Nella celebre intervista rilasciata a François
Truffaut nel 1962, Hitchcock dichiara apertamente di non perseguire
come obbiettivo, nel cinema, la rappresentazione naturalistica
della realtà. Quale essenza della narrazione cinematografica,
al tranche de vie egli oppone il principio drammatico,
l’azione sfrondata dai dettagli inessenziali. Il dramma,
sostiene, «è una vita dalla quale sono stati eliminati i
momenti noiosi».[1] Di conseguenza, afferma che la sua
maggiore preoccupazione consiste nel creare, con i mezzi espressivi
del cinema, delle forme atte ad arricchire l’azione, che
drammatizzino la storia fino a renderla «senza buchi né
macchie», in grado di coinvolgere ed emozionare lo spettatore
evitando interruzioni o cali di tensione.
Per il suo modo di intendere il cinema, ma forse
anche a causa di pregiudizi suscitati dal suo successo presso il
pubblico, Hitchcock fu a lungo frainteso e denigrato dalla critica
americana, restia a considerarlo un ‘autore’ alla
stregua degli altri grandi registi dell’epoca. I suoi film
venivano accusati di essere privi di sostanza, di presentare
situazioni inverosimili e di abusare di uno strumento di
drammatizzazione come la suspense, ritenuta una forma
inferiore di spettacolo. I giovani critici dei «Cahiers du
cinéma», entusiasti sostenitori di Hitchcock, reagirono
per primi contro le opinioni superficiali e tendenziose che si
erano diffuse in America. Ribaltando i termini, dimostrarono
innanzitutto quanto fosse assurdo, nel suo cinema, ricercare la
sostanza al di fuori delle forme dello spettacolo. Eric Rohmer e
Claude Chabrol (nel loro Hitchcock del 1957) riconoscono
proprio nell’ineguagliabile capacità di inventare forme
cinematografiche la peculiarità artistica del maestro inglese
e sottolineano che nei suoi film la forma non interviene a ornare
il contenuto, ma a crearlo.
A partire dalla nuova consapevolezza sul ruolo della
forma espressa dai due colleghi, Truffaut, nell’introduzione
all’intervista, chiarisce altri aspetti essenziali
dell’universo creativo di Hitchcock. Soprattutto spiega come
le sue costruzioni formali, accessibili a ogni tipo di pubblico e
tese, in apparenza, soltanto a drammatizzare le vicende del
racconto per captare l’attenzione dello spettatore,
inneschino livelli di senso di alta complessità, assai diversi
tra loro. Essi vanno dall’indagine profonda sui sentimenti,
sulle pulsioni, sulle ossessioni umane, alla riflessione
metalinguistica sull’arte cinematografica. L’esame
della dimensione visiva permette inoltre a Truffaut di confutare
l’accusa di inverosimiglianza che i critici americani
muovevano ai film di Hitchcock e che egli sembrava avvalorare
dichiarando di non essere interessato alla resa del vero. Truffaut
osserva che, tramite l’eccezionale sensibilità nel
filmare con le sole immagini i sentimenti e i più intimi
rapporti tra gli individui, Hitchcock perviene a un realismo di
grado superiore, che oltrepassa l’arbitrarietà dei
materiali narrativi o degli stilizzati costrutti formali rivolti
essenzialmente a intensificare la tensione drammatica.
Sul piano tecnico, la concezione hitchcockiana del
cinema implicava la padronanza assoluta di tutte le risorse. Il
regista maturò straordinarie competenze in tale senso sin
dall’inizio della carriera, ricoprendo vari ruoli
professionali all’interno delle compagnie di produzione che
operavano a Londra. Oltre a dedicare estrema cura alla
realizzazione delle inquadrature, Hitchcock sovrintendeva a ogni
altra fase di lavorazione del film, dalla stesura della
sceneggiatura, alla fotografia, al montaggio, alla selezione e
sincronizzazione del suono. Tra le materie dell’espressione
predilesse sicuramente l’immagine; si era formato e aveva
esordito alla regia nell’epoca del cinema muto, pertanto
mantenne sempre salda la convinzione che i film muti fossero
«la forma più pura del cinema» e che il «modo
cinematografico» di presentare una storia consistesse nel
saperla raccontare per immagini.
Nei confronti dei significanti sonori Hitchcock
mostrò un atteggiamento ambivalente. Fedele all’idea del
cinema puro, che giunge a compiutezza nel racconto per inquadrature
e sequenze, egli riteneva il dialogo una risorsa scarsamente
espressiva. Ne deprecava anzi la pericolosa tendenza ad abbattere
la tensione, a trasformare il cinema in «fotografia di gente
che parla». Nei suoi film è spesso presente una sfasatura
tra dialogo e immagine, sbilanciata in favore dell’elemento
visivo. Alla situazione contingente affidata al parlato, neutra sul
piano emozionale, viene sovrapposta, evocata dall’immagine,
una dimensione nascosta, portatrice dei nuclei drammatici.
Diversamente, Hitchcock tenne in grande considerazione i rumori e
la musica, per il loro alto potenziale espressivo. Nel valore
aggiunto[2] degli effetti sonori e della musica da
buca sull’immagine reperì un mezzo efficace per influire
sul ritmo dell’azione e per esprimere
l’interiorità dei personaggi o le forze sotterranee
attive in molte situazioni drammatiche. Si servì quindi della
musica da schermo non solo per arricchire la narrazione, ma anche
per incidere sull’equilibrio tematico. Agli effetti sonori e
alla musica affidò, in molti casi, un ruolo centrale nella
drammatizzazione e nella definizione delle forme.
Un film completamente pervaso dalla musica è
The Man Who Knew Too Much, nella seconda versione, del 1956.
Rispetto alla prima versione, girata nel 1934 in Inghilterra,
Hitchcock arricchì con nuove immissioni la consistenza della
componente musicale e ne perfezionò il rapporto con le altre
dimensioni del testo filmico. La musica è presente nel film a
vari gradi. C’è il commento musicale da buca composto da
Bernard Herrmann; il compositore, che aveva iniziato a collaborare
con Hitchcock dalla produzione precedente, A Trouble with
Harry, dello stesso anno, in totale scriverà le musiche
per sette suoi film, firmando capolavori quali Vertigo
(1958) e Psycho (1960). Ci sono alcuni brani di musica da
schermo; i principali, per il rilievo che assumono
all’interno nella vicenda sono Storm Clouds Cantata di
Arthur Benjamin, già al centro dell’intreccio nella
prima versione, e la canzone Whatever will be di Jay
Livingston e Ray Evans. Seguono la musica d’ambiente del
ristorante di Marrakech, l’inno cantato dai fedeli nella
Ambrose Chapel, la seconda canzone di Livingston e Evans,
We’ll love again, eseguita da Doris Day
all’ambasciata.
La mia analisi si concentrerà sulle due sequenze
in cui compare la canzone Whatever will be, uno degli
elementi maggiori di musica da schermo. Sarà indirizzata a
delineare le modalità di organizzazione delle forme attorno a
essa e a rilevare gli esiti raggiunti sul piano tematico. Per
sondare i livelli di senso impressi nelle strutture audiovisive mi
riferirò in partenza ai concetti elaborati da Gilles Deleuze
(nella prima parte del suo studio sul cinema,
L’immagine-movimento) sulle caratteristiche
dell’immagine nel cinema di Hitchcock. Deleuze individua
all’interno della serie visiva un principio di fondo, che a
mio avviso, in The Man Who Knew Too Much influenza anche le
componenti sonore introdotte nell’intreccio.
Il principio risiede nella relazione mentale, che
dà luogo ad un tipo di immagine (immagine mentale), in cui
l’azione non trova significato esclusivamente nella propria
finalità o nei propri mezzi, ma appunto in una relazione che
la fa rimandare a un terzo termine, rendendo palese un atto
cognitivo. L’immagine mentale non coglie l’azione
soltanto come rapporto che si instaura tra due termini, o forze,
sulla base di una legge, ma introduce un’interpretazione.
Afferma Deleuze che:
In Hitchcock le azioni, le affezioni, le
percezioni, tutto è interpretazione, dall’inizio sino
alla fine […] un’azione, essendo data (al presente, al
futuro, o al passato), sarà letteralmente circondata da un
insieme di relazioni, che ne fanno variare il soggetto, la natura
la finalità eccetera. Ciò che conta non è
l’autore dell’azione […] e nemmeno l’azione
stessa: è l’insieme delle relazioni in cui sono presi
l’azione e il suo autore.[3]
Deleuze spiega che l’immagine mentale fa
nascere due generi fondamentali di relazione, naturale o astratta.
La relazione mentale naturale, che egli chiama
‘smarcatura’, è prodotta dall’uscita di un
elemento dalla serie di pertinenza, in cui gli altri sono soliti
riconoscerlo. L’effetto è tanto più forte quanto
più comune è l’oggetto che fuoriesce dalla trama
consueta. Il filosofo mostra diversi esempi tratti dai film di
Hitchcock, gli uccelli, per natura innocui, in The Birds
(1963), il mulino in Foreign Correspondent (1940), le cui
pale girano in senso contrario al vento, l’aereo solforante
in North by Northwest (1959), che compare sebbene non ci
siano campi da solforare. La relazione mentale astratta si attua
invece nel ‘simbolo’, inteso non come pura astrazione,
ma come oggetto reale che porta in sé diverse relazioni.
Secondo tale accezione, è un simbolo, ad esempio, la fede in
Rear Window (1954). Talvolta le smarcature e i simboli
possono convergere nei medesimi elementi.
In The Man Who Knew Too Much gli estremi di
una relazione mentale sono rintracciabili già nella frase che
appare sullo schermo in apertura del film, in conclusione del
passaggio orchestrale che ha accompagnato, con le sezioni di ottoni
e percussioni inquadrate dalla macchina da presa, i titoli di
testa. Sullo sfondo dei piatti, che il percussionista ha appena
suonato nell’accordo finale del breve preludio strumentale,
leggiamo: «A single crash of cymbals and how it rocked the
lives of an American family». Capiremo molto più avanti,
retroattivamente, il significato dell’enunciato. In esso
è condensato il nucleo concettuale del racconto. Hitchcock non
espone semplicemente un fatto, ma esibisce un ragionamento, una
relazione mentale che agisce a partire da un elemento sonoro e
musicale al tempo stesso. L’azione (il colpo di piatti)
rimanda a una conseguenza (la rovina di una famiglia) che non
può essere implicata se non per mezzo di un atto
interpretativo.
Ovviamente, saranno gli eventi narrati nel film a
mostrare il nesso tra i termini. Un’organizzazione criminale
ha pianificato l’assassinio del Primo Ministro di una nazione
(non specificata per motivi di censura), che dovrà avvenire a
Londra durante l’esecuzione della Storm Clouds Cantata
alla Royal Albert Hall. Il sicario, per occultare il rumore ha
l’ordine di sparare in coincidenza del colpo di piatti che
segna il culmine del brano. La famiglia americana dei McKenna, in
vacanza a Marrakech, viene a conoscenza, per una serie di
coincidenze, di alcuni particolari del piano e per questo subisce
il rapimento figlio. Alla disperata ricerca del bambino, che infine
avrà esito positivo, Jo e Ben McKenna saranno protagonisti di
una concitata serie di vicende. Riusciranno, tra l’altro, a
sventare l’omicidio durante il concerto.
La relazione espressa nella frase d’apertura va
oltre gli avvenimenti, mira al nucleo tematico profondo del film.
Hitchcock, secondo consuetudine, ce lo propone avvalendosi di una
trama avventurosa, ricca di azione e di situazioni forti.
L’argomento, complesso, è quello dell’uomo in mano
al proprio destino e viene sviluppato seguendo due aspetti
complementari. Da una parte il labirinto delle possibilità che
si apre di fronte a ogni scelta, dall’altra
l’interferenza, che può unire all’improvviso
dimensioni estranee, distanti, innescando coincidenze
imprevedibili, a volte fatali. La relazione mentale contenuta nella
dichiarazione iniziale pertanto risulta doppia: un labirinto di
possibilità può portare un colpo di piatti a rovinare la
vita di una famiglia soltanto se, a causa di una interferenza, esso
si è a sua volta smarcato, trasformandosi nel colpo di pistola
di un omicidio.
Accanto al tema principale, Hitchcock svolge nel film
alcuni motivi tipici della sua produzione cinematografica, quali la
metamorfosi in personaggio eroico dell’uomo ordinario,
indotta da una situazione eccezionale che egli si trova a
fronteggiare, il male che si cela sotto le sembianze affabili di
membri della buona società, l’incapacità delle
forze dell’ordine nel risolvere i casi di crimine.
Vediamo adesso come interagiscono, nelle sequenze in
cui appare Whatever will be, forma audiovisiva,
rappresentazione tematica, relazione mentale.
La canzone compare per la prima volta nella sequenza
della camera d’albergo a Marrakech (tabella 1). I
coniugi Jo e Ben McKenna, con il figlio, il piccolo Hank, sono da
poco arrivati in Marocco per trascorrere una vacanza. È sera,
Jo e Ben hanno invitato a prendere un cocktail nella loro stanza
Louis Bernard, in previsione di uscire con lui a cena. I McKenna
hanno conosciuto Bernard sull’autobus che li accompagnava in
città, in seguito a un disguido occorso a Hank con un uomo del
luogo. Il francese, dimostrandosi esperto dei costumi locali e
parlando arabo aveva in breve risolto la questione. Jo nutre dei
sospetti su di lui dal momento che si è mostrato reticente nel
rivelare la propria identità e poiché, all’arrivo
dell’autobus, lo ha visto confabulare con l’uomo
dell’incidente, come se tutto fosse stato architettato. Nella
scena della camera d’albergo i sospetti della donna si
infittiscono, per lo strano modo di comportarsi dell’ospite.
Come apprenderemo nelle fasi successive del racconto, Bernard, che
sarà assassinato di lì a poco, era l’agente segreto
sulle tracce dell’organizzazione criminale che progetta
l’uccisione del Primo Ministro.
Tabella 1
Whatever will be occupa, da elemento sonoro
principale, le prime quattro inquadrature della sequenza, dalla
dissolvenza che apre sull’interno della camera
d’albergo, ai rintocchi sulla porta che interrompono Jo e
Hank mentre cantano e ballano insieme. Hitchcock instaura tra suono
e immagine un rapporto di fuori campo attivo. Esso si ha quando un
suono off impone un’aspettativa sul campo visivo,
incitando lo sguardo ad andare a vedere che cosa succede alla
sorgente sonora. Nella sequenza, le voci cantanti, quella di Jo che
intona il ritornello, poi, a catena, quella di Hank che esegue la
prima strofa, sono inseguite dalla macchina da presa, che in
successione rivela le due fonti.
La costruzione audiovisiva, come dimostra Murray
Pomerance con un’analisi dettagliata dell’episodio,
permette alla canzone di trascendere la propria natura e il proprio
valore musicale, elevandosi a fulcro di significati[4].
. In termini deleuziani, il brano attiva una
relazione mentale astratta, divenendo un simbolo delle dinamiche
affettive tra i membri della famiglia McKenna. Per il suo tramite
comprendiamo la forza del legame tra madre e figlio. Si pensi a
come Jo e Hank, alternandosi con estrema precisione
nell’intonazione delle sezioni, dialoghino in musica (inq. 2)
o al perfetto affiatamento che esibiscono nel muovere assieme un
passo di danza su quanto stanno cantando (inq. 4). Quando sentono
il bambino cantare poi, entrambi i genitori si scambiano un sorriso
compiaciuto, che manifesta tutta la loro soddisfazione per la sua
precoce sensibilità (inqq. 2-3). Pomerance nota che anche il
testo poetico della canzone, in sé di scarso spessore, assume
rilievo se considerato in questa ottica. Hank canta delle strofe
nostalgiche, che rimandano in prima persona a momenti
dell’infanzia e dell’adolescenza ormai lontani:
«When I was just a little boy […] / When I was just a
child in school […] / When I grew up and fell in love
[…]». Si tratta di esperienze e sensazioni che, per la
sua età, non può avere vissuto. Esse potrebbero semmai
essere ricondotte alla storia personale di Jo, che evidentemente ha
insegnato il brano al figlio. Ascoltandole cantate dal bambino, per
di più fuori campo, ossia in assenza della sua figura, ci
fanno percepire una sfasatura temporale. Sembra che la voce
provenga dall’interiorità della madre, che rivive nel
figlio le emozioni di un tempo, a testimonianza della profonda
reciprocità che intrattiene con lui.
Sul fronte della rappresentazione tematica, la forma
audiovisiva offre dei consistenti riferimenti ai due aspetti
complementari del tema centrale del film, labirinto e interferenza.
Le stanze separate da cui provengono le voci di Jo e Hank,
congiuntamente al movimento della macchina da presa, che si muove
alla loro ricerca imbattendosi di passaggio in molti altri
elementi, rimandano all’idea del labirinto delle
possibilità (inq. 2). Un labirinto acustico, come spiega
ancora Pomerance è invece provocato dallo scarto temporale che
si crea tra il passato degli avvenimenti raccontati nella canzone e
l’anticipo che la canzone stessa gioca sull’immagine
attraverso il fuori campo attivo. Si crea una sospensione del
tempo, dominata da una sorta di doppia memoria. Una, lontana,
è legata agli eventi evocati dal brano, l’altra,
immediata, viene prodotta dal movimento della macchina da presa,
che giunge a inquadrare la sorgente quando della voce, appena
estinta, non è rimasto che il ricordo.
L’interferenza è richiamata dai rintocchi
sulla porta che, interrompendo l’esecuzione di Whatever
will be, spezzano l’incanto del sereno quadretto
familiare. Ben apre la porta una prima volta e si trova di fronte
il cameriere con la cena per Hank (inq. 5). Poco dopo però,
quando ad aprire va Jo, i coniugi si trovano a contatto diretto,
ignorandolo, con il sicario Rien. Considerata a posteriori, quando
saranno ormai definite le identità e le intenzioni di ogni
personaggio, la comparsa del criminale sulla porta della camera
d’albergo appare come il segno ineluttabile del destino
sventurato che sta per travolgere i McKenna (inq. 20).
Nel resto della sequenza (inqq. 5-31) la narrazione
è meno densa di implicazioni ed è basata sullo
sbilanciamento, caratteristico del cinema di Hitchcock, tra
immagini e dialogo. L’unica tensione che possiamo cogliere
dal parlato è quella tra Jo e Bernard, dovuta alle risposte
evasive dell’agente che insospettiscono la donna. Sono le
inquadrature, che ritraggono Bernard nell’ombra, spesso di
spalle, in disparte ma vigile, a rendere in pieno l’idea del
suo incombere sui McKenna e dell’alone di mistero che avvolge
la sua figura. Così come spetta ancora all’immagine
comunicare l’allarme procurato al francese dalla vista del
sicario. La zoomata improvvisa sul volto di Rien, unita al
codice iconografico cui risponde il volto dell’uomo, non ci
fanno avere dubbi poi, sulla minaccia che egli rappresenta. Anche
gli atteggiamenti dei due coniugi, la diffidenza di Jo, la
tranquillità di Ben, sono espressi attraverso l’elemento
visivo. Sulla domanda di Bernard, che riaccende i dubbi della donna
(inq. 6), inizia la musica da buca di Herrmann, caratterizzata da
una melodia orientaleggiante, poco direzionata, che rimarrà
sospesa su tutta la scena. La musica ben si adatta ed esternare i
sospetti di Jo e a rivestire il clima di incertezza che cala
sull’episodio.
La canzone appare per la seconda volta nella sequenza
dell’ambasciata, l’ultima scena d’azione del film
(tabella 2).
Sicuri che i rapitori trattengano Hank prigioniero
nell’ambasciata, i McKenna vi si recano, sfruttando
l’invito rivolto dal Primo Ministro a Jo, che gli ha salvato
la vita all’Albert Hall. Jo chiede di poter cantare in
omaggio agli invitati al ricevimento. In realtà la sua
intenzione è quella di intonare a gran voce Whatever will
be, in modo tale da farsi sentire da Hank, se si trova
nell’edificio. Il bambino, rinchiuso sotto stretta
sorveglianza ai piani superiori, non tarderà a riconoscere la
voce della madre e a rispondere, fischiando il motivo che gli
è familiare.
Tabella 2
Anche nella sequenza dell’ambasciata, la
canzone esce dalla serie di pertinenza per avviare una relazione
mentale. Essa non abbandona il valore di simbolo dei legami
familiari, in particolare di sigillo della profonda affinità
tra madre e figlio. La situazione disperata però le fa
assumere, in modo preponderante, le caratteristiche della
smarcatura. Il brano si trasforma nel più efficace strumento
d’azione, sia per il prigioniero che per il suo
liberatore.
Nella sequenza, Hitchcock non si fa sfuggire
l’occasione per proporre un’ultima, incisiva figura
audiovisiva di labirinto. Egli la crea per mezzo delle inquadrature
di scale e corridoi del palazzo che vengono attraversati dalla voce
Jo per raggiungere la stanza in cui è segregato il piccolo
Hank (inqq. 12-17). Se di solito, in un costrutto audiovisivo,
spetta al suono vettorializzare l’immagine, in questo caso ci
troviamo di fronte a un’inversione, con la serie visiva che
idealmente guida l’elemento sonoro verso la sua meta.
Intanto, il motivo dell’ineluttabilità del
destino, terzo aspetto del tema centrale del film, appare ormai
completamente sviluppato dal racconto, quando la canzone risuona
per la seconda volta. Apparentemente contraddittorio rispetto agli
altri due, esso si pone in realtà come loro coronamento: nel
labirinto delle possibilità, il destino sceglie la via da far
seguire e l’interferenza può essere una delle sue
logiche. Nel semplice ritornello della canzone, suggerisce
acutamente Pomerance, è contenuta una chiave interpretativa di
tale aspetto[5]. Se nella camera d’albergo di
Marrakech «Que sera, sera» sembrava dire che non si
può sapere in anticipo ciò che deve succedere,
finché non sarà successo, nell’esecuzione
all’ambasciata, alla luce degli avvenimenti del film,
«Que sera sera», letto senza la virgola, ci ammonisce
sull’ineluttabilità del destino, che farà
sicuramente accadere ciò che vuole che accada.
Scheda del film
ALFRED HITCHCOCK, The Man Who Knew Too Much
(L’uomo che sapeva troppo, Filwite Productions, 1955
(Universal Studios, 2001), 120 min.
Regia: A. Hitchcock; soggetto: da un racconto
di Charles Bennet e D.B. Wyndham-Lewis;
sceneggiatura: John Michael Hayes e
Angus McPhail; fotografia: (Technicolor Vistavision)
Robert Burks; effetti speciali: John P.
Fulton; scenografia: Hal Pereira, Henry Bumstead,
Sam Comer, Arthur Krams; musica: Bernard
Herrmann; canzoni: Whatever will be e We’ll
love again di Jay Livingston e Ray Evans;
Storm Clouds Cantata di Arthur Benjamin su testo di
D.B. Wyndham Lewis (esecuzione: London Symphony Orchestra,
direttore: Bernard Herrmann); montaggio: George
Tomasini; aiuto regia: Howard Joslin; interpreti
principali: James Stewart (dottor Ben McKenna), Doris
Day (Jo, sua moglie), Cristopher Olsen (Hank McKennna),
Daniel Gélin (Louis Bernard), Brenda de Branzie
(signora Drayton), Bernard Miles (suo marito), Ralph
Truman (l’ispettore Buchanan), Mogens Wieth (il
Primo Ministro), Reggie Nalder (Rien,
l’assassino).
Altra filmografia consultata
ALFRED HITCHCOCK, The Man Who Knew Too Much
(L’uomo che sapeva troppo), Gran Bretagna, Gaumont
British Picture Corporation, 1934, 76 min.
Bibliografia
ROYAL S. BROWN, Overtones and Undertones,
Berkeley, University of California Press, 1994;
MICHEL CHION, L’audiovisione. Suono e
Immagine nel cinema, Torino, Lindau, 20012;
—————, La musique au
cinéma, Paris, Éditions Fayard, 1995;
NICHOLAS COOK, Analysing Musical Multimedia,
Oxford, Clarendon Press, 1998;
GILLES DELEUZE, Cinema 1 –
L’immagine-movimento, Milano, Ubulibri, 1984;
MURRAY POMERANCE, «The Future’s Not
Ours to See»: Song, Singer, Labyrinth in Hitchcock’s
«The Man Who Knew Too Much», in Soundtrack
Available: Essays on Film and Popular Music, ed. by Pamela
Robertson Wojcik and Arthur Knigth, Durham, Duke University Press,
2001, pp. 53-73;
—————, Why
Hides the Sun in Shame? Ambrose Chapel and «The Man Who
Knew Too Much», «The MacGuffin», Summer 2005,
consultato on-line all’indirizzo: www.ryerson.ca/mgroup/murray.html
(giugno 2008);
FRANÇOIS TRUFFAUT, Il cinema secondo
Hitchcock, Milano, Net, 2002;
ELISABETH WEIS, The Silent Scream - Alfred
Hitchcock’s Soundtrack, Rutherford, Fairleigh, Dickinson
University Press, 1982.
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