre de cristal, toute fleurie de
roses, toute lumineuse au matin quand le soleil la frappe» (p.
193). È il luogo descritto nelle due Folies
Tristan,[49] che Bédier ripropone anche a
conclusione del capitolo, enfatizzandone la valenza: «Je
n’ai plus que faire céans, puisque ma dame
m’envoie au loin préparer la maison claire que je lui ai
promise, la maison de cristal, fleurie de roses, lumineuse au matin
quand reluit le soleil» (pp. 204-205).
Ma Bédier fa della storia di Tristano e Isotta
anche un romanzo corale. Nell’opera di Wagner, lo si è
già accennato, la dominanza dei personaggi protagonisti è
assoluta, il coro ha la funzione di esaltare la dimensione eroica
dei protagonisti e l’azione drammatica. Nel romanzo di
Bédier, la voce della gente comune affiora per esprimere la
propria solidarietà, ad esempio, come si è visto, nei
confronti dei due amanti al momento della loro condanna. Un altro
esempio è contenuto nel capitolo V (Brangien livrée
aux serfs), dove Isotta, assillata da infondati timori di
tradimento, ordina di uccidere Brangania ai suoi servi, che
impietositi la risparmieranno: «Le serfs eurent pitié.
Ils tinrent conseil, et jugeant que peut-être un tel
méfait ne valait point la mort, ils le lièrent à un
arbre» (p. 56). Sempre nel capitolo V, la centralità del
sentimento di pietà è dimostrata anche dalle parole del
narratore, che sprona i lettori alla compassione per il gesto
insensato di Isotta: «Non, ce n’est pas de Brangien la
fidéle, c’est de son propre coeur que vient son
tourment. Écoutez, seigneurs, la grande traîtrise
qu’elle médita; mais Dieu, comme vous l’entendrez,
la prit en pitié; vous aussi, soyez-lui compatissants»
(p. 54). Nel romanzo di Bédier, dunque, è lo stesso
narratore che si fa portavoce di una coralità solidale, in
primo luogo verso i due innamorati, ma in generale verso i
personaggi che sono vittime di un destino avverso. Una
coralità solidale che assume valenza universale
nell’epilogo finale, dove il narratore, rivolgendosi
direttamente al pubblico, si fa portavoce degli autori medievali e
dichiara che il racconto è destinato a coloro che amano,
perché vi possano trovare consolazione:
Seigneurs, les bon trouvères d’antan,
Béroul, et Thomas, et monseigneur Eilhart, et maître
Gottfried, ont conté ce conte pour tous ceux qui aiment, non
pour les autres. Ils vous mandent par moi leur salut. Ils saluent
ceux qui sont pensifs et ceux qui sont heureux, les mécontents
et les désireux, ceux qui sont joyeux et ceux qui sont
troublés, tous les amants. Puissent-ils trouver ici
consolation contre l’inconstance, contre l’injustice,
contre le dépit, contre la peine, contre tous les maux
d’amour! (p. 220)
Ma gli stati d’animo e le contrarietà che
Bédier elenca sono della vita, non solo dell’amore,
secondo l’eterna sineddoche che sorregge la letteratura
erotica del medioevo e di tutti i tempi.
***
Senza dubbio Frank Martin ha amato molto il romanzo di Bédier,
tanto da dichiarare in un suo scritto su Le vin herbé
di averne potuto riprendere il testo integralmente, a riprova della
sua estrema perfezione («Je pus le prendre intégralement,
sans changement, ce qui est une preuve non équivoque de son
extrême perfection»).[50] Credo che la
principale attrattiva sia stata per Martin proprio la portata
universale e attuale del romanzo, di cui è emblematico
l’epilogo, che appare nella trascrizione manuale di Martin in
conclusione dello stesso scritto su Le vin herbé. Ma
Martin dichiara anche di essere rimasto impressionato dalla lettura
del romanzo di Charles Morgan Sparkenbroke, pubblicato con
successo nel 1936,[51] dove il protagonista attende alla stesura
di un romanzo di Tristano e Isotta, interpretando la vicenda dei
due amanti come trasposizione al contempo mitica e estetizzante
della sua relazione sentimentale con la giovane Mary.[52] Il
romanzo è preceduto da due epigrafi, la prima tratta dal
Fedro di Platone, l’altra da una lettera di Keats a
Bayley. Le epigrafi esprimono da un lato la difficoltà di
evocare «the realities of that other world […] by means
of the things of this world», dall’altro una visione
immaginifica della vita, «the truth of Imagination». Al
momento della sua immedesimazione nel personaggio di Tristano, per
Lord Sparkenbroke «To imagine was to live, to live was to
imagine».[53] Si tratta, com’è evidente, di
tematiche pienamente simboliste, centrali anche nel resto della
produzione di Morgan.
Nonostante la profonda diversità, il romanzo di
Morgan rimanda per alcuni aspetti al romanzo di Bédier, oltre
che per il mito di Tristano e Isotta, per il ricorrere di immagini
di luminosità, immagini in cui l’oscurità è
rischiarata dalla luce:
Now the rain was over. Across his patient’s
had lain a steel panel of sun; the roofs and chimney-stacks were
lightening and on the window-panes were thin streaks of gold; (p.
170)
White pansies would open their eyes, fir-needles
sparkle on crystal threads, mossy paths gleam at the edge of the
ticket; (p. 171)
Staring into the darkness whence came the muffled
hiss of leaves, he saw that close to the wall of the house a
glittering line was traced across the rain. From a window of the
room in which they had been setting a vertical beam was projected
outward between drawn curtains. (p. 292)
Nel passo in cui lord Sparkenbroke immagina il
viaggio di Tristano e Isotta verso la Cornovaglia, il viso di
Isotta, come nel romanzo di Bédier, è ancora associato
alla luce: «he saw her in the forepart of the vessel, her back
to him, her cheek engraved in light upon the eastern sky» (p.
184). Nella descrizione della nave di Tristano e Isotta si legge
«Under the ship, the water clucked and whispered; the deck was
washed in that airy translucence which, on the open sea, shines in
calm weather between dusk and darkness» (p. 185). Lo stile di
Morgan ha poco a che vedere con l’asciuttezza della
riscrittura di Bédier, ma un comune gusto per le immagini di
luce credo sia innegabile. In comune con Bédier Morgan aveva
anche l’antigermanismo. Ufficiale della marina militare
britannica, cadde prigioniero dei tedeschi durante la Grande Guerra
e nel secondo conflitto mondiale entrò nei servizi segreti.
Dopo la guerra fu a lungo critico teatrale del Times,
rappresentando una delle voci ufficiali e moderate della cultura
inglese.[54]
Torniamo al simbolismo. È forse superfluo
sottolineare quanto in Wagner, e nel Tristan und Isolde in
particolare, siano importanti le immagini crepuscolari e notturne,
che segnano il passaggio dal regno della luce a quello
dell’ombra, in una direzione inversa rispetto
all’oscurità rischiarata dalla luce che è tratto
proprio sia del romanzo di Bédier sia di Sparkenbroke.
Ho già ricordato la terza scena del secondo atto del Tristano
wagneriano, dove Tristano si rivolge a Isotta in presenza di re
Marco e le chiede di seguirlo in una terra oscura, di segno opposto
alla maison claire del Tristano di Bédier. Credo che
nel romanzo di Bédier, come anche in Sparkenbroke, si
senta invece l’eco di un simbolismo in cui prevale una
tendenza alla clarté, di un simbolismo di matrice
parnassiana, che può dirsi incarnato dal bianco glaciale e
dall’Azur di Mallarmé.
Negli Entretiens sur la musique, serie di
interviste rilasciate a Radio Ginevra, Frank Martin dichiara di non
sentirsi né francese né tedesco, ma di sentirsi
fondamentalmente svizzero: «Oui, je me sens Suisse. Au fond,
je suis très heureux, et assez fier, d’être
Suisse».[55] Gli Entretiens risalgono alla
metà degli anni Sessanta, a un’epoca che è ormai
lontana dalla guerra e dai furori nazionalistici che
l’accompagnarono. Ma l’adozione del romanzo di
Bédier per Le vin herbé, avvenuta alla vigilia del
secondo conflitto mondiale, mi sembra invece denunciare una scelta
di parte, la volontà di riferirsi all’universo del
simbolismo francese. Si può anzi dire che nell’oratorio
di Martin si assista a un ulteriore processo di semplificazione del
testo, già semplificato da Bédier, a
un’accentuazione del minimalismo, della componente antieroica
e corale (la voce del narratore è costantemente affidata al
coro), e al contempo a un’esaltazione della
clarté, rivelata anche e soprattutto dalla scrittura
musicale, come si vedrà nella seconda parte del
contributo.
Le vin herbé nasce nel 1938 come oratorio
in un’unica parte, tratta dal IV capitolo (Le philtre)
del romanzo di Bédier, il cui testo rimane pressoché
invariato. Tra il 1940 e il 1941, cioè durante il secondo
conflitto mondiale, quando la politica nazista aveva ormai reso
pienamente espliciti i suoi obiettivi, Martin completa
l’oratorio con altre due parti. In queste parti il testo di
Bédier viene in realtà parzialmente manipolato. La
seconda parte riprende la conclusione del capitolo IX (La
forêt du Morrois) e l’inizio del capitolo X
(L’ermite Ogrin). Il primo quadro è tuttavia
costituito da un mosaico di frasi riprese da più luoghi dei
capitoli V (Brangien livrée au serfs), VI (Le grand
pin) e VIII (Le saut de la chapelle), mosaico in cui
Martin inserisce una parte originale, funzionale alla comprensione
della vicenda. Anche il secondo quadro si apre con una parte di
testo originale, in cui Martin sintetizza la premessa
dell’episodio in cui re Marco sorprende i due amanti
addormentati nella foresta, incastonandovi un’immagine di
luminosità tratta dal romanzo, che riprende sia l’idea
di clarté sia l’idea della casa fiorita della
Folie Tristan di Oxford: «Un jour, guidé par un
forestier, le roi Marc les a trouvés dormant. Dans une
clairière ensoleillée, il vit la hutte fleurie»; nel
romanzo: «Ils approchèrent encore, et soudain, dans une
clairière ensoleillée, virent la hutte fleurie» (p.
107). Il primo quadro della terza parte è anch’esso
costituito da un collage di frasi, questa volta prese dal capitolo
XV (Iseut aux blanches mains). Per il resto, il testo di
Bédier è privato di passaggi estranei alla
rappresentazione della passione amorosa tra i due protagonisti.
D’altra parte, rispetto al romanzo nella sua globalità,
Martin dimostra di non essere interessato ai capitoli
sull’infanzia di Tristano, sulle sue prodezze eroiche e i
suoi viaggi, sui sotterfugi e gli espedienti dei due amanti, sulla
malvagità dei loro avversari. Come Wagner, Martin mette in
scena solo l’amore-passione, ma a differenza di Wagner,
l’amore-passione di Martin non si nutre della certezza dei
sentimenti, della condanna delle convenzioni, della vecchiaia,
della debolezza; l’amore-passione di Martin esalta,
attraverso la riduzione, gli aspetti portanti
dell’interpretazione di Bédier e della tradizione
narrativa medievale, insistendo sulla contraddittorietà dei
sentimenti, sull’inafferrabilità del reale,
sull’inspiegabilità della sofferenza e sulla sua
inevitabilità. Si può anche aggiungere che con la seconda
e con la terza parte l’opera di Martin finisce per
corrispondere nelle sue grandi linee al Tristan di Wagner
(innamoramento, relazione amorosa, morte). Ma si tratta in
realtà della negazione di ogni corrispondenza.
Concludo tornando sull’epilogo, dove il
narratore offre la sua storia esemplare perché vi si possa
trovare consolazione, per sottolineare che nel testo di
Bédier, ripreso alla lettera da Martin, esso fa seguito alla
descrizione delle tombe dei due amanti, unite dall’arbusto
verde e fiorito che rinasce miracolosamente nonostante i tentativi
di estirparlo. Nell’ultimo entretien, Martin riporta
un passo di una lettera di Haydn, in cui si sostiene che il
principale compito di chi compone musica è portare pace e
consolazione:
C’est bien de cette façon qu’il
faut poser le problème de la responsabilité du
compositeur. Ne devrions-nous pas revenir à la vision si
grande, et à la fois un rien naïve, de Haydn? Ne
devrions-nous pas apporter aux hommes, à l’humanité
pour tout dire, la «paix et la consolation»?[56]
Nello stesso entretien Martin insiste sulla
funzione etica della musica, il cui valore estetico ritiene
imprescindibile dalla verità: il compositore deve mettersi al
servizio non dell’espressione ma di ciò che è
necessario esprimere: «Cela signifie au fond que la musique ne
doit guère se mettre au service de l’expression de soi,
comme on l’a longtemps cru, mais qu’elle doit se mettre
au service de cela qui est à exprimer;
c’est alors que surgit la vraie beauté, qui est
vérité, et qui fonde la perfection purement
esthétique», commenta l’intervistatore a
chiarimento delle affermazioni di Martin.[57] Di fronte alla
tragedia della guerra, la verità, per Martin e per il mondo
intero, non può che essere la speranza della pace. Nel 1944
Martin compone l’oratorio In terra pax,
commissionatogli da Radio Ginevra perché venisse trasmesso al
momento della cessazione delle ostilità. Secondo quanto Martin
stesso esplicita, In terra pax vuole rappresentare la
necessità, l’inevitabilità della pace:
«l’humanité écrasée par la catastrophe et
son retour à la lumière de l’espérance»,
«le passage de l’angoisse la plus noire à
l’espoir d’un temps plus lumineux».[58]
Ancora dall’oscurità alla luce. In questa prospettiva
credo sia lecito pensare che nel suo assetto definitivo Le vin
herbé intendesse esprimere un’alternativa di
consolazione e di rinascita a quanto della cultura tedesca era
diventato strumento della propaganda nazista, icona di una politica
di persecuzione e di morte.
Bédier muore nell’agosto del 1938, proprio
mentre Martin progettava o forse già componeva la prima parte
del suo oratorio, che gli era stato commissionato nella primavera
di quell’anno.[59] Non sappiamo se Bédier fosse a
conoscenza del progetto di Martin, ma possiamo dire che attraverso
Le vin herbé il simbolismo ‘antitedesco’ di
Bédier, la sua visione della letteratura e della storia sono
sublimati e inglobati in un’opera di rara suggestione e di
altissimo livello artistico.
PARTE SECONDA
di Maria Caraci Vela
Il «Roman» di Bédier
nell’interpretazione di Martin
È stato più sopra ricordato come nel
Roman il filtro – l’elemento simbolico centrale
– sia la causa immediata e ineliminabile del nascere,
divampare e perdurare senza fine della passione, mentre
nell’interpretazione wagneriana l’assunzione del filtro
portava alla luce, con la reciproca confessione degli amanti, una
passione già serpeggiante ma fino ad allora solo oscuramente
allusa.[60] La solare rilettura bedieriana del mito
trova una rispondenza immediata ma una declinazione diversa nel
calvinista Martin, per il quale la passione – indotta, come
per Bédier, dal filtro – è il portato di un destino
inesorabile, di cui si possono analizzare i segni ma a cui non si
può sfuggire, perchè resta fuori dal raggio
d’azione della volontà e delle possibilità umane.
Non esistono vie di scampo, né strategie per ingannarlo o
allentarne la morsa, e qualsiasi tentativo di deviarne il corso non
può che essere sterile e destinato al fallimento: come lo
sarà il silenzioso delirio di rinuncia su cui si chiude
l’atto della notte, così diverso da quello del
secondo atto di Tristan und Isolde, dedicato al delirio
della passione. Pertanto, anche il personaggio di Isotta dalle
Bianche Mani, che Wagner elimina perché non funzionale alla
sua visione del dramma e dunque potenzialmente inutile e
dispersivo, acquista per Martin un significato preciso come simbolo
dell’impossibilità d’ogni soluzione alternativa e
d’ogni tentativo di fuga.
Le vin herbé nasce prima di tutto come
atto del filtro, centrato appunto sul tema del destino; tra esso e
il completamento dell’opera nella forma in cui fu eseguita a
Zurigo nell’aprile 1942, ci sono di mezzo gli anni di guerra
1938-1941. Dal suo osservatorio isolato, Martin – che si
sentiva svizzero francofono con radici culturali germaniche
–[61] veniva maturando quel disagio profondo
nei confronti della guerra e quel grande desiderio di
pacificazione, che avrebbero trovato voce nell’oratorio Et
in terra pax del 1944. In questo contesto Wagner, col bagaglio
delle implicazioni che portava in quegli anni con sé,
rappresentava per Martin non tanto un termine di riferimento
imbarazzante, quanto piuttosto un’assenza: o, se mi si passa
l’ossimoro, un’assenza silenziosamente esibita.
L’estraneità rispetto al modello di Wagner
è evidente a tutti i livelli: quello
dell’interpretazione del mito, dell’organizzazione
formale e drammaturgica, delle tecniche compositive, della
strumentazione, della vocalità.
Per quanto concerne la scelta della forma e
dell’organico, condizionate dalla volontà del
committente, la decisione di scrivere un ‘oratorio da
camera’[62] non era soltanto un ottimo
escamotage per bloccare automatici confronti col Tristan
und Isolde, ma si rivelava felicemente congeniale a Martin,
sempre attratto dalla composizione a pannelli chiusi, che isolano
porzioni di un testo poetico o prosastico proponendo esse sole
– e non il continuativo flusso dell’azione –
all’attenzione dell’ascoltatore. Tutte le grandi opere
vocali e strumentali di Martin sono concepite così: da Et
in terra pax a Golgotha, da Le mystère de la
nativité a Maria Trypticon, Le Cornet,
Jedermann, fino a Et la vie l’emporta. Una
struttura di questo genere ricorre anche in un’opera
strumentale come Erasmi monumentum, concepita in tre parti
distinte, ad illuminare tre forti aspetti del personaggio alluso:
l’equilibrata padronanza di sé (Homo pro se), la
Stultitiae laus (le cui parole, tradotte in francese, sono
riportate, per orientamento dell’interprete e
dell’ascoltatore, in capo alle pagine) e la Querela
pacis (contro le dispute religiose).
Ne Le vin herbé Martin, sulla base della
selezione da lui operata sul testo di Bédier, sostituisce alla
dinamica della concezione wagneriana una struttura che circoscrive
e blocca, come sotto i raggi di un riflettore, il movimento delle
passioni e degli eventi, fissandolo in quadri racchiusi dalla
cornice di Prologo ed Epilogo, e rinuncia
all’impiego di possibili ‘temi conduttori’, che
il testo del Roman suggeriva in abbondanza: in sintonia con
l’uso – più sopra messo in luce da Maria Sofia
Lannutti – che Bédier aveva fatto delle ricorrenze di
elementi simbolici nella narrazione, Martin introduce invece, con
velate funzioni allusive, particolari analogie musicali correlate
ad analogie di situazioni. Si veda, per esempio, la menzione del
filtro e del destino, e l’accostamento di amore e
morte;[63] l’invocazione ai dedicatari del
roman (Seigneur/seigneurs) che compare nel prologo,
in due sedi all’interno della terza parte (quadro I e quadro
IV), e nell’epilogo.[64]
Invocazione ai dedicatari
del roman
FRANK MARTIN, Le vin
herbé, 2CD, Harmonia Mundi, 2007 (HMC 901935.36)
RIAS Kammerchor, Scharoun Ensemble, dir. Daniel Reuss, Sandrine
Piau (Isotta), Steve Davislim (Tristan), Roland Hartmann (Duca
Hoël), Hildegard Wiedemann (Isotta dalle Bianche Mani).
La tensione cui il cromatismo tristaniano aveva
sottoposto il linguaggio musicale all’altezza del 1865, non
era di certo più attuale per il Martin degli anni 1938-1941.
Nonostante il rapporto mai reciso con le radici tonali, il
cromatismo di Martin definisce lo status della musica, e non
instaura tensioni né provoca aspettative di risoluzioni. Del
resto, anche rispetto al Pelléas, sempre invocato come
termine di confronto per Le vin herbé, il cromatismo di
Martin (entro il quale si risolve anche il personalissimo uso della
serie),[65] è più radicale. Se infatti
nell’opera di Debussy mutano di volta in volta, sempre
chiaramente espresse, le armature di chiave che rimandano comunque
ad una, per quanto ‘fluttuante’, tonalità, ne
Le vin herbé questo non si verifica più. Non
esiste una tonalità d’impianto, anche se ogni singolo
accordo può essere leggibile tonalmente; le alterazioni sono
apposte davanti ad ogni singola nota che le richieda: il cromatismo
è per Martin il naturale spazio della musica e non un suo modo
di essere.[66]
La clarté bedieriana, su cui ha più
sopra richiamato l’attenzione Maria Sofia Lannutti, trova in
Martin una sintonia profonda, e si traduce nel rifiuto di atmosfere
crepuscolari e notturne, nella prevalenza del disegno sullo
sfumato, nel nitore della forma scandita in episodi narrativamente
e musicalmente conclusi, a fissare i momenti essenziali e i
movimenti elementari della passione, dipinti col distacco di un
lirismo penetrante ma contenuto: come la passione indotta dal
filtro non è colpevole, crea dolore e a tratti rimorso, ma non
rovelli tortuosi della coscienza, così la musica adotta, con
mezzi minimalisti, un linguaggio essenziale, un tessuto armonico
trasparente, in cui la libertà e la novità non coincidono
mai con la complessità e l’ambiguità delle
funzioni. La dimensione ‘luminosa’ della narrazione
bedieriana si traduce spesso nel gioco di riverberi fra la
superficie sonora offerta dagli strumenti e il canto narrativo o
drammatico che su di essa si staglia, come sul piano dorato di
un’icona si stagliano le figure.[67] Se queste scelte
possono essere interpretate, almeno in parte, come una più o
meno consapevole volontà di prender le distanze dal Tristan
und Isolde, il traguardo della maturità stilistica con cui
si affermava, secondo la pregnante definizione di Piguet, «le
génie de votre expression à l’état pur»,
era stato raggiunto attraverso un itinerario in cui i modelli
wagneriani non avevano avuto incidenza, né in positivo né
in negativo.
Il lavoro analitico sul rapporto musica-parola
condotto ne Le vin herbé è stato fondamentale per
le composizioni vocali successive. A proposito di quel rapporto,
che una acuta sensibilità linguistica rendeva oggetto di
centrale interesse nella composizione vocale, Martin ha fatto i
nomi di Lully e Debussy come principali punti di riferimento e
oggetti di studio.[68] Per quanto riguarda il primo,
l’impegno assunto da Martin a fornire una revisione di
Armide[69] gli aveva offerto
l’opportunità di analisi dirette e di molte riflessioni.
Quanto a Debussy – che Martin ha sempre riconosciuto
fondamentale per la propria formazione –[70] il termine
di confronto più diretto è, ancora una volta, il
Pelléas: ma, come si è detto, Martin orienta in
maniera ad un tempo più radicale e meno carica di tensioni la
base cromatica sulla quale costruisce il declamato de Le vin
herbé, che applica anche e soprattutto al coro (che nel
Pelléas non c’è).
Ne Le vin herbé le voci cantano
esclusivamente in maniera sillabica, ad eccezione delle due
esclamazioni di Isotta sulla parola chétive, poco sopra
citate, in cui si dispiega in entrambi i casi un modesto (e
differente) melisma.
Non c’è sempre corrispondenza tra singola
voce e personaggio: il quale può parlare attraverso la
compagine accordale di tre voci, o essere espresso da una voce
solista. I due protagonisti hanno spazi vocali, dunque, non sempre
nettamente divisi da quelli del coro, con due espansioni più
ampie nella terza parte dell’oratorio: Tristano nel
dialogo con Kaherdin[71] e Isotta nel viaggio verso la
Bretagna.[72] La declamazione corale omofonica ricorre
spesso anche nella estrema forma di raddoppi in ottave e unisoni;
in diversi casi le voci cominciano in unisoni e ottave per poi
dividersi al loro interno ciascuna – o solo alcune – in
2 o in 3 parti.[73] Il dominio dell’interesse armonico
su quello contrappuntistico è una costante della musica di
Martin, e ne Le vin herbé è assolutamente
preponderante: inutile cercarvi passaggi del tipo di quelli che
caratterizzano fortemente, per esempio, il Kyrie o il
Sanctus del Requiem o il sapiente e multiforme
contrappunto degli Psaumes de Genève. Talvolta
l’omofonia degli strumenti richiama direttamente gli effetti
di un declamato corale: come, per esempio, nel discorso della madre
di Isotta a Brangania.[74]
Il contrappunto si riduce a movimenti essenziali
quando non a semplici accenni: si veda per esempio il coro
Tristan est mort,[75] dove la frequenza
trasversale della breve figurazione semiminima – semiminima
puntata – croma – semiminima, nonché i modesti
sfasamenti fra le entrate delle voci suggeriscono semplicemente
l’idea – e non la reale presenza – del
contrappunto.[76]
Il compito degli strumenti è in primo luogo
quello di fornire un fondale sonoro per il coro e/o i solisti;
oppure, gli strumenti rispondono a funzioni dialogiche ed
espressive nelle situazioni in cui, in un’apparente
immobilità fisica, i personaggi sono scossi da violente
emozioni. Si veda per esempio Tristan était trop
faible.[77]
Sul proprio modo di comporre Martin ha lasciato
informazioni importanti, ed esemplificazioni che si basano proprio
su Le vin herbé;[78] ha insistito
sulla natura artigianale del suo lavoro[79] e soprattutto ha
tenuto a distinguere la composizione su testo da quella strumentale
‘pura’. Per entrambe ha confessato il suo «besoin
de prendre un point d’appui ailleurs, qui me polarise en
quelque sorte»;[80] e il suo «point d’appui»
è dato nel primo caso dal testo verbale e dalle sue interne
articolazioni,[81] nel secondo dal superamento di una sfida
del compositore con se stesso, dalla soluzione di un problema
tecnico o formale:[82] ma l’emozione creativa, anche se
sollecitata da stimoli extramusicali, resta espressione di
dinamiche puramente musicali.[83] La composizione
strumentale si fonda sull’elaborazione motivica, assai ben
documentata in fase di abbozzi, e già impostata nelle
particelle.[84] Ma la scrittura strumentale
all’interno delle opere vocali risponde a una logica diversa.
Nel caso de Le vin herbé, il tessuto connettivo degli
otto strumenti fornisce, come si è detto, un accompagnamento
discreto, che dà profondità e spazi di risonanza
all’espressione vocale.
Per esemplificare il proprio, personalissimo uso
della serie, nella nota intervista rilasciata a Piguet e confluita
negli Entretiens, Martin ha citato passi da Le vin
herbé;[85] lo stesso ha fatto a proposito di una
tecnica compositiva, assolutamente fondamentale nella sua opera,
che Piguet aveva chiamato della «fausse basse».[86] La
tecnica è spiegata[87] come una
costruzione di ‘accordi semplici’ la cui percezione
è continuamente variata dal continuo mutare dei loro rapporti
con la linea del basso, dal momento che «Il suffit du moindre
déplacement dans un enchaînement harmonique pour que non
pas l’effet, mais le sens même de cet enchaînement
harmonique change de tout au tout».[88] Nelle parole di
Piguet, «la basse se déplace elle-même et engendre
par son propre mouvement, qui n’est alors plus seulement
mélodique, mais harmonique, la perspective
tonale».[89]
Si tratta di un principio ampiamente sviluppato da
Martin, che lo riprende da J.S. Bach, e cita in particolare un
semplice esempio dall’Aria della Suite per
orchestra n. 3 in Re maggiore (BWV 1068).[90]
Mis. 2 :
Martin nega che la risoluzione del Fa sia il Sol. La percepisce invece sul Mi. Ma
quando siamo sul Mi, l’accordo è già mutato per il
movimento del basso. Quando la melodia arriva sul Do è sulla terza di La
maggiore, ma quando arriva sul La, l’armonia è cambiata
e il basso orientato diversamente. Fino alla prima cadenza questo
movimento sfasato non cessa. «Toutes les notes
mélodiques, lorsqu’elles sont tenues, sont
‘animées’ par le changement
harmonique».[91]
Il richiamo a J.S. Bach – che per Martin ha
rappresentato il punto di riferimento assoluto («Bach a
été mon maître dès mon enfance»),[92] di
valenza atemporale, sottratto ai limiti e alla necessità di
ogni contestualizzazione, rimanda, pur nella sua estrema
semplicità, al problema della ricezione di modelli storici
nella musica di Martin, dalla cui interpretazione è dipeso
come egli sia stato collocato nel panorama del Novecento
musicale.
Nella formazione e nell’evoluzione stilistica
di Martin, come lui stesso ha più volte esplicitamente
ricordato, sono stati importanti da un lato musicisti vicini o
contemporanei, da César Franck e Debussy a Ravel, Honegger,
Schönberg, Stravinsky, e dall’altro pochi e isolati
più remoti, sentiti come modelli trasversali nel tempo: come
Haydn («Haydn est devenu pour moi un maître,
précisément à cause de sa liberté et surtout de
sa liberté rythmique»),[93] Chopin («On
y trouve une richesse et des audaces harmoniques incroyables»)
e, in misura incomparabilmente superiore a tutti, appunto, J.S.
Bach.[94]
Il rapporto diretto con modelli musicali che si
spingono fino a due secoli indietro, e con forme e tecniche
compositive del passato pre-ottocentesco – attestato da
titoli come passacaglia, pavana, sonata da
chiesa, ciaccona, sinfonia concertante –
hanno fatto sì che Martin sia stato collocato, senza
supplementi d’indagine, fra gli esponenti del
neoclassicismo musicale. L’ambiguità del termine
e la varietà di significati che lo hanno accompagnato in campo
musicale dalla metà dell’Ottocento in poi – sulla
cui utilità epistemologica non c’è accordo unanime
nella musicologia attuale –[95] sono state
oggetto di molte riflessioni.[96] Impiegato per
designare in un primo tempo la funzione paradigmatica dei classici
viennesi nei confronti di alcuni musicisti del secondo Ottocento
(Brahms in primis), il termine passò poi a indicare una
diffusa tendenza al recupero di tradizioni musicali e nazionali
preromantiche in funzione antiwagneriana, e infine, a partire dal
secondo dopoguerra, un certo tipo di composizione su ipotesto o su
modello alluso, di cui gli esempi di maggior peso erano ravvisati
in Stravinsky.[97]
Il termine è ambiguo e passibile di molti
significati diversi: ma non può applicarsi a definire ogni
tipo di attività compositiva che si sviluppi in relazione ad
un modello musicale del passato, perché in tale
onnicomprensiva accezione perderebbe ogni utilità e ogni
pregnanza, e troverebbe motivo di applicarsi a tutte le epoche a
noi note della storia della musica universale.
Giseler Schubert ha ribadito l’esistenza di
declinazioni diverse di Neoclassicismo per la musica del
Novecento:
Neo-classique oder Neoklassizismus meint also in der
französischen Musik der Jahrhundertwende die bruchlose und
organische Anverwandlung historischer Formtypen im Sinne eines
‘genetischen Zusammenhangs’ zwischen den entsprechenden
formalen Verfahrensweisen, bei Stravinsky das Auseinanderbrechen
historischer Formmodelle und das distanzierende,
künstlich-mechanische Zusammensetzen der Bruchstücke, bei
Schönberg die Differenzierung und Überschaubarkeit des
komplexen motivisch-thematischen Prozesses durch eine traditionelle
Formdisposition als Bezugsrahmen und schließlich bei Hindemith
die originäre Formenwelt der ‘beziehungsvollen
Reihung’, die satztechnisch von gewissen standardisierte
Satztypen getragen wird.[98]
Due sono oggi i significati con cui
neoclassicismo si applica generalmente in ambito
musicologico, per la prima metà del XX secolo:
-
ideale compositivo di semplificazione formale,
di alleggerimento degli organici strumentali, di linearità e
di chiarezza, di diatonicità e di accentuazione delle funzioni
melodiche. Vi hanno afferito indirizzi come la Neue
Klassizität a cui pensava Mann[99] e la
Jugendliche Klassizität di Busoni[100] (o anche
la Neue Sachlichkeit tedesca e la Nuova
oggettività italiana);[101]
-
musica scritta in relazione ad altra musica,
da cui riprenda tipologie formali, o tecniche compositive
storicamente connotate, evidenziandone
l’alterità.[102] In questo
significato il neoclassicismo musicale si muove entro le
categorie intertestuali di architestualità,
intertestualià di citazione,
ipertestualità,[103] e comporta non
solo la presenza – trasparente o allusa – di un modello
preesistente, ma soprattutto la accentuazione della distanza
storica che intercorre tra il linguaggio musicale del modello e
quello dell’opera nuova,[104] che assimila,
piega, elabora e distorce, rendendo percepibili come innovativi ma
nel contempo anche riconoscibili come storicamente connotati
stilemi e/o tecniche compositive del passato.[105]
Nel primo significato, il termine non calza alla
musica di Martin, anche se in essa la semplicità figura
effettivamente come un valore aggiunto, una eleganza suprema della
composizione. Ma la semplicità di Martin, l’amore
per la chiarezza e la trasparenza nell’organizzazione delle
forme, nella strumentazione, nella scrittura polifonica, non nasce
dal rifiuto della tradizione tardo-ottocentesca, dalla rinuncia
all’ipertrofia sinfonica, alla proliferazione degli sviluppi,
alla logica costruttiva dell’elaborazione tematica,[106]
bensì da un più sottile processo di decantazione.[107]
E soprattutto, la semplicità per Martin non porta con
sé alcuna prevalenza delle ragioni lineari e melodiche: la
melodia, considerata come in sé problematica e non
autosufficiente, non ha per lui esistenza autonoma, ma è
creata e sostanziata dall’armonia.[108] La
semplicità non comporta neppure un rinnovato interesse
per il diatonismo, che per Martin, almeno all’altezza
cronologica degli Entretiens, si coniuga generalmente non
con la composizione ‘alta’, ma piuttosto con le forme
‘leggere’ o con la sfera del comico.[109]
Quanto al secondo significato, Martin integra spesso
nel proprio orizzonte creativo categorie formali e tecniche
compositive del passato e, analogamente, stimoli da un quadro
culturale ‘diverso’ ma non remoto: dal jazz, dal
folklore spagnolo o irlandese, dalla musica popolare;[110]
ma lo fa in modo da attenuarne – e non mai accentuarne
– la distanza e l’alterità.
Il richiamo a forme o a tecniche altre ha una
funzione forte, come fonte di stimoli creativi, nella composizione
strumentale, dove il «point d’appui» consiste
proprio nella ‘sfida’ lanciata da un elemento musicale
estraneo o remoto rispetto alla musica eurocolta del Novecento, o
dalle peculiarità timbriche e dalle possibilità tecniche
di uno strumento particolare.
Fra i molti casi che si possono citare in proposito,
devono essere ricordate la Petite Symphonie concertante
(1944); la Passacaglia per organo (1944; rispondono alla
stessa logica anche le trascrizioni d’autore), di cui ha
parlato Antonio Delfino in questa sede, le ballate per strumento
solista e orchestra (Ballade pour saxophone, 1938;
Ballade pour flûte, 1939; Ballade pour piano,
1939; Ballade pour trombone, 1940; Ballade pour
violoncelle et piano ou orchestre, 1949; Ballade pour alto,
orchestre à vent, clavecin et harpe, 1972), che non
prendono il loro titolo dall’aderenza ad una forma
storicamente configurata, ma sfruttano le possibilità di
singoli strumenti entro cornici formali che prescindono da puntuali
modelli storici;[111] e soprattutto l’ardua Sonata da
chiesa per viola d’amore e organo (1938, poi trascritta
da Martin per flauto e organo, e per oboe d’amore e organo).
In quest’ultima, commissionata dall’organista Hans
Balmer, la scansione dei tempi in Andante, Allegretto
alla francese (con Musette al suo interno),
Adagio, richiama vagamente lo schema formale (non certo il
registro espressivo, né le dimensioni, né tanto meno il
linguaggio musicale) di una sonata da chiesa tardoseicentesca, ma
il punto di partenza di Martin è in questo caso soprattutto
l’esplorazione delle capacità timbriche ed espressive
della viola d’amore in dialogo con uno strumento dotato di
risorse incomparabilmente più grandi, come l’organo:
«deux instruments pour lesquels je n’avais jamais rien
écrit et que je n’avais jamais entendu marier leur
sonorité. Rien ne m’excite d’avantage à la
composition que de semblables problèmes».[112]
Nel neoclassicismo di Martin non ci sono casi
à la manière de (neppure l’Ouverture en
hommage à Mozart rientra in questa categoria),[113]
né di musica ‘al quadrato’. La
‘parodia’ è intesa nel senso di deformazione
grottesca di un modello alluso, e in relazione alla sfera del
‘comico’;[114] e non nel
significato etimologicamente proprio, per secoli applicato alla
musica con esiti importanti, di ‘musica sopra altra
musica’.[115]
Questa tuttavia non manca certo nella produzione di
Martin: e fra gli esempi di musica scritta su un ipotesto, il
più perspicuo è quello dei Psaumes de Genève
(commissionati per il quarto centenario dell’università
di Ginevra, nel 1959), in cui Martin esperisce le possibilità
costruttive della composizione su cantus firmus con
ricchezza di soluzioni originali, che piegano e adeguano tecniche
elaborative di quattro secoli prima. Il cantus firmus
circola nelle voci, sottoposto a procedimenti contrappuntistici,
canonici, di variazione, in una fitta rete di rinvii
all’interno della polifonia, che saldano in un tessuto
coerente ma in una trama continuamente mutevole le semplici melodie
di Loys de Bèze. L’attenzione di chi ascolta (e di chi
legge) viene catturata dalla inesauribile inventiva del trattamento
di parafrasi; i cantus firmi impregnano la polifonia col
carico dei loro rinvii ai testi devozionali cui sono legati, in una
prospettiva del tutto transtemporale, che li rende a tutti gli
effetti integrati nel linguaggio e nel sentire dell’oggi,
senza che la distanza storica ne risulti in alcun modo esibita o
enfatizzata.
Ma, fatte le eccezioni di Bach e del Salterio
ginevrino, che costituiscono un patrimonio musicale
profondamente interiorizzato fin dall’infanzia negli anni di
formazione, il rapporto di Martin con la musica del passato è
quasi sempre mediato. Ovvero: la musica del passato agisce su
Martin non direttamente, ma attraverso la mediazione del
presente. Martin parte dalle attualizzazioni contemporanee di
modelli remoti, è attratto e ispirato da una forte
mediazione moderna, e non da un diretto contatto con un
più o meno lontano modello di riferimento, storicamente e/o
geograficamente connotato. La letteratura dei secoli passati ha
esercitato su di lui un influsso sia mediato (Hans Sachs attraverso
Hoffmannsthal, François Villon attraverso Léon
Bessières, la leggenda di Tristano e Isotta attraverso
Bédier, per esempio) sia, più spesso, diretto (Machaut,
Gréban, Ronsard, Shakespeare, Molière, Racine); la musica
dei secoli passati quasi esclusivamente un influsso mediato
attraverso altra musica del Novecento.[116] Opere come i
Quatre sonnets à Cassandre (1921) o la Pavane
couleur du temps (1920) nascono certamente
dall’humus di una cultura ampia e profonda, che ammira
e conosce la poesia del Rinascimento francese, le fiabe di
Perrault, la musica strumentale del XVII secolo: ma il rapporto coi
remoti referenti musicali si instaura in questi casi attraverso la
mediazione del Ravel della Pavane pour une enfante
défunte (1910), di Ronsard à son ame (1923),
di Don Quichote à Dulcinée (1923). Ravel è un
tramite, non un diretto modello, ma nella sua mediazione la
sintonia con gli oggetti dell’evocazione musicale risulta
amplificata nel filtro di un lirismo antiromantico e pudico, di una
cristallina clarté della forma e del linguaggio
armonico, e senza alcuna accentuazione della distanza storica tra
quei referenti nominali e la musica di Martin. Del resto, Martin
non è mai stato un cultore della musica
‘antica’:[117] e in proposito
il suo punto di vista si direbbe assai vicino a quello di Thomas
Mann, che la concepiva come un mondo di grazia e di equilibrate
proporzioni, una sorta di flebile antidoto agli eccessi della
febbrile eccitazione e della complessità compositiva
postwagneriana.[118]
Nella presentazione di un’opera di grande
finezza compositiva come i Quatre sonnets à Cassandre
per mezzosoprano, flauto, viola e violoncello, Martin ha
espressamente manifestato proprio questa concezione: «Les
instruments d’accompagnement, la flûte, l’alto et
le violoncelle, ont aidé le compositeur à créer
l’atmosphère d’intimité qu’il
cherchait, en enveloppant la voix d’un voile léger qui
évoque les instruments anciens, en l’aidant de leur
sonorités vibrant dans l’expression d’une passion
brûlante, mai toute contenue».[119]
Per le opere di ispirazione medievale o
rinascimentale, Martin, sensibilissimo al fascino evocativo dei
loro testi poetici o prosastici, non subisce dirette sollecitazioni
dalla musica della loro epoca. Se pensiamo, per esempio, al
Medioevo dei Drei Minnelieder (1960) – peraltro
diversissimo e lontanissimo da quello de Le vin herbé
– il discorso non cambia. Il mondo dei
Minnesänger è evocato con una scrittura
raffinatissima,[120] ma né la natura
dell’accompagnamento strumentale né tanto meno quella
dell’umbratile melodia vocale veicolano medievismi musicali o
tanto meno suggeriscono espressionistiche distorsioni di essi.
Circa i motivi della scelta del testo poetico di Machaut per
l’Ode à la musique (1961), e più in
generale circa il fascino che la poesia medievale aveva per lui,
Martin stesso dà conto in A propos de, ma senza alcuna
menzione di un contatto diretto con la musica di Machaut.[121]
L’Ode non manca, tuttavia, di momenti indubbiamente
evocativi sotto l’aspetto musicale: una percepibile patina
sonora di Medioevo nasce in questo caso non da un’improbabile
rilettura della polifonia dell’Ars Nova francese, ma
piuttosto dalla ricostruzione interna, mentale, di un ethos
musicale remoto, condotta per mezzo di richiami a taluni aspetti
della polifonia medievale: come la prevalente ternarietà
dell’impianto ritmico, la tipologia degli intervalli e una
studiata propensione – non certo istintiva in Martin –
al diatonismo. Si veda il Gloria:[122]
Ode à la Musique, Gloria - The Sixteen, Harry
Christophers (dir.) (download del file
in formato MP3)
FRANK MARTIN, Mass for Double Choir. Songs of
Ariel. Ode à la Musique. Cantate pour le 1er Aout.
Chansons, 1CD, Coro, 2005 (COR16029)
Tramite la doppia mediazione di Bédier e di
Morgan,[123] Martin accostò il mito di Tristano
e Isotta in sintonia con la sensibilità del proprio tempo; ma
i possibili modelli musicali ‘antichi’ – pur
certamente accessibili – non furono oggetto di analisi e di
interesse elaborativo.
Accingendosi a comporre un roman in prosa che
traeva ispirazione da romanzi cavallereschi del secolo dodicesimo e
conservava il ‘colore del tempo’ (per dirla come la
Pavane), un Martin mosso da istanze neoclassiche avrebbe
potuto sentirsi indotto a confrontarsi con le suggestioni della
monodia profana medievale, della tradizione lirico-musicale
mediolatina o francese antica, del conductus, del dramma
liturgico o della chanson de geste[124] o con le
asprezze della polifonia arcaica. Ma ne Le vin herbé il
rapporto con remoti paradigmi di genere non è chiamato in
causa: forma e linguaggio adottano strategie da essi
indipendenti.
Con Le vin herbé Martin porta avanti
un’operazione in sintonia con la cristallina trasparenza
lirica della prosa bédieriana, di cui però non riprende
analogicamente, nella musica, la studiata patina di arcaismo
linguistico che la impreziosisce. L’intonazione musicale del
mito nella cornice di un Medioevo remoto parte dal «point
d’appui» del roman, e si organizza, forse anche
dietro la suggestione del suo assetto formale, come una sorta di
polittico musicale. Ignorate le opulente memorie wagneriane del
Tristan und Isolde, selezionate e collegate fra loro quelle
porzioni del testo di Bédier essenziali a richiamare senza
tregua il tema del destino secondo un piano originale che
riproduce, in scala ridotta, la disposizione del Roman e ne
ripropone gli elementi di cornice, orientata la vocalità
all’esercizio di una declamazione – solistica e corale
– che trasferisce nella musica i valori fonici e accentuativi
della parola poetica, calibrato l’organico strumentale in
funzione di effetti timbrici e di rapporti dialogici confacenti
alla dimensione da camera e alla funzione di fondale sonoro su cui
si stagliano le voci, Martin procede per riduzione, piegando la
ricchezza dei riflessi cromatici e del loro ininterrotto
trasformarsi e divenire, al conseguimento di una prevalente
staticità evocativa, con cui approda ad una delle più
affascinanti riletture novecentesche dell’intramontabile
mito.
|
________________________
[Bio] Maria Sofia
Lannutti insegna Filologia romanza e Storia della poesia
per musica presso la Facoltà di Musicologia di Cremona
(Università di Pavia).
E-mail
sofia.lannutti@tele2.it
Maria Sofia Lannutti teaches Romance
Philology and History of Musical Poetry at Faculty of
Musicology in Cremona (University of Pavia).
*
Maria Caraci Vela è professore ordinario di
Filologia musicale e di Storia della musica
rinascimentale della Facoltà di Musicologia di Cremona
(Università degli Studi di Pavia) e membro di numerosi
comitati scientifici (di pubblicazioni, edizioni e convegni).
Dirige il periodico del Dipartimento «Philomusica
on-line» ed è coordinatrice di diversi progetti di
ricerca, tra cui Le notazioni della polifonia vocale, sec.
IX-XVII; Prospettive filologiche e metodi della critica
testuale: un confronto interdisciplinare; La tradizione
delle opere di Niccolò da Perugia; Zacara da Teramo:
problemi di filologia d’autore.
E-mail
maria.caraci@unipv.it
Maria Caraci Vela is Full professor of Music
Philology and Renaissance music at Cremona-Pavia
University, and member of many scientific committees. She’s
heads up the Department review «Philomusica on-line» and
she’s coordinator of many research projects among which Le
notazioni della polifonia vocale, sec. IX-XVII ; Prospettive
filologiche e metodi della critica testuale: un confronto
interdisciplinare; La tradizione delle opere di Niccolò
da Perugia; Zacara da Teramo: problemi di filologia
d’autore.
[1] FRANK MARTIN –
JEAN CLAUDE PIGUET, Entretiens sur la musique,
Neuchâtel, La Baconnière, 1967, p. 67.
[2] Ibid., dove i
riferimenti a Le vin herbé sono nelle pp. 28-30, 57-58,
67, 83-84, 97-100.
[3] Cfr. in particolare,
nella recente bibliografia, MICHAEL STEGEMANN, Style chromatique
und freie Tonalität. Frank Martins Kammeroratorium «Le
vin herbé», in Frank Martin. Das kompositorische
Werk, hrsg. von Dietrich Kämper, Mainz, Scott, 1993, pp.
21-36.
[4] Cfr. ANDRÉ
BALTENSPERGER, Fragen des Métiers bei Frank Martin.
Untersuchungen zu den Skizzen des Violinkonzerts, in
Quellenstudien I. Gustav Mahler, Igor Stravinsky, Anton Webern,
Frank Martin, hrsg. von Hans Oesch, Basel, Paul Sacher
Stiftung-Winterthur, Amadeus Verlag, 1991, pp. 157-234: 160.
[5] JOSEPH BÉDIER,
Le Roman de Tristan et Iseut traduit et restauré,
Paris, Sevin et Rey, 1900; ID., Le Roman de Tristan et Iseut
reconstitué d’après les poèmes français
du XIIe siècle, Paris, Piazza, 1900, con le
illustrazioni di Robert Engels.
[6] Per la
contestualizzazione biografica ed epistemologica del romanzo
rimando all’ampio capitolo dedicato al lavoro di Bédier
sulla materia tristaniana e in particolare al Roman de Tristan
et Iseut, di cui si offre un’approfondita analisi,
contenuto nel libro di ALAIN CORBELLARI, Joseph Bédier
écrivain et philologue, Genève, Droz, 1997, pp.
155-300. A p. 156 si legge la notizia in «Romania», XXV,
1896, p. 632: «M. Vetter paraissant avoir définitivement
abandonné son projet de donner une édition du Tristran de
Thomas, M. J. Bédier a repris ce projet et a commencé
à travailler à l’exécution. Il publiera, en
outre, prochainement une mise en prose moderne, d’après
les anciens poèmes, de l’histoire de Tristran et Iseut,
destinée à une publication illustrée».
[7] THOMAS
D’ANGLETERRE, Le roman de Tristan par Thomas: poème
du XIIe siècle, publié par Joseph
Bédier, 2 voll., Paris, Firmin-Didot/Société des
Anciens Textes Français, 1902 e 1905.
[8] Les deux
poèmes de la Folie Tristan, publiés par Joseph
Bédier, Paris, Firmin-Didot/Société des Anciens
Textes Français, 1907.
[9] La mort de Tristan
et Iseut d’après le manuscrit fr. 103 de la
Bibliothèque Nationale comparé au poème allemand
d’Eilhart d’Oberg, «Romania», XV, 1886,
pp. 481-510. Cfr. CORBELLARI, Joseph Bédier, cit., pp.
59-60, 170, 247-249.
[10] Ibid.,
pp. 661-665.
[11] Ibid.,
p. 35.
[12] LINO LEONARDI,
L’art d’éditer les anciens textes
(1872-1929), contributo al convegno «Le Moyen Age et la
Renaissance au Collège de France», Les Treilles, 18-23
giugno 2007, in corso di stampa su «Medioevo romanzo»,
XXXII, 2008.
[13] CORBELLARI,
Joseph Bédier, cit., pp. 30-34; GIOVANNI FIESOLI, La
genesi del lachmannismo, Firenze, Edizioni del Galluzzo, 2000,
pp. 409-410; URSULA BÄHLER, Gaston Paris et la Philologie
romane, Genève, Droz, 2004, pp. 439-450.
[14] FIESOLI, La
genesi del lachmannismo, cit., p. 409.
[15] CHARLES RIDOUX,
Evolution des études médiévales en France de 1860
à 1914, Paris, Champion, 2001, pp. 397-399; LUCIANO FORMISANO,
Gaston Paris e i ‘nouveaux philologues’.
Riflessioni su un libro recente, «Ecdotica», II,
2005, pp. 5-22.
[16] LEONARDI,
L’art d’éditer, cit.
[17]
Ibid.
[18] JOSEPH
BÉDIER, «Le Lai de l’Ombre» par Jean
Renart, Paris, Didot, 1913; ID., La tradition manuscrit du
«Lai de l’Ombre». Réflexions sur l’art
d’éditer les anciens textes, «Romania»,
LIV, 1928, pp. 161-196, 321-356.
[19] FIESOLI, La
genesi del lachmannismo, cit., pp. 397-408.
[20] LEONARDI,
L’art d’éditer, cit.
[21] FIESOLI, La
genesi del lachmannismo, cit., pp. 420-421.
[22] Ibid.,
pp. 399-400.
[23] Basti qui
ricordare quanto a proposito di Bédier scrive GIANFRANCO
CONTINI, che parla di «critica dissolutiva dei dogmatismi
primari» (Ricordo di Joseph Bédier,
«Letteratura», III, 1939, pp. 145-152, poi in Un anno
di letteratura, Firenze, Le Monnier, 1942, pp. 114-132, e in
Esercizi di lettura sopra autori contemporanei con
un’appendice su testi non contemporanei. Nuova edizione
aumentata di «Un anno di letteratura», Torino,
Einaudi, 1974, pp. 358-371: 361, da cui si cita).
[24] CORBELLARI,
Joseph Bédier, cit., pp. 424-448.
[25] Ibid.,
p. 485.
[26] Ibid.,
p. 427.
[27] Ibid.,
pp. 436-439.
[28] Ibid.,
p. 405.
[29] Le Roman de
Tristan et Iseut renouvelé par Joseph Bédier de
l’Académie française, ouvrage couronné par
l’Académie française, Paris,
L’édition d’art-H. Piazza, 1946, pp.
XII–XIII: XII.
[30] Ibid.,
p. 1.
[31] CORBELLARI,
Joseph Bédier, cit., pp. 202-203.
[32] Ibid.,
p. 201: «Bédier classicise l’expression, il
condense, résume, réduit les réduplications
synonymiques et autres procédés apparentés, supprime
les digressions et aboutit à un texte concis et dynamique,
tendu vers ses péripéties principales».
[33] FERDINAND LOT,
Joseph Bédier (1864-1938), Paris, Droz, 1939, p. 35:
«Bédier était de son temps et nulle page de lui
n’eût pu être composée par un homme du
XVIIe ou même du XVIIIe
siècle».
[34] CORBELLARI,
Joseph Bédier, cit., p. 269: «le roman de
Bédier est construit comme une opéra de Wagner.
L’affirmation eût sans doute fait sursauter
l’auteur, elle n’en garde pas moins son
évidence».
[35] A proposito
delle illustrazioni di Engels, CORBELLARI (Joseph
Bédier, cit.) parla invece, a p. 158, di «vision
presque caricaturalement wagnérienne».
[36] Sulla funzione
del Leitmotiv nel linguaggio musicale di Wagner si possono
vedere gli studi di CARL DAHLHAUS, La concezione wagneriana del
dramma musicale, Fiesole, Discanto, 1983, in cui è contenuto
un capitolo sul Leitmotiv e la struttura del periodo; THEODOR W.
ADORNO, Wagner. Mahler. Due studi, Torino, Einaudi, 1966, pp.
52-65; FRANCESCO ORLANDO, Proposte per una semantica del Leit-motiv
ne «L’Anello del Nibelungo», «Nuova rivista
musicale italiana», IX, 1975, pp. 230-247.
[37] EURIALO DE
MICHELIS, Le «ripetizioni», in Ancora
D’Annunzio, Pescara, Centro nazionale di studi
dannunziani, 1987, pp. 187-205: 187.
[38] CORBELLARI,
Joseph Bédier, cit., pp. 273-279.
[39] GASTON PARIS,
Tristan et Iseut, «Revue de Paris», I, 1894, pp. 138-179, ristampato
in Poèmes et légendes du Moyen âge, Paris,
Société d’édition artistique, 1900. Cfr. in
proposito BÄHLER, Gaston Paris, cit., pp. 625-636:
625-626.
[40] Un chiarimento
su questo aspetto potrebbe forse venire dall’esame del
carteggio tra Paris e Bédier, che sarà pubblicato, a cura
di Ursula Bähler e Alain Corbellari, dalle Edizioni del
Galluzzo di Firenze.
[41] Per quanto ho
potuto verificare, è ancora presente nella 502a
edizione, stampata nel 1955.
[42] PARIS,
Tristan et Iseut, cit., pp. 139-140.
[43] GERTRUDE
SCHÖPPERLE, Tristan and Isolt. A Study of the Sources of
the Romance, Frankfurt-London, J. Baer-Nutt, 1913. Cfr. in
proposito CORBELLARI, Joseph Bédier, cit., pp. 177-183:
178; RIDOUX, Evolution des études médiévales,
cit., pp. 1027-1029.
[44] Cfr.
CORBELLARI, Joseph Bédier, cit., p. 191.
[45] STÉPHANE
MALLARMÉ, Richard Wagner. Rêverie d’un
poète français, «Revue wagnerienne»,
1885-1888, t. I, pp. 195-200, ora in Oeuvres complètes,
texte établi et annoté par Henry Mondor et G. Jean-Aubry,
Paris, Gallimard, 1945, pp. 542-546: 542 e 544.
[46] STÉPHANE
MALLARMÉ, Oeuvres complètes, éd. par Bertran
Marchal, Paris, Gallimard, 1998, p. 280.
[47]
Sull’argomento si può leggere il capitolo di
JEAN-JACQUES NATTIEZ, L’universo wagneriano, i wagnerismi,
il debussismo, in Enciclopedia della musica, vol. II,
Dal secolo dei lumi alla rivoluzione wagneriana, Torino,
Einaudi, 2004, pp. 1065-1098: 1090-1093.
[48] CORBELLARI,
Joseph Bédier, cit., p. 191.
[49] Cfr. la
Folie Tristan di Berna, vv. 164-167: «Entre le nues et
lo ciel, / De flors et de roses, sanz giel, / Iluec ferai une
maison / O moi et li nos deduiron»; e la Folie Tristan
di Oxford, vv. 301-310: «Reis, fet li fol, la sus en
l’air / Ai une sale u je repair / De veire est faite, bele e
grant; / Li solail vait par mi raiant; / En l’air est e par
nuez pent / Ne berce, ne crolle pur vent. / Delez la sale ad une
chambre / Faite de cristal e de lambre / Li solail, quant par main
levrat, / Leenz mult grant clarté rendrat». Cfr. Les
deux poèmes de la Folie Tristan, éd. FELIX
LEÇOY, Paris, Champion, 1994, pp. 21-22 e p. 62.
[50] FRANK MARTIN,
Réflexions générales à propos du Vin
Hèrbé [1941], in ID., Un compositeur médite
sur son art, Ecrits et pensées recueillis par Maria
Martin, Neuchâtel, La Baconnière, 1977, pp. 33-36: 36:
«Le texte de Bédier, comme je cois aucune prose, me
servit et me porta par son sens extraordinaire du rythme, des
proportions et du juste mouvement psychologique. Je pus le prendre
intégralement, sans changement, ce qui est une preuve non
équivoque de son extrême perfection».
[51] CHARLES MORGAN,
Sparkenbroke, London, MacMillan & Co, 1936. Ristampato
in Italia nel 1949 (Roma, The Albatros), edizione da cui si
cita.
[52] MARTIN,
Réflexions générales, cit., p. 36: «Au
printemps de 1938 je me trouvais en disponibilité,
n’ayant aucune nouvelle composition en vue; mais mon esprit
se trouvait orienté vers le mythe de Tristan et Iseut par la
lecture de Sparkenbroke, le roman de Charles Morgan qui en est tout
imprégné».
[53] MORGAN,
Sparkenbroke, cit., p. 185.
[54] Si può
vedere il ritratto che di Morgan offre EMILIO CECCHI, Scrittori
inglesi e americani, 2 voll., Milano, Il Saggiatore, 1938, vol.
II, pp. 170-173, che
lo definisce un «inglese europeo», perché in uno
scritto del 1943 si dimostrò capace di distinguere tra il
totalitarismo tedesco e il totalitarismo italiano, che era a suo
avviso lontano dal fanatismo, dalla «satanica follia» dei
tedeschi, ma soprattutto di guardare a un’identità
culturale europea distinta da quella americana.
[55] MARTIN –
PIGUET, Entretiens, cit., p. 109.
[56] Ibid.,
p. 122.
[57] Ibid.,
p. 123.
[58] FRANK MARTIN,
A propos de… Commentaires de Frank Martin sur ses
oeuvres, publiés par Maria Martin, Neuchâtel, La
Baconnière, 1984, pp. 65-67.
[59] Ibid.,
p. 34: «A ce moment-là un collègue de Suisse
romande, Robert Blum, me demanda de lui composer une pièce
d’environ une demie heure pour son Madrigalchor […].
Plein de mon idée de Tristan, je repris le roman bien connu
que Joseph Bédier a tiré des vieux conteurs du Moyen Age
et je compris de suite que jamais je ne pourrais trouver texte plus
approprié à mon dessein».
[60] Isotta, prima
di accostare il filtro, allude senza equivoco all’esistenza
(e reciprocità) della passione: «Wüsstest du nicht,
/ was ich begehre, / da durch die Furcht / mir’s zu
erfüllen, / fern meine Blick dich hielt?» (RICHARD
WAGNER, Tristan und Isolde, I, 5).
[61] Cfr. MARTIN
– PIGUET, Entretiens, cit., pp. 107-109.
[62] Comportava un
organico vocale e strumentale ridotto: 2 violini, 2 viole, 2
violoncelli, 1 contrabbasso e pianoforte, con un coro
madrigalistico di 12 voci (Soprano, Alto, Tenore e Basso, a
ciascuna delle quali corrispondono 3 solisti che possono cantare
come uniti o come divisi). Una esecuzione scenica che
piacque anche all’autore fu allestita a Salisburgo
nell’agosto 1948.
[63] Cfr. FRANK
MARTIN, Le vin herbé, Wien, Universal Edition (UE
11314), 1943, rispettivamente alle pp. 5, 8, 9, 53, 58, 60,
130.
[64] Ibid.,
rispettivamente alle pp. 1-2; 111; 136 e 189-193. Ibid., si
vedano anche: le intonazioni di Ami Tristan / Iseut amie,
pp. 55 (quadro VI della I parte), 104 (quadro V della II parte),
168 (quadro V della III parte); l’intonazione di
chétive, pp. 16-17 (quadro II della I parte) e 141-142
(quadro IV della III parte); l’immagine della ronce,
che nel testo prescelto da Martin si trova sia all’inizio sia
alla fine della storia, pp. 26-27 (quadro IV della I parte) e
185-188. A questa edizione si farà riferimento per tutti gli
esempi da Le von herbé. Per un peculiare impiego di
temi legati a personaggi, situazioni, stati emotivi ne Le
Cornet, cfr. NORBERT BOLIN, Triumph und Tod des Helden.
Aspekte des Narrativen in Frank Martins Die Weise von Liebe und Tod
des Cornets Christoph Rilke, in Frank Martin. Das
kompositorische Werk, cit., pp. 37-58.
[65] Cfr. i
contributi di ANTONIO DELFINO (Generi organistici intorno a
Frank Martin) e di PIETRO CAVALLOTTI (La dodecafonia e Frank
Martin) in questo stesso numero.
[66] «En ce qui
concerne le langage musical de Le vin herbé, s’il
est centré sur un emploi presque constant du chromatisme, il
ne renie jamais ce qui est pour moi la base même de la
musique, c’est-à-dire les fonctions tonales. Et je tiens
à affirmer que si jusqu’à un certain point,
j’ai obéi à des règles plus ou moins
arbitraires découlant de la technique sérielle, je ne
l’ai jamais fait qu’en les considérant comme une
source de renouvellement; mais que jamais l’obéissance
à ces règles ne m’a paru avoir quelque valeur en
soi. Toute règle, du reste, n’a en vue que
l’enrichissement du style, aussi bien les règles
classiques de l’harmonie et du contrepoint que les
règles nouvelles que l’on peut vouloir s’imposer.
L’obéissance à ces règles n’est
qu’une élégance, un plaisir de l’esprit, qui
ne fait preuve d’aucune valeur et de n’emporte aucune
conviction» (MARTIN, Entretiens, cit., p. 35).
[67] Si veda,
all’inizio del quadro II della II parte (pp. 67-68), in uno
dei passi a cui fa riferimento Sofia Lannutti, l’effetto
della hutte fleurie illuminata che si presenta
inaspettatamente al re Marco.
[68] «Je crois,
en effet, que Debussy s’est vraiment astreint, dans
Pelléas, à reproduire le parler aussi exactement
que possible. Je connais un exemple plus ancien: celui de Lully,
qui allait au théâtre pour entendre déclamer les
tragédies et essayait ensuite dans ses récitatifs de
fixer en musique exactement la déclamation de son
époque» (MARTIN-PIGUET, Entretiens, cit., p.
40).
[69] La revisione fu
pubblicata da Henn Genéve, 1923.
[70] Cfr.
MARTIN-PIGUET, Entretiens, cit. p. 117.
[71] Cfr. MARTIN,
Le vin herbé, cit., pp. 122-124 e 127-131 (quadro III
della III parte).
[72] Cfr.
Ibid., pp. 141-158 (quadro IV della III parte).
[73] Cfr.
Ibid., p. 49 (quadro IV della I parte).
[74] Cfr.
Ibid., pp. 4-10 (quadro I della I parte).
[75] Cfr.
Ibid., pp. 175-177 (quadro VI della III parte).
[76] Questa sorta di
pseudo-contrappunto che – come Martin stesso ha
più volte ribadito – nasce dall’armonia, sembra
rapportarsi con naturalezza anch’esso a modelli
interiorizzati vicini alla polifonia di Lully e dei suoi
contemporanei francesi.
[77] Cfr. MARTIN,
Le vin herbé, cit., pp. 163-169 (quadro V della III
parte). In questo quadro Martin introduce la terza delle serie da
lui impiegate ne Le vin herbé. Cfr. il contributo di
CAVALLOTTI, La
dodecafonia e Frank Martin, cit.
[78] In particolare
nel terzo degli Entretiens, cit. (pp. 31-42), che porta il
significativo titolo di «Le métier de
compositeur».
[79] «La grande
difficulté de ce travail est de garder un esprit clair en face
de ce qu’on fait; il faut travailler comme un bon ouvrier,
comme un ébéniste qui polit une table raffinée
[…] Il existe en effet un grand danger, ou plutôt un
péché pour l’artiste: c’est
l’orgueil» (ibid., p. 49).
[80] Ibid.,
p. 32.
[81] «Le texte
m’aide énormément: j’en cherche
l’expression, et je cherche la musique qui lui soit
adéquate» (ibid., p. 33).
[82] «Celui-ci
n’est pas à la base de l’oeuvre, il n’a pas
d’importance en lui-même, mais il est simplement là
pour m’orienter moi-même, pour me donner un chemin
quelconque» (ibid., p. 32).
[83] «En
général, et même toujours quand il s’agit
d’écrire une oeuvre nouvelle, on se fait d’abord
une idée confuse, mais caractérisée; la seule chose
qui soit à peu près sûre, c’est la durée
de l’oeuvre ou d’une pièce dans un’oeuvre:
la durée, et les moyens instrumentaux d’autre part. A
coté de cela, on part en général sur ce qu’on
a déjà trouvé parce qu’il s’agit de
trouver de la musique d’abord. Une fois trouvé, cet
élément musical fait germe et se développe en
quelque sorte de lui-même à condition qu’on lui
reste fidèle» (ibid., pp. 24-25).
[84] Cfr.
BALTENSPERGER, Fragen des Métiers bei Frank Martin,
cit., pp.133-147.
[85] MARTIN-PIGUET,
Entretiens, cit., pp. 53-56.
[86] Ibid.,
p. 57.
[87] Ibid.,
pp. 28-30; 57-58; 83-84.
[88] Ibid.,
p. 28.
[89] Ibid.,
p. 60. Cfr. MARTIN, Le vin herbé, cit., pp. 104-105
(quadro V della II parte) e p. 29 (quadro IV della I parte).
[90] Cfr. JOHANN
SEBASTIAN BACH, Vier Ouvertüren (Orchestersuiten),
hrsg. von Heinrich Besseler, Bärenreiter, Kassel, 1967 (Neue
Ausgabe Sämtlicher Werke, Serie VII, Band 1), p. 137.
[91] MARTIN-PIGUET,
Entretiens, cit., p. 87.
[92] Ibid.,
p. 83.
[93] Ibid.,
p. 109.
[94] Ibid.,
p. 113.
[95] Aggettivi come
‘classico’, ‘neoclassico’,
‘classicista’ hanno avuto, nella musica fra 1860 e la
metà del Novecento, oscillazioni di senso piuttosto ampie
– positive e negative – a seconda del punto di
riferimento in cui erano venuti a fissarsi i modelli ideali di
classicità. Cfr. SCOTT MESSING, Polemic as History: The
Case of Neoclassicism, «The Journal of Musicology»,
IX/4, 1991, pp. 481-497: «for every cautionary statement
warning against using the term because of its ambiguity, there are
many times it appears without any context other than the tacit
assumption that the reader knows the precise connotation the author
has intended for it» (p. 481); «Despite several dire
warnings against its employment because of its current wholesale
and indiscriminate usage, the term neoclassicism has embedded
itself stubbornly in the parlance of studies of twentieth-century
music and continues to incite ambivalence because of its ambiguous
meaning» (p. 482); «If the theoretical apparatuses that
have illuminated twentieth-century styles have encourages us to
hold the term neoclassicism in contempt because of its ambiguity,
it must be realized that same frustrating lack of clarity in the
word was the source of its attraction and the reason for its
survival» (p. 497). Per una visione d’insieme
sull’argomento cfr. RUDOLF STEPHAN, voce
«Klassizismus», in Die Musik in Geschichte und
Gegenwart. Allgemeine Enzyklopädie der Musik
begründet von Friedrich Blume. Zweite, Neubearbeitete
Ausgabe, hrsg. von Ludwig Finscher, 26 voll.,
Kassel-Basel-London-New York-Prag-Stuttgart-Weimar,
Bärenreiter-Metzler, 1994-2007, Sachteil, vol. V, § II,
2, 3, 4, 1999, coll. 249-253.
[96] SCOTT MESSING
ha dedicato all’argomento un ampio e documentato volume
(Neoclassicism in Music from the Genesis of the Concept through
the Schoenberg/Stravinsky Polemic, Rochester N.Y., University
of Rochester Press, 1988), alquanto sbilanciato, tuttavia, sul
versante della cultura francese e dell’opposizione
franco-germanica intorno agli anno della Grande Guerra. Nella
visione di Messing il termine, che aveva designato in un primo
tempo la funzione paradigmatica dei classici viennesi, venne poi a
significare il ritorno alla musica nazionale francese preromantica
in funzione antiwagneriana, e infine, si applicò alla musica
di Stravinsky degli anni Venti. Altri studi hanno poi arricchito i
punti di osservazione. Cfr. per esempio ANNA QUARANTA,
Neoclassicismo musicale. Termini del dibattito italiano ed
europeo, «Chigiana», XLIV, 2003, pp. 93-142, che
integra sostanzialmente il quadro tracciato da Messing richiamando
l’attenzione sulla ricchezza e l’importanza del
dibattito italiano sul neoclassicismo musicale.
[97] Quella di
neoclassico nella accezione con cui era stata usata contro
Stravinsky, era etichetta sotto la quale Martin – che se
l’era vista attribuire all’inizio degli anni Cinquanta
– proprio non si riconosceva. Cfr. MARTIN, A propos
de…, cit., p. 173.
[98] GISELER
SCHUBERT, Form und Besetzung Zu Frank Martins Konzerten, in
Frank Martin. Das Kompositorische Werk, cit., pp. 95-110:
96-97.
[99] THOMAS MANN,
Auseinandersetzung mit Richard Wagner, «Der
Merker», II/9,1911, pp. 21-23.
[100] FERRUCCIO
BUSONI, Lo sguardo lieto. Tutti gli scritti sulla musica e le
arti, Milano, Il Saggiatore, 1977, pp. 113. In proposito cfr.
PIETRO CAVALLOTTI, A scuola di ‘Nuova
classicità’. Weill allievo di Busoni, in
Ferruccio Busoni e la sua scuola, a cura di Gianmario Borio
e Mauro Casadei Turroni Monti, Lucca, LIM-Una cosa rara, 1999, pp.
49-68.
[101] Cfr. STEPHEN
HINTON, Neue Sachlichkeit, in Handwörterbuch der
Musikalischen Terminologie, hrsg. von Hans Heinrich Eggebrecht,
Stuttgart, Steiner, 1994.
[102] La percezione
dell’alterità dell’ipotesto o del modello alluso
è indispensabile a qualificare questa accezione del termine
‘neoclassicismo’: la musica scritta in relazione a
testi musicali preesistenti, infatti, esiste ed è
sovrabbondante in ogni epoca; ma una messa parodia, o una
composizione su tenor, o una serie di variazioni scritte da
un compositore sul tema di un altro non costituiscono certo esempi
di neoclassicismo musicale.
[103] Cfr. MARIA
CARACI VELA, Intertestualità e arte allusiva, in La
filologia, vol. II, Approfondimenti, Lucca, LIM, in
corso di stampa.
[104] A proposito
dell’emblematico caso di Stravinsky, MARTHA M. HIDE
(Stravinsky’s neoclassicism, in The Cambridge
Companion to Stravinsky, ed. by Jonathan Cross, Cambridge,
Cambridge University Press, 2003, pp. 98-136) rileva come le
«neoclassical pieces invoke earlier classics in a much broader
sense than merely music in the style of Haydn or Mozart. What makes
a classic in this broader sense is being chosen as a model
for some sort of anachronistic engagement, some manner of imitative
crossing of the distance that divides the new work from its
model». (p. 99). La Hide individua proprio nel controllo
dell’anacronismo lo strumento essenziale per dare senso
all’opera neoclassica («When anachronism – that
is, the conflict between period elements in a piece of music
– is meaningful, then a Phoenix springs from the ashes»,
p. 101), attraverso tipologie diverse di imitazione del modello
(ibid., pp. 102-134).
[105]
L’intertestualità può, naturalmente, operare non
solo in relazione a modelli attinti al passato più o meno
remoto, ma anche a quelli recenti o contemporanei: come avviene,
per esempio, nel Sestetto di Stravinsky, del 1953,
versus Schönberg. All’interno di questo più
vasto fenomeno, il neoclassicismo musicale del Novecento si
configura allora come una particolare declinazione
dell’interesse intertestuale, orientata verso referenti
musicali del presente.
[106] Per
l’importanza del concetto di sviluppo nella musica di Martin,
cfr. Entretiens, cit., pp. 34-37.
[107]
«J’ai passé par un long chemin, assez ardu, pour
arriver par moments à une telle simplicité. J’ai
dû écrire et chercher des accords infiniment
compliqués pour parvenir peu à peu à les
décanter», ibid., p.65.
[108] Ibid.,
pp. 70-80.
[109] Ibid.,
p. 108. Un recupero del diatonismo nel contesto di registri
stilistici elevati si osserva invece in alcune composizioni degli
ultimi anni di Martin.
[110] Dalla
Symphonie pour orchestre burlesque (1915, su canti popolari
savoiardi e per orchestra di strumenti infantili), al Trio su
melodie popolari irlandesi (1925, per violino, violoncello e
pianoforte), dai Poèmes de la mort (1971, per tre voci
maschili e tre chitarre elettriche), alla Fantasia su ritmo di
flamenco (1973, per un pianista e – ad libitum
– un danzatore).
[111] «Dans
mon esprit le titre de Ballade comporte, en une forme
musicale entièrement libre, un élément de
poésie et, plus exactement, de poésie épique, mais
cela sans aucune idée de rattacher ce caractère narratif
à aucun thème littéraire», MARTIN-PIGUET,
Entretiens, cit., p. 161.
[112] MARTIN, A
propos de…, cit., p. 27.
[113] Circa
l’Ouverture en hommage à Mozart (1956), Martin
tiene a precisare che «Il ne s’agissait pour
l’auteur, à aucun degré, de faire ans cette
circonstance une sorte de pastiche de Mozart, mais d’essayer
d’exprimer, dans son propre langage, son admiration pour ce
maître; d’ou le titre: Ouverture en hommage à
Mozart, qui aurait pu être, selon la tradition:
“Tombeau de Mozart”, si cette expression ne portait en
elle quelque chose de trop mélancolique», ibid.,
p. 110.
[114]
MARTIN-PIGUET, Entretiens, cit., pp.73-80.
[115] Cfr. CARACI
VELA, Intertestualità e arte allusiva, cit.
[116] Cfr.
STEGEMANN, Style chromatique und freie Tonalität, cit.,
p. 21.
[117] Con questo
approssimativo nesso verbale si traduce l’altrettanto
approssimativo ma usatissimo Early Music, che ormai designa
convenzionalmente tutta la musica eurocolta, dalle origini al
romanticismo.
[118] Serenus
Zeitblom nel Doctor Faustus, cap. XXVIII. esegue sulla viola
d’amore musica ‘antica’ per un pubblico che ne
apprezza la sommessa dolcezza: ma la musica degna di essere
analizzata per pagine e pagine non è certamente quella nel
romanzo, ma parte da Beethoven.
[119] MARTIN, A
propos de…, cit, p. 10.
[120] In tutte e
due le versioni, per soprano e pianoforte, e per soprano, flauto,
viola e violoncello (che non comporta mutamenti nel progetto
esecutivo, ma si limita a diversificare e articolare l’esile
e raffinatissimo accompagnamento). Entrambe furono pubblicate dalla
Universal di Vienna, rispettivamente come UE 13831 e UE 15053.
[121] Cfr. MARTIN,
A propos de…, cit, pp. 126-127. Che Machaut fosse
stato un importante musicista è appena detto en
passant, senza alcuna osservazione sulla sua musica. Quello che
sollecita Martin è il testo poetico, con l’articolata
successione di episodi di carattere diverso, che della musica
illustrano la varietà degli aspetti.
[122] FRANK MARTIN,
Ode à la musique, Kassel, Bärenreiter, 1977, pp.
29-32. Sulla vocalità di quest’opera, inoltre –
che contempla declamati polifonici, contenute espansioni
solistiche, e un uso moderato ma molto incisivo del contrappunto
– esercita ancora il suo determinante influsso il lavoro sul
rapporto testo-musica compiuto ne Le vin herbé.
[123] Cfr. MARIA
SOFIA LANNUTTI, Il «Roman de Tristan et Iseut» di
Joseph Bédier e il suo impiego nell’oratorio «Le
vin herbé», nella prima parte di questo
contributo.
[124] Martin ha
forse conosciuto la rara attestazione de La Bataille
d’Armerin, pubblicata da Gennrich nel 1923.
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