«Quando il film iniziò a parlare lo fece
cantando». Con queste parole Rick Altman descrisse il legame
sussistente tra la nascita del musical cinematografico,
più esattamente screen-musical, e l’introduzione
del sonoro nel cinema. Tale legame, apparentemente ovvio per
ragioni tecniche, è probabilmente più profondo di quanto
non si possa sospettare in un primo momento. Se infatti sono ovvie
le motivazioni per cui lo screen-musical non poté che
nascere proprio in concomitanza dell’avvento del sonoro, non
è altrettanto scontato il motivo per cui i primi prodotti
cinematografici, potenziati dalla nuova dimensione audio, vennero
immediatamente forgiati prendendo a prestito un modello teatrale,
quello dello stage-musical, piuttosto che un modello
cinematografico preesistente. La predilezione per questo genere,
considerando anche le difficoltà tecniche che la registrazione
del suono comportò inizialmente, doveva possedere radici molto
profonde se proprio la prima pellicola con sonoro, The Jazz
Singer, prodotta dalla Warner Bros nel 1927, fu un
musical. Come si può facilmente intuire, fin da
principio i rapporti tra i vecchi stage e i nuovi
screen-musicals furono molto intensi; il caso più
frequente vedeva soggetti teatrali di successo riproposti sullo
schermo, in casi estremi il prodotto cinematografico poteva essere
ottenuto addirittura attraverso una ripresa diretta di quello
teatrale, nella medesima maniera in cui oggi vengono riprese opere,
concerti e balletti. Sulle ragioni e le modalità del
progressivo differenziamento dei due filoni, il cui grado di
parentela oscilla secondo Graham Wood tra quello di ‘fratelli
gemelli’ e quello di ‘cugini alla lontana’,
ancora poco è stato detto; in maniera piuttosto sommaria
sarà tuttavia utile ricordare che, alla caratteristica
struttura narrativa interpolata da numeri coreutico-musicali
già tipica dello stage-musical, lo
screen-musical aggiunge delle proprie specificazioni
probabilmente funzionali all’impiego del nuovo
medium.
La lettura sociologica fornita da Altman ricollega
alcune caratteristiche peculiari del genere cinematografico alla
contingenza storica in cui esso vide la luce. Trame estremamente
semplici, destinate a mettere in campo due mondi costantemente in
contrapposizione dicotomica, diventano il motore centrale
dell’azione; spesso a rappresentare questi due mondi sono due
personaggi, maschile l’uno e femminile l’altro,
esponenti di due classi sociali distinte: la soluzione
dell’intreccio proviene ovviamente dal superamento del
contrasto, dalla ricongiunzione dei due opposti. Tale struttura
estremamente stilizzata, spesso giustificata dal ruolo di puro
intrattenimento attribuito al nuovo genere, possiede tuttavia una
peculiarità: quella di consentire l’alterazione della
più consueta scansione spazio-temporale, che vorrebbe la
rappresentazione degli eventi rispettosa della loro reale
successione diacronica, in favore di una messa in scena sincronica,
capace di porre in parallelo due situazioni – in forma di
numeri musicali – vissute dai due protagonisti in momenti e
luoghi differenti. Vi è infine un problema tutto
‘drammaturgico’ che, specie nello
screen-musical, sembra calamitare le attenzioni di
sceneggiatori e registi: il cinema, infatti, come arte che fin da
principio si interroga sulla possibilità di rappresentare la
realtà in maniera sempre più verosimile, ha qualche
difficoltà a metabolizzare come momenti della vita quotidiana
i caratteristici numeri ballati e cantati; ecco perché fin dai
suoi esordi – The Jazz Singer fornisce ancora una
volta un esempio illuminante – il musical è
innanzitutto backstage musical: costruito cioè
su trame inerenti vite di artisti, allestimenti di spettacoli,
concerti e, più in generale, su soggetti ‘moventi’
capaci di giustificare la presenza di simili ‘corpi
estranei’; in tal modo, dunque, anche i numeri musicali
trovano un loro ‘diritto di cittadinanza’
all’interno del linguaggio cinematografico.
The Wizard of Oz è considerato da sempre
una pietra miliare della produzione hollywoodiana degli anni
Trenta; tutt’oggi schiere di ammiratori e collezionisti di
tutte le fasce d’età si raccolgono attorno a questo vero
e proprio oggetto di culto su appositi siti internet, in occasione
di aste e per la celebrazioni degli anniversari più
importanti. Frank Baum, creatore del testo letterario fonte della
produzione cinematografica in esame, fu sicuramente un personaggio
estremamente eclettico. Grazie al benessere economico della
famiglia d’origine, egli poté sperimentare fin da
giovane vari aspetti della propria creatività: giornalista,
attore, direttore della compagnia teatrale di famiglia fino a
divenire, negli ultimi anni della sua vita, fondatore di una delle
prime case cinematografiche di Hollywood. La sua biografia,
costellata di trionfi e fallimenti continui, subì una brusca
sterzata proprio in occasione della pubblicazione, nel 1900, del
romanzo per bambini The Wonderful Wizard of Oz, con
illustrazioni di William Wallace Denslow. Sulla scia
dell’enorme successo riscosso dal romanzo, Baum
pubblicò, negli anni successivi, altri tredici racconti
ambientati nel Paese di Oz. La prosecuzione dell’epopea di
Dorothy, tuttavia, non è l’unico aspetto degno
d’interesse all’interno della storia della diffusione
di questo testo: nel 1902, infatti, Baum e Denslow si unirono al
compositore Paul Tietjens e al direttore d’orchestra Julian
Mitchell per realizzare ciò che lo scrittore aveva da sempre
desiderato per il suo romanzo: una messa in scena teatrale. Il
testo, dunque, arrangiato in forma di ‘stravaganza
musicale’ per adulti, fu rappresentato a Broadway ben 239
volte e successivamente portato in tournée per tutti
gli Stati Uniti. Non ancora soddisfatto del risultato ottenuto,
tuttavia, Baum si cimentò in una nuova impresa che, alla
lunga, si rivelò foriera dell’ennesima catastrofe
economica: la produzione, nel 1908, di un’altra versione
teatrale di The Wonderful Wizard of Oz. In questo nuovo
genere di rappresentazione, intitolato Fairylogues and Radio
Plays, vennero combinate proiezioni di diapositive e di
sequenze filmate, recitazione da parte di attori in carne ed ossa
sul palco e letture, tratte da un diario di viaggi nel Paese di Oz,
effettuate dallo scrittore in persona: un vero e proprio
esperimento multimediale. Stabilitosi a Hollywood nel 1914, e
fondata la Oz Film Manufacturing Company, Baum si
dedicò, infine, alla produzione di una serie di pellicole mute
ancora una volta incentrate sulla saga di Oz.
La produzione cinematografica del The Wizard of
Oz del 1939 (musiche di H. Stothart e H. Arlen)
rappresentò dunque lo sbocco naturale per un genere di testo
che, fin da principio, doveva essere stato concepito come qualcosa
di più di un semplice romanzo per bambini. La
Metro-Goldwyn-Mayer scelse di sfruttarne la notorietà per
contrastare il recente successo disneyano di Snow White e,
decisa a impiegare ogni strategia per la creazione di un
‘evento storico’, lavorò a lungo non solo per la
formazione del cast, ma persino per la scelta dei tecnici,
per la preparazione dei costumi e per la realizzazione degli
effetti speciali. Lo stesso regista, Victor Fleming, consapevole
dell’operazione commerciale in atto, pur essendo impegnato
sul set di un’altra pellicola che si sarebbe presto
rivelata di importanza epocale (Gone with the Wind), decise
di non abbandonare mai del tutto il suo incarico per The Wizard
of Oz. Il successo fu strepitoso e valse a Judy Garland,
alias Dorothy, l’oscar per la celeberrima Over the
Rainbow della quale, ironia della sorte, era stata inizialmente
prevista la soppressione.
Per la sceneggiatura venne ripresa piuttosto
fedelmente la trama del primo romanzo di Baum, l’unico della
saga concepito come unità a sé stante; alcune piccole
modifiche, tuttavia, portano il segno inconfondibile di una
strategia atta a veicolare il significato del testo di partenza in
una nuova direzione. L’indizio decisivo che ci consente di
individuare tale nuova direzione è posto all’inizio
della scena finale del film: quando Dorothy si risveglia in Kansas,
infatti, non è immediatamente chiaro se la protagonista abbia
compiuto realmente il viaggio narrato. Nessun dettaglio, nessun
personaggio spiega fino in fondo se Dorothy sia stata ritrovata e
portata nel letto in cui si trova, o se sia sempre rimasta nella
sua camera e il viaggio si sia svolto solo nella sua immaginazione.
Tuttavia, una serie di dati disseminati in tutto il film ci spinge
in qualche modo a dedurre che la bambina è sempre rimasta in
Kansas, il suo viaggio è stato, casomai, un viaggio
nell’aldilà, un ‘viaggio sciamanico’, se
così può essere definito, da cui fortunatamente è
riuscita a fare ritorno. E in fondo, unicamente questo senso di
morte scampata può spiegare perché, alla fine del film,
lo spettatore si trovi a simpatizzare almeno per una volta con
l’assurdo desiderio della protagonista di tornare a casa: il
Regno di Oz è un posto meraviglioso, nessuno preferirebbe
tornare in Kansas! Ebbene, questo scioglimento finale, che ci
conduce retrospettivamente alla comprensione dell’intera
trama, è caratteristica esclusiva del testo filmico. Nel
romanzo di Baum, infatti, l’ultima ‘scena’
(capitolo 24) è più semplicemente costituita dal vero e
proprio ritorno di Dorothy alla fattoria degli zii:
Aunt Em had just come out of the house to water the
cabbages when she looked up and saw Dorothy running toward her.
«My darling child!» she cried, folding the little girl in
her arms and covering her face with kisses; «where in the
world did you come from?» «From the Land of Oz»,
said Dorothy gravely. «And here is Toto, too. And oh, Aunt Em!
I’m so glad to be at home again!».
Anche l’aggiunta del personaggio di Miss Gulch,
inesistente nel romanzo, svolgerà un ruolo importantissimo
nella strutturazione del testo filmico. A tale proposito è
forse interessante riproporre, con qualche piccola aggiunta, la
lettura macroformale proposta da Bordwell e Thompson:
l’intero testo, infatti, può essere paragonato ad una
grande forma ternaria
(A–B–A’) tra le cui sezioni
sussistono non solo elementi di contrasto, ma anche fattori
determinanti continuità. La tripartizione risulta
particolarmente evidente in relazione ai luoghi di svolgimento
dell’azione (Kansas – Oz – Kansas), al colore
delle pellicole impiegate (bianco e nero – Technicolor
– bianco e nero) e alla differenziazione del clima gestuale
che, fatta un’ovvia eccezione per la protagonista, consente a
tutti i personaggi fantastici presenti nella sezione B, di
impiegare una mimica simile a quella del muto. Il personaggio di
Miss Gulch svolge all’interno di questa tripartizione un
ruolo importantissimo; essa infatti, impersonata dalla stessa
Margaret Hamilton che vestirà i panni della malvagia Strega
dell’Ovest, rappresenta un fortissimo elemento di
continuità tra la sezione A e la sezione B,
costituendone, in definitiva, l’esplicito anello di
congiunzione (cfr. sequenza n. 4). Il progetto registico prevede
l’esistenza di altri ‘personaggi paralleli’:
è il caso dei tre garzoni delle scene iniziali, impersonati
dai medesimi attori che andranno nella sezione B a vestire i
panni dei tre compagni di viaggio di Dorothy, e del Professor
Marvel il cui interprete (Frank Morgan) andrà a ricoprire
altri due ruoli della sezione B (il Guardasigilli e il
Mago). Tutti questi personaggi, così come quello di Miss
Gulch, consentono di individuare ulteriori elementi di
continuità tra le differenti sezioni del film, ma solo Miss
Gulch, alias Strega dell’Ovest, possiede uno specifico
tema musicale, collocato a livello extra-diegetico, che viene
ripresentato a ogni sua apparizione tanto nella sezione A
quanto nella sezione B.
Non ascrivibile alla categoria dei backstage
musical non solo a causa della natura del soggetto trattato,
The Wizard of Oz presenta delle peculiarità inerenti le
componenti testuali più specificamente audiovisive. Per
approfondirne gli aspetti di maggior interesse consideriamo, a
questo punto, alcune sequenze del film.
Tabella 1
La sequenza in questione è probabilmente una
delle più importanti della sezione A e condensa, in un
certo senso, il contenuto dell’intero testo filmico. Dorothy
si decide a scappare di casa per mettere in salvo il suo cagnolino
Toto e, dopo un breve tratto di strada, incontra il Professor
Marvel. L’incontro, preludio al viaggio nel regno di Oz, crea
un’immediata connessione tra il sogno descritto da Dorothy
nel suo primo numero musicale (Over the Rainbow) e il mondo
della magia: nel momento esatto in cui l’insegna del
Professor Marvel viene inquadrata il tema strumentale di Over
the Rainbow viene infatti riproposto per la prima volta nel
campo dei suoni che abbiamo definito over (extra-diegetico).
Una melodia orientaleggiante eseguita dell’oboe (a) si
sovrappone ad esso con l’ingresso in scena del Professor
Marvel come a sottolineare tale connessione e a suggerire la
presenza di un’atmosfera misteriosa. Medesimo valore
descrittivo possiede la melodia successivamente affidata agli archi
(b) in concomitanza delle inquadrature 14-22: è infatti
in questo momento che il Professore convince Dorothy a tornare a
casa facendole credere che zia Em è in pena per la sua
scomparsa. Ancora una volta, dunque, al fattore sonoro-musicale
viene attribuita una funzione suggeritiva, atta a caricare la scena
di un valore emotivo aggiunto.
Tabella 2
Le due sequenze in questione coincidono con la
transizione tra quelle che abbiamo precedentemente definito come
sezioni A e B. Oltre alla suggestiva messa in scena
del ciclone, ottenuta con effetti speciali avanguardistici per i
tempi, è sicuramente interessante notare come il sonoro si
sposti, fin dall’ingresso della protagonista nel Regno di Oz
(B), nel campo over. La sua totale concentrazione in
uno solo dei campi individuati, e in particolare nel campo dei
suoni over, non è determinante solo in relazione alla
sua stessa localizzazione, ma soprattutto in riferimento alla sua
qualità. In un certo senso, infatti, l’immediata e
brusca assenza di sonoro nei campi in e off esclude
l’impiego di suoni-rumori collegabili allo svolgimento delle
azioni. L’uso pervasivo di materiale musicale, parziale
conseguenza dello slittamento appena esaminato, crea in secondo
luogo una frattura netta con la sequenza immediatamente precedente
e ci catapulta in un clima sonoro molto più vicino a quello
del musical ‘tradizionale’, di tipo
backstage – è bene ricordare che per tutta la
prima parte della pellicola l’unico episodio isolato, con
sembianze di numero da musical, è proprio Over the
Rainbow.
Tabella 3
Entrati nel vivo della sezione centrale del film,
quasi ogni elemento sonoro è ormai impiegato in funzione dei
numeri chiusi. Essi, infatti, scandiscono l’intera sezione
B costituendo l’ossatura della narrazione. Come emerge
dall’esempio proposto, inerente l’incontro tra Dorothy
e il primo dei suoi compagni di viaggio, tutto il materiale
musicale impiegato nel campo over possiede la precisa
funzione di creare un collegamento tra i numeri musicali posti a
livello diegetico (campo in). La connessione agevola dunque
il passaggio dal precedente Follow the yellow brick roads
– We’re off to see the Wizardal successivo If
I only had a Braincon circa tre minuti (32:20-35:04) di
frammenti melodici tratti tanto da un numero quanto
dall’altro. Il tema principale di If I only had a
Brain diventa più chiaro e completo man mano che il duetto
in questione si avvicina. In questa sequenza, come nella maggior
parte delle sequenze della sezione B, quindi, il
‘valore aggiunto’ del suono, così come definito da
Chion e come emerso nell’analisi della sequenza n. 3 dello
stesso film, è in qualche modo ridotto e occultato dallo
sforzo di rendere fluido il passaggio tra i differenti numeri
musicali. Solo nelle inquadrature comprese tra la 32 e la 43, in
concomitanza delle cadute dello Spaventapasseri, i tremoli degli
archi e le rapide scale degli ottoni si pongono a commento delle
azioni cinematografiche e interrompono bruscamente ciò che in
un primo momento poteva sembrare il vero e proprio inizio del
numero. Tale frammentazione del materiale melodico, tuttavia,
risponde ad un’altra esigenza già da tempo espressa e
soddisfatta dallo screen-musical: quella di rendere
più naturale possibile il passaggio dalle sezioni parlate a
quelle cantate.
Concludendo, già a partire dagli esempi portati
pare chiaro in primo luogo che il rapporto sinestesico esistente
tra immagine e suono in The Wizard of Ozpuò in qualche
modo essere ricondotto alla medesima legge macro-formale
rintracciata da Bordwell e Thompson per gli altri parametri. La
differente tecnica impiegata per strutturare tale rapporto nelle
varie sezioni consentirebbe, infatti, di parlare di musical
in senso stretto esclusivamente per la parte centrale; tale
differenziazione inoltre sarebbe risultata ancora più evidente
se Over the Rainbow fosse stata tagliata come previsto
inizialmente e le due sezioni estreme, A e A’,
fossero state di conseguenza prive di numeri musicali. Da un altro
lato, può essere di qualche interesse osservare che la
caratteristica che poteva essere stata considerata un limite del
musical, ovvero l’antirealismo proprio dei numeri
ballati e cantati, viene sfruttata in questo modo per creare
un’atmosfera onirica difficilmente ottenibile diversamente.
Dichiarare apertamente intenti antirealistici attraverso
l’impiego di trame fantastiche diviene così non solo
un’alternativa alla creazione del ‘movente’,
tipica del backstage musical, ma anche una sorta di
autoriflessione sul musical stesso, sui differenti
meccanismi di riproduzione della realtà e i linguaggi ad essi
più congeniali.
Scheda del film
VICTOR FLEMING, The Wizard of Oz,
Metro-Goldwyn-Meier, 1939, 112 min.
Metro-Goldwyn-Meier Production – Diretto da
Victor Fleming – Adattamento dal romanzo di Baum di
Noel Langley, Florence Ryerson, Edgar Allan
Woolf – Adattamenti musicali di Herbert Stothart,
arrangiamenti orchestrali e vocali di George Bassman,
Murray Cutter, Paul Marquardt, Ken
Darby, testi musicati di E. Y. Harburg, musiche di
Harold Arlen, direttore George Stoll, numeri musicali
di Bobby Connolly – Costumi: Adrian –
Montaggio: Blanche Sewell – Scenografie: Edwin B.
Willis – Fotografia in Technicolor di Harold
Rosson, Allen Davey, Natalie Kalmus, Henri
Jaffa – Effetti speciali: Arnold Gillespie –
Prodotto da: Mervyn LeRoy – Interpreti principali:
Judy Garland, Frank Morgan, Ray Bolger,
Bert Lahr, Jack Haley, Billie Burke,
Margaret Hamilton, Charley Grapewin.
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LYMAN FRANK BAUM, Il mago di Oz, a cura di
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DAVID BORDWELL-KRISTIN THOMPSON, Cinema come
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MICHEL CHION, L’audiovisione. Suono e
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NICHOLAS COOK, Analysing Musical Multimedia,
Oxford, Clarendon Press, 1998;
HUGH FORDIN, The World of Entertainment.
Hollywood’s Greatest Musicals, Garden City, Doubleday,
1975;
ALJEAN HARMETZ, The Making of the Wizard of
Oz, New York, Hyperion, 1998;
Musical: das unterhaltende Genre, hrsg. von
Armin Geraths und Christian M. Schmidt, Laaber, Laaber Verlag, 2002
(Handbuch der Musik im 20. Jahrhundert, 6);
MICHAEL O’NEAL RILEY, Oz and Beyond. The
Fantasy World of L. Frank Baum, Lawrence, University Press of
Kansas, 1997;
GRAHAM WOOD, Distant cousin or fraternal twin?
Analytical approaches to the film musical, in The Cambridge
Companion to the Musical, ed. by William A. Everett and Paul R.
Laird, Cambridge, Cambridge University Press, 2002, pp.
212-230;
ALAIN POIRIER, Le funzioni della musica nel
cinema, in Enciclopedia della musica, diretta da
Jean-Jacques Nattiez, vol. 1 (Il Novecento), Torino,
Einaudi, 2001, pp. 622-648.
Sitografia
(luglio 2008)
Sito interamente dedicato a
L. Frank Baum: http://greatsfandf.com/AUTHORS/LFrankBaum.php
Oz on screen, pagina dedicata ai rifacimenti
televisivi e cinematografici del romanzo di Baum: http://www.kiddiematinee.com/ozfilms.html
Oz Central: sito dedicato ad amatori e
collezionisti, ma con aggiornamenti costanti sulle novità
bibliografiche: http://www.oz-central.com/index.html
Wendy’s Wizard of Oz: sito dedicato ad
amatori e collezionisti contenente molti materiali fotografici e
l’intera sceneggiatura del film: http://www.wendyswizardofoz.com/main.php
Links vari dedicati a The Wonderful Wizard of Oz
Website: http://thewizardofoz.info/links.html#aboutbooks
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