I. Parole, musica, guerra
Durante la seconda guerra mondiale, le immaginazioni
sonore di Frank Martin e Viktor Ullmann furono conquistate da una
medesima storia di dame, cavalieri, armi e amori: una storia antica
trasfigurata da un moderno sentire, narrata sul nascere del
Novecento da Rainer Maria Rilke nel poemetto Die Weise von Liebe
und Tod des Cornets Christoph Rilke (‘Il canto
d’amore e morte dell’alfiere Christoph Rilke’,
d’ora in poi Cornet), in cui il poeta rievoca una
crociata contro i turchi condotta dal suo antenato Christoph nel
XVII secolo. Era un episodio storico come tanti, un mero fatto di
cronaca, che però la penna di Rilke aveva reso un’opera
artistica di rara penetrazione psicologica e dal seducente
linguaggio ibrido: trecentocinquanta righe scritte in uno stile
insieme poetico e narrativo, in una prosa che urge alla poesia, al
lirismo.[1] Martin e Ullmann ne trassero due
composizioni rispettivamente nel 1942-1943 e nel 1944, in pieno
conflitto, ricollegandosi così, anche solo involontariamente,
a quei compositori come Kurt Weill, Paul von Klenau e Kasimir von
Pászthory che avevano avvertito questi versi di Rilke
particolarmente adatti a risuonare in musica al tempo della prima
guerra mondiale.[2]
È facile ritrovare i motivi per cui il
Cornet, testo avvincente ed eccezionalmente diffuso, con
migliaia di copie vendute fin dalle prime edizioni, fosse
protagonista di una ricezione non solo generica ma anche
specificamente musicale e bellica. Infatti, esso da un lato offriva
una versificazione che oltre a venarsi di una propria
musicalità, fatta di assonanze, allitterazioni e onomatopee,
si rivelava in sintonia con molte forme e sintassi musicali
novecentesche in ragione di una struttura complessivamente libera,
rapsodica, tutta a scorci, facilmente sezionabile e adattabile
anche grazie a una griglia alquanto regolare di ventisei brevi
capitoli. D’altronde, Rilke cantava l’amore e la morte
in una poesia di guerra, ammantando l’avventura cavalleresca
di tali caratteri eroici, patriottici e sacrificali – in
ultima istanza di glorificazione della battaglia – da rendere
il Cornet identificabile in vari modi con gli slanci di
nazionalismo interventista che percorrevano l’Europa nei due
decenni intorno alla Grande Guerra.[3] A tale aura del
Cornet contribuì peraltro anche il susseguirsi delle
sue varie versioni ed edizioni, dato che la prima versione del
Cornet risale al 1899 ma il grande successo editoriale
giunse proprio a ridosso del conflitto, nel 1912, quando una nuova
e definitiva versione, approntata da Rilke già nel 1906, venne
pubblicata come primo volume della collana
Insel-Bücherei, che sarebbe poi divenuta celebre.
In verità, né le trasposizioni musicali del
Cornet né le sue aggiornate connotazioni
patriottico-militari rispondevano alle intenzioni e
all’approvazione di Rilke. Egli tuttavia non poté
opporsi né all’una né all’altra tendenza
interpretativa; dovette piuttosto assistere all’inveramento
di un principio da lui stesso dichiarato, secondo cui l’opera
d’arte, in generale, «è una confessione
profondamente intima che si presenta sotto forma di un ricordo, di
un’esperienza o di un evento e che può esistere da sola,
indipendentemente dal suo artefice».[4] Rilke dovette
constatare insomma come il suo testo, una volta dato alla
comunità estetica, potesse non senza motivo essere oggetto di
svariate ricezioni all’interno di orizzonti di significato
che oltrepassavano quello dell’originale atto creativo.
In merito alle trasposizioni musicali, Rilke era
contrario a quelle del Cornet come a quelle di qualsiasi
altra sua opera, perché, a suo dire, accostare
contemporaneamente musica e poesia significava creare un attrito
fra le due arti. Secondo lui, la sua poesia bastava a se stessa.
Non vi era spazio per altre ‘illustrazioni’, nemmeno
per quelle pittoriche.[5]
Sono, ahimé!, davvero sinceramente avverso a
qualsiasi accompagnamento – musicale tanto quanto figurativo
– delle mie opere. Dopo tutto, il mio scopo è quello di
riempire con la mia creazione tutto lo spazio artistico che si
offre ad un’idea della mia mente. Detesto credere che ci
possa essere una qualche stanza lasciata a disposizione per
un’altra arte, che quindi sarebbe a sua volta interpretativa
e complementare.[6]
Pur osteggiando apertamente in particolare il pezzo
di Pászthory – affermando di sentirsi
«castigato» da una musica che costituiva una
«fessura» (Ritze) tramite la quale il testo
poetico era stato «invaso dalle tarme» (drang das
Mottenvolk ein) –,[7] Rilke non fu nelle
condizioni di negare al compositore il permesso per
l’esecuzione e la pubblicazione del brano, nonché per
l’organizzazione di serate in cui questo arrangiamento del
Cornet costituiva una delle principali attrattive (in
seguito, peraltro, a Rilke fu anche garantita una percentuale sui
guadagni procurati dagli sfruttamenti musicali del Cornet, e
non solo quello di Pászthory). Né Rilke poté in
alcun modo interferire con la forte ricezione musicale di cui
godeva la sua poesia in generale.[8]
Riguardo invece all’interpretazione del
Cornet come poesia di guerra e della Grande Guerra, sembra
che Rilke in questi versi risentisse a malapena della propria
personale esperienza all’Accademia militare, e nel 1899 certo
non poteva immaginare la catastrofe che anni dopo avrebbe sconvolto
l’Europa. Egli attribuiva al vero artista, e ovviamente a se
stesso, una «visione esistenziale estranea al proprio
tempo» (zeitfremdem Lebensmeinung) sostenendo che
l’arte, per essere tale, non poteva accompagnare gli eventi
con patriottici gesti di disapprovazione o di consenso, pena la sua
riduzione a un mero «giornalismo rimato o dipinto»
(gereimter oder gemalter Journalismus). Conscio tuttavia che
l’artista inevitabilmente si incontra con i portati della
propria epoca, concepiva l’atto creativo proprio come
prodotto del conflitto fra la sfera del presente e quella autonoma
dell’arte.[9] Così, Rilke fu contrariato dai nuovi
significati bellici e sociali assunti dal Cornet, ma a
testimonianza di come in seguito li abbia compresi, e in un certo
senso si sia adeguato ad essi, basti citare una sua poesia del
1914, spedita, insieme con una copia del poemetto, a un tenente
rimasto ferito in guerra:
Noch weiß ich sie, die wunderlich Nacht
da ich dies schrieb: was war ich jung.
Nun hat seither des Schicksals Forderung
Geschehen über Tausende gebracht.
Mut über Tausende, Not über sie,
und über Hunderte das Heldentum
das plötzliche: als hätten sie noch nie
ihr Herz gekannt. So war auch meines ganz
wie neu für mich in jener fernen Nacht
da ungeahnt, unausgedacht
dieses Gedicht aus ihm entsprang…
So sind wir etwas, sinds und wissens nicht
und Schicksal ist nicht mehr als wir: es will.[10]
Al di là dell’originario e autentico
sentire del suo autore, dunque, il Cornet ben si prestava ad
essere musicato in un periodo bellico. Così era stato durante
la prima guerra mondiale e così fu durante la seconda per
Martin e Ullmann.[11] Nell’avventura dell’alfiere
rilkiano i due compositori individuarono un testo che rispondeva
alle loro esigenze, compositive ed extramusicali, e su tale base
letteraria, a circa un anno di distanza l’uno
dall’altro, scrissero rispettivamente un ampio Lied per
contralto e orchestra da camera (Martin)[12] e un melologo per
voce recitante e pianoforte (Ullmann). In quel periodo Martin e
Ullmann partecipavano della stessa circostanza storica e sociale
della guerra, e tuttavia affrontavano condizioni pratiche ed
esistenziali assai differenti. Infatti, Martin si trovava nella
natia e neutrale Svizzera, al riparo dai pericoli del conflitto,
mentre Ullmann nell’agosto 1944, quando mise in musica i
versi di Rilke, era internato ormai da due anni nel ghetto di
Theresienstadt: il Cornet sarebbe stata la sua ultima
composizione, prima della fatale deportazione ad Auschwitz.
Quantunque al tempo della seconda guerra mondiale il
Cornet non avesse affatto smarrito il suo potenziale
significato di poesia bellica ‘attualizzabile’, non
sarà forse mai possibile stabilire se effettivamente Martin e
Ullmann – in che misura e in quale modo – intendessero
la battaglia narrata nel Cornet come un allegorico
riferimento alla realtà circostante. Disponiamo di alcune
dichiarazioni di Martin riguardo alla nascita del suo Cornet
che in verità non fanno riferimento a un intendimento poetico
di tal genere ma che, semmai, testimoniano il generico forte
fascino provato dal compositore per quest’opera e per il modo
in cui la lingua rilkiana parla di guerra. Egli infatti la
definisce una «breve epopea», una serie di «piccoli
poemi in prosa» (rievocando così quelli di Baudelaire ne
Le spleen de Paris) che riescono a salvaguardare una
sensibilità incredibilmente raffinata «pure nella
raffigurazione della brutalità della guerra».[13]
Per ciò che riguarda Ullmann, invece,
l’intenzione di affidare alle parole di Rilke un qualche
significato di rappresentazione ‘attualizzata’ è
solo deducibile da alcuni indizi indiretti, ovvero da ciò che
si può ricostruire della vita sociale e
dell’atteggiamento artistico del compositore nel ghetto di
Theresienstadt. Forse musicare il Cornet era un modo per
rendere omaggio a un compositore e amico di Ullmann, Siegmund
Schul, anche lui internato a Theresienstadt, deceduto il 2 giugno
del 1944; ma non è improbabile che l’incedere di
Christoph contro i turchi nascondesse per Ullmann il significato di
un incoraggiamento alla resistenza contro le forze naziste, proprio
nel momento in cui all’interno del campo si diffondevano le
notizie dell’avvenuto sbarco in Normandia da parte delle
forze americane e dell’avanzata verso Berlino da parte di
quelle sovietiche. Inoltre, date le convinzioni spirituali di
Ullmann, il significato della morte di Christoph pare oltrepassare
quella del singolo e piuttosto da intendersi, in senso
‘steineriano’, come germe di nuova vita –
un’idea di morte che senza dubbio apparteneva a Ullmann e che
durante la sua prigionia egli aveva espresso come velato simbolo di
resistenza nell’opera Der Kaiser von Atlantis.[14]
In ogni caso, a prescindere da eventuali significati
extramusicali di natura sociologica, un’analisi del
Cornet di Martin e di quello di Ullmann, in un confronto che
evidenzi le differenze quanto le sintomatiche affinità,
può rivelarsi di estremo interesse per una definizione dello
stile e delle visioni estetiche dei due compositori, con
riferimento ad alcune generali tendenze della musica del Novecento,
nonché per suggerire ulteriori riflessioni sulle
caratteristiche semantiche e puramente sonore del testo di
Rilke.
II. Parole, musica, modernità
L’argomento e le strutture poetiche del
Cornet scaturiscono da una forte tensione fra tradizione e
modernità, a vari livelli. Rilke assume gli elementi arcaici e
tradizionali della vicenda del suo antenato con un atteggiamento
che in senso lato si potrebbe definire neoromantico, se non
addirittura espressionista. Il richiamo dell’avventura epica
presenta tratti cari agli scrittori romantici, così come
l’espediente del ‘documento ritrovato’: la breve
cronaca che Rilke pone ad introduzione del poema per definirne le
coordinate storiche è una sorta di estratto di atto giuridico
in cui Otto von Rilke viene additato come erede dei poderi del
fratello Christoph, caduto in Ungheria contro i turchi. Tale atto,
recante gli spunti storici da cui scaturisce la narrazione
dell’avventura dell’Alfiere, era stato procurato a
Rilke dallo zio Jaroslav, che per documentare la nobiltà della
famiglia aveva compiuto delle ricerche nell’Archivio di stato
di Sassonia. Storicamente la battaglia è quella di
Mogersdorf-San Gottardo, svoltasi nel 1664, in cui gli austriaci
alleati con francesi, olandesi e altri, guidati da Raimondo
Montecuccoli e Johann Spork, respinsero un attacco dei turchi sul
fiume Raab (ora al confine fra Austria meridionale e Ungheria).
Se il fatto è accertato, tanto la discendenza
nobile della famiglia Rilke quanto i contorni della partecipazione
di Christoph alla battaglia narrata nel poema sono di assai dubbia
attendibilità. Le stesse circostanze della stesura del
Cornet, riferite da Rilke, indicano un’ispirazione per
nulla cronachistica, bensì sospesa fra il gesto rapsodico del
genio romantico e una scrittura quasi ‘automatica’.
Infatti in una lettera del 1924 – come già nella poesia
del 1914 spedita a Friedrich von Mosch (si veda sopra) –
Rilke ricordava:
Il Cornet fu il dono inatteso d’una sola
notte, d’una notte d’autunno, scritto di un fiato, al
lume di due candele agitate dal vento notturno; nacque dal vagare
delle nuvole sulla luna, dopo che il pretesto materiale mi era
stato ispirato, alcune settimane innanzi, dalla prima conoscenza di
certe carte di famiglia venutemi per eredità.[15]
Assunto nella rilkiana poetica del pretesto, lo
scenario del dato storico viene filtrato da correlativi oggettivi,
elementi simbolici e accenni a percezioni ultrasensibili che
conducono all’estremo la poetica propria di molti scrittori
romantici e pongono il Cornet sullo stesso piano di altre
opere ‘moderne’ ad esso contemporanee – come
L’angelo di fuoco (1908) di Valerij Brjusov, ad
esempio, in cui lo scrittore russo sfrutta l’espediente del
‘manoscritto ritrovato’ e la vicenda del Rinascimento
germanico per una narrazione di stampo pienamente simbolista.
L’atteggiamento di Rilke può cioè essere definito
genericamente neoromantico se si considera che, oltre al tema del
viaggio e oltre al gusto per il ritrovamento di un’epica
remota, anche una certa indagine della sfera psicologica, a scapito
di quella materiale, concreta e sensibile, risale a istanze del
Romanticismo storico, per poi costituire il fondamento di varie
correnti a cavallo fra Otto e Novecento, fino a culminare, in
ambiti artistici ed epistemologici, con la scoperta
dell’inconscio e la nascita della psicoanalisi.[16]
L’avventura riportata nel Cornet vede il
diciottenne Christoph Rilke – detto dal narratore «quel
di Langenau» – cavalcare a lungo insieme ai suoi
compagni e attraversare vari paesaggi per congiungersi
all’esercito imperiale del comandante Johann Spork (capitolo
X) che conferisce a Christoph il grado di Alfiere. Dopo aver
ripreso il viaggio, Christoph e gli altri trovano sosta in un
castello dove incontrano delle dame e viene organizzato un festante
banchetto, ebbro di danze. Christoph trascorre una notte
d’amore con la castellana. Ma il mattino successivo il
castello viene messo a ferro e fuoco dai turchi; Christoph si
lancia a cavallo contro il nemico e, bruciata la propria bandiera,
cade ucciso.
Rilke recupera una figura medievale carica di
significati mistici e salvifici, quella del cavaliere, che dopo
aver attraversato l’immaginario romantico tendeva
all’alba del XX secolo ad incarnare simbolicamente la
missione dell’artista stesso (si pensi al gruppo
espressionista Der Blaue Reiter [‘Il cavaliere
azzurro’]). Muovendo da simili archetipi, la modernità
del racconto risiede nell’alternanza, intersezione e
confusione che il poeta continuamente crea fra il mondo della
realtà e quello interiore del protagonista. Fin
dall’inizio, infatti, il cavalcare del viaggio è intriso
della forte nostalgia che Christoph nutre soprattutto per la madre
– sentimento che si estende poi agli altri compagni
d’avventura – e lo scenario sembra indagabile
ricorrendo a un misterioso intuito, più che tramite i sensi:
«Si hanno due occhi di troppo» (man hat zwei Augen
zuviel) ammonisce Rilke dopo pochi versi, schiudendo al lettore
una dimensione contaminata dall’indeterminatezza del tempo e
dal disorientamento nello spazio. In seguito, sarà sempre
sottile il confine fra la concretezza dei corpi e le
rappresentazioni della psiche. Un momento di marcata sinestesia fra
sogno e coscienza è, ad esempio, il sensuale incontro con le
dame durante il banchetto al castello (capitolo XVI):
Und Einer steht und staunt in diese Pracht. Und er
ist so geartet, daß er wartet, ob er erwacht. Denn nur im
Schlafe schaut man solchen Staat und solche Feste solcher Frauen:
ihre kleinste Geste ist eine Falte, fallend in Brokat. Sie bauen
Stunden auf aus silbernen Gesprächen, und manchmal heben sie
die Hände so –, und du mußt meinen, daß sie
irgendwo, wo du nicht hinreichst, sanfte Rosen brächen, die du
nicht siehst. Und da träumst du: Geschmückt sein mit
ihnen und anders beglückt sein und dir eine Krone verdienen
für deine Stirne, die leer ist.[17]
Perfino l’episodio più
‘materico’ di tutta la vicenda, cioè lo scontro
col nemico che assalta e incendia il castello il mattino dopo la
notte d’amore di Christoph (capitolo XXIII), è avvolto
in una sorta di trance che rende il passaggio dal momento
onirico dell’amore alla morte in un’accelerazione quasi
senza soluzione di continuità.
Ist das der Morgen? Welche Sonne geht auf? Wie
groß ist die Sonne. Sind das Vögel? Ihre Stimmen sind
überall. / Alles ist hell, aber es ist kein Tag. / Alles ist
laut, aber es sind nicht Vogelstimmen. / Das sind die Balken, die
leuchten. Das sind die Fenster, die schrein. Und sie schrein, rot,
in die Feinde hinein, die draußen stehn im flackernden Land,
schrein: Brand.[18]
Ma non è solo l’argomento del racconto di
cronaca ad essere modernamente trasfigurato, bensì anche la
lingua stessa: versi ora lunghi, ora di una parola sola, che
corrono a strappi, con sorprendenti omissioni lessicali, continui
spostamenti, indeterminatezze e rotture della sintassi
convenzionale. Sganciata da qualsiasi precostituita regola metrica,
in assenza di quantità sillabiche ricorsive, la lingua del
Cornet risuona piuttosto governata da inaudite forze
ritmiche e musicali – fin dall’iniziale
«Reiten, reiten, reiten» – ove spiccano
significanti potenzialmente ambigui, dalle finissime oscillazioni
semantiche, e termini di derivazione arcaica.[19]
Il recupero di elementi tradizionali e il loro
ricombinarsi grazie a una personale ricettività alle tendenze
moderniste del Novecento è una caratteristica di tutta
l’opera di Rilke.[20] Nel giovanile
Cornet, tale dialettica fra tradizione e modernità si
rivela in uno stile dalle sembianze ‘istintive’ –
seppure inevitabilmente legato a una riflessione sulla poesia
– che in base a componenti altamente psichico-simboliche
disarticola, trasforma e sotto nuove prospettive ricompone a un
tempo la lingua tradizionale e la vicenda storica. Non a caso,
già alla fine degli anni Venti il critico Felix Wittmer aveva
notato come l’innovativa libertà sintattica e formale
del Cornet richiamasse certe strutture musicali moderniste
di quel tempo che tuttavia mantengono elementi della
tradizione.
Wittmer identifica un esempio di efficace
trasposizione musicale del Cornet, di rappresentazione dei
suoi effetti linguistici, proprio nel citato pezzo di
Pászthory; composizione dalle tonalità sì
«libere» e spesso cromatiche, ma con un frequente impiego
di triadi consonanti, e dunque ben distante dagli sperimentalismi
dei più avanzati Klavierstücke di Schönberg,
di certe opere di Webern o del tardo Skrjabin. Nel suo paragone,
Wittmer accenna alla «discontinuità» di Reger e cita
invero il nome di Schönberg, ma non le più radicali opere
dodecafoniche, bensì genericamente una «armonia di
timbri» – corrispettivo armonico della «melodia di
timbri» (Klangfarbenmelodie), argomentata dal
compositore nel suo Manuale di armonia del 1911.
Se fino ad ora riguardo alle leggi musicali della
poesia sono apparsi studi isolati [Wittmer cita qui Oskar WALZEL,
Leitmotiv in Dichtungen, «Zeitschrift für
Bücherfreunde», n.f. 8, 2, p. 270; Adolf von GROLMAN,
Adalbert Stifters Romane, Halle, 1926] allora, quando prima
o poi si sarà raccolto materiale a sufficienza, qualcuno
dovrebbe scrivere la storia dello stile musicale in poesia.
Diventerebbe allora chiaro che Rilke organizza i suoi leitmotiv,
come «Desiderio e morte, donna e destino» (Maync), in un
modo più ardito e li varia al pari di E.T.A. Hoffmann ne La
pentola d’oro. Ci accorgeremmo che la forma dissoluta
[sciolta] dell’opera di Rilke [il Cornet] si avvicina
al libero stile della musica moderna, che la sua metrica cambia
indicazioni di tempo con una frequenza pari a quella delle più
discontinue opere di Reger, che è in grado perfino di emettere
‘accordi-parola’ [Wortakkorde] che il geniale
teorico musicale Arnold Schönberg aveva in mente come
«armonie di timbri»
[Klangfarbenharmonien].[21]
Tale analogia letterario-musicale assume rilevanza
anche considerando la vicinanza cronologica di Wittmer rispetto
alla diffusione del testo del Cornet e dei suoi
arrangiamenti musicali. Al di là delle effettive competenze
musicologiche di Wittmer – che nel corso del saggio comunque
emergono con pertinenza, sia in merito al Cornet di
Pászthory, sia alla conoscenza dei repertori moderni di quel
tempo – è sintomatico che nel parlare di un generico
«libero stile della musica moderna», idealmente
riferibile a quello letterario del Cornet di Rilke, egli
indichi tendenze che non tagliano completamente i ponti con i
linguaggi del passato, cioè stili compositivi non radicalmente
atonali.
Trattandosi di un testo scritto all’alba del
Novecento, il Cornet non poteva incontrarsi che con stili
musicali «moderni». Ma se si considera la dialettica fra
tradizione e modernità che soggiace al testo di Rilke, e anche
solo si legge il saggio di Wittmer scorgendo con cognizione di
causa i riferimenti musicali fra le pieghe delle sue parole, paiono
non casuali gli stili ‘contaminati’ delle citate
versioni di Klenau, di Kurt Weill e dello stesso Pászthory.
Ugualmente, pare sintomatico che in seguito sia Frank Martin sia
Viktor Ullmann abbiano musicato il Cornet ricorrendo a
stilemi compositivi che da un lato si richiamano a Schönberg e
alla dodecafonia (esplicitamente in Martin, indirettamente in
Ullmann) e d’altronde mantengano vari elementi ereditati dal
sistema tonale.
III. L’ombra di Schönberg
Quando Martin si accingeva a scrivere il
Cornet, aveva già da alcuni anni volto lo sguardo al
«metodo di composizione con dodici note» adottandolo con
varie trasgressioni rispetto al modello schönbergiano e
rispetto a quelle composizioni della Scuola di Vienna che egli
aveva avuto occasione di ascoltare ed esaminare.[22] Una delle
caratteristiche della dodecafonia di Martin risiede nella
multiforme presenza di quel «senso tonale» che egli a
vari livelli mantiene nella maggior parte delle sue opere e che
all’epoca del Cornet, in uno scritto del 1943 dal
titolo Défense de l’harmonie, definì una
delle caratteristiche distintive della musica europea.[23] In
un altro scritto, intitolato Schönberg et nous, di
pochi anni successivo, Martin avrebbe dichiarato la sua personale
concezione, estetica e poetica, del metodo dodecafonico:
Come tutte le rivoluzioni, quella di Schönberg
erige a sistema il nuovo pensiero che propone, nega tutto ciò
che non è essa stessa, e considera decisamente sospetti coloro
che si accostano ad essa senza adottare l’integralità
dei suoi dogmi. Come tutte le rivoluzioni, essa crede anche che
l’avvenire le appartiene, non comprendendo che, per sua
essenza, è effimera, e che il suo apporto positivo non
può essere fecondo se non si integra nei valori permanenti
della musica. Poiché non ci sono, nell’arte, valori
reali se non quelli che uniscono l’immediato e il permanente.
[…] È così che le regole stabilite da
Schönberg possono arricchire la nostra scrittura musicale
rendendo la nostra sensibilità più acuta. Questa tecnica
allora parlerà un altro linguaggio rispetto a quello del suo
ideatore, ognuno lo modellerà secondo il proprio temperamento.
[…] Così possiamo partecipare a questa liberazione dalla
cadenza e dalla tonalità classica, a questa liberazione quindi
dal modo diatonico, senza tuttavia rinunciare al nostro senso di
funzione tonale, di basso funzionale e di gerarchia dei rapporti di
cui l’acustica elementare ci garantisce la realtà
fisica.[24]
Circa vent’anni dopo Schönberg et
nous, Martin avrebbe riaffermato che l’adozione di una
serie dodecafonica non implica necessariamente
l’atonalità, e che le sperimentazioni con le serie
avevano influenzato il cromatismo che costituisce una parte
consistente della sua produzione musicale.[25] Il Cornet
è uno dei pezzi in cui Martin ricorre parzialmente a tale
poetica di libero approccio alla dodecafonia, evidente
nell’incipit del contralto solo, poi riproposta qua e
là, in modo discontinuo ma inequivocabile. Ove presente, essa
ritiene vari «sensi» tonali e numerose
‘licenze’ rispetto alle regole seriali stabilite da
Schönberg – licenze cui Martin accenna sempre in
Schönberg et nous – come le ripetizioni di note
all’interno della serie, o i raddoppi d’ottava, o
l’impiego di serie ‘difettive’ (non di dodici ma
di undici o dieci note).
Il rapporto con Schönberg fu certo più
stretto per Ullmann che non per Martin, dato che in un periodo
immediatamente successivo alla prima guerra mondiale Ullmann era
stato di Schönberg allievo diretto. Tuttavia, paradossalmente,
il rapporto di Ullmann con la dodecafonia è molto meno
evidente e documentabile rispetto a quello di Martin, e in un
confronto fra i due Cornet, se in quello di Martin il
riferimento seriale è per vari passaggi esplicito (e talora,
quando esso non emerge dalla versione definitiva, viene confermato
da alcuni schizzi), in quello di Ullmann si scorge piuttosto una
tendenza ad esaurire il totale cromatico tramite materiali
melodico-lineari e armonici di varia natura: triadica, cromatica,
solo sporadicamente e parzialmente seriale.
Allievo di Schönberg fra il 1918 e il 1919,
quindi in un periodo in cui il metodo dodecafonico non era ancora
delineato,[26] Ullmann aveva mostrato di averne
coscienza in un articolo su Berg, pubblicato nel 1930, in cui parla
dell’invenzione dodecafonica come di un principio che
nell’atonalità creata da Schönberg – dove
«tutti i suoni diventano fratelli» – stabilisce un
nuovo ordine, scongiurando «il pericolo
dell’anarchia».[27] Egli rimarca come
Schönberg negli anni Venti avesse contrapposto, tramite la
dodecafonia, atonalità e tonalità, e come Berg abbia poi
fuso l’orizzonte dodecafonico con quello tonale.[28]
Una fusione, quella ad opera di Berg, per cui Ullmann spende parole
di entusiasmo, definendola il «ponte» che unisce la
musica antica e moderna e che di conseguenza viene gettato anche
verso il pubblico.[29]
Tuttavia, nonostante tali dichiarazioni, un effettivo
impiego della dodecafonia in Ullmann è difficilmente
argomentabile, anche perché parecchie sue composizioni non
sono state conservate. Evidenti impieghi di serie – peraltro,
anche qui, difettive – si ritrovano solo in alcuni pezzi
scritti a Theresienstadt, come l’Andante del Quartetto
per archi n. 3 op. 46 (una serie di undici note) o
l’Adagio, ma con moto della Sonata per pianoforte n. 7
(una serie di dieci note). Alla fine degli anni Settanta, un
allievo di Ullmann, Max Bloch, in un saggio biografico che è
fra i più attendibili, ha puntualizzato come nemmeno
l’apprendistato con Schönberg possa essere considerato
di per sé la prova di un’adesione di Ullmann alla
poetica dodecafonica:
Le recensioni di esecuzioni delle composizioni di
Ullmann iniziano, quasi senza eccezione, ricordando al lettore che
egli fu un allievo di Schönberg. L’aura era tanto
brillante, di una presentazione così lusinghiera, che ci
giunge per lo più come un anti-climax il sapere che non è
stata conservata una sola composizione scritta da Ullmann in uno
stile dodecafonico rigoroso. Un critico musicale scrisse nei primi
giorni che Ullmann era un brillante esponente del sistema
dodecafonico, ma non abbiamo nulla per provarlo. Possiamo avere i
nostri dubbi su quando, dove e anche se Ullmann abbia avuto
un’istruzione sistematica riguardo alla composizione con
dodici note. Quando egli studiò con Schönberg, le sue
regole [del sistema] dovevano attendere ancora cinque anni per
essere sviluppate compiutamente. Per di più, con ogni studente
Schönberg insisteva sull’apprendimento
dell’armonia e del contrappunto tradizionali prima di fare un
passo successivo. Questo rende pressoché certo che qualunque
cosa Ullmann abbia assorbito del sistema non lo apprese
direttamente dal maestro, [ma] solo dallo studio delle sue opere e
di quelle di allievi più vecchi, in particolare Alban Berg.
Comunque, una minuziosa analisi delle opere di Ullmann
rivelerà altre caratteristiche dello stile di
Schönberg.[30]
Viceversa, un evidente indizio che Ullmann tenesse in
considerazione la dodecafonia anche da un punto di vista creativo,
seppure in modo assai personale, è costituita da una lettera
del 1938 indirizzata a Karel Rainer. Oltre a riconoscere i suoi
debiti nei confronti della scuola di Schönberg e di Alois
Hába – del quale era stato allievo al Conservatorio di
Praga proprio in quegli anni – Ullmann afferma di essere
arrivato a una svolta stilistica nel suo percorso creativo
elaborando proprio un «sistema dodecafonico su una base
tonale»:
Caratteristica dei miei nuovi tentativi, a parer mio,
è la nuova Sonata [n. 1 op. 10, 1936] per pianoforte (nuove
funzioni armoniche all’interno della struttura di una
tonalità che forse può essere definita politonalità.
Il tema principale è in tre tonalità, ma questo non
è fondamentale. Ciò che si verifica in apparenza è
il congiungersi delle dodici tonalità e delle relative
tonalità minori. Sembra che io stessi continuamente cercando
un sistema dodecafonico su una base tonale, simile al mescolamento
di tonalità maggiori e minori). Ciò che potrebbe essere
implicato è l’esplorazione delle aree sconfinate
dell’armonia dalla funzionalità totale, o la congiuntura
dello iato che separa l’armonia romantica da quella
‘atonale’. Sono debitore della scuola di Schönberg
per ciò che riguarda strutture coerenti, ovvero logiche, e a
quella di Hába per il raffinamento della sensibilità
melodica, la concezione di nuovi principi formali e la liberazione
dai canoni di Beethoven e Brahms. […] Secondo me Hába ha
compiuto il primo passo oltre l’epoca di Beethoven, le cui
idee relative alla forma dominano ancora la scuola di
Schönberg.[31]
Dunque tramite questo sistema dodecafonico sui
generis, e coerentemente con le entusiastiche considerazioni
espresse già anni prima sulla dodecafonia ‘mista’
di Berg, Ullmann si prefiggeva di eliminare «lo iato fra
l’armonia romantica e quella atonale». Si trattava di
toccare i dodici suoni disponibili tramite un libero utilizzo di
movimenti lineari e vari elementi tonali, principalmente accordi
triadici, che in tal modo, senza i vincoli di una scala diatonica
maggiore e minore, possono essere interpretati come appartenenti a
tonalità diverse. La definizione di
«politonalità», data dallo stesso Ullmann, non pare
in verità del tutto appropriata per un simile procedimento,
dato che questi elementi riconducibili a tonalità diverse non
sono in genere impiegati da Ullmann simultaneamente, bensì in
successione, così da formare percorsi cadenzali che
conferiscono agli accordi nuove «funzioni» – nuove
potenzialità di relazionarsi sintatticamente gli uni con gli
altri. Allora, più che politonali, i liberi accostamenti
triadici di Ullmann possono essere definiti generalmente
‘poliarmonici’ (quantomeno nel corso del presente
articolo si farà ricorso a tale termine).
Nel ricercare continuamente una propria poetica di
nuove funzioni tonali, memore di una dodecafonia come quella di
Berg, dell’atonalità non dodecafonica e della
tonalità sospesa schönbergiane,[32] nonché forte
di svariate esperienze fra cui non va dimenticata quella della
Zeitoper negli anni Venti, Ullmann giunse al tempo di
Theresienstadt avendo maturato una scrittura di raro eclettismo.
Accanto ai frequenti tonalismi diatonici, egli poteva attingere a
un’organizzazione del totale cromatico che al suo interno
lascia spazio sia ad elementi atonali sia a
‘poliarmonie’ triadiche. La nuova tendenza dichiarata
da Ullmann nel 1938 si ritrova dunque nelle composizioni del
periodo di prigionia: nelle ultime sonate per pianoforte, in vari
cicli liederistici e pezzi da camera, nell’opera Der
Kaiser von Atlantis e, infine, anche nel Cornet. In
linea con un’idea di «sistema dodecafonico su basi
tonali» la presenza di serie in queste opere, benché
sporadica, si caratterizza per armonizzazioni triadiche. È il
caso delle due opere citate come esempio di serialismo in Ullmann,
ovvero l’Andante del Quartetto n. 3 e
l’Adagio, ma con moto della Sonata per pianoforte n.
7. Il Cornet non può certo essere definito
dodecafonico, ma è piuttosto uno di quei brani in cui Ullmann
accosta materiali di ispirazione seriale ad altri variamente
atonali e neotonali, o ‘poliarmonici’, che
complessivamente tendono ad esaurire il totale cromatico nel giro
di poche battute.
Risuonano simili le dichiarazioni di Martin e di
Ullmann riguardo a un impiego dei dodici suoni che possa mantenere
elementi tonali, e proprio in relazione a tali intendimenti si
possono trovare fra i rispettivi Cornet caratteristiche
compositive in qualche modo analoghe. Nel generale cromatismo delle
due composizioni permangono frequenti accordi triadici; tuttavia
essi non sono mai parte di una tonalità chiaramente affermata,
talora sembrano assumere nuove funzioni sintattiche, creare cadenze
neotonali, spesso sono parte di un processo di
‘straniamento’, in cui l’eredità del
patrimonio tonale viene suggerita ma nel contempo deformata (o
addirittura ‘disturbata’) da cromatismi e varie
aggiunte in apparenza antiorganiche. In Ullmann tali procedimenti
non possono che essere recati esclusivamente dalla texture
pianistica mentre in Martin si trovano distribuiti fra il ruolo
dell’orchestra (spesso accordale e triadico) e quello della
melodia del contralto (ora appartenente alla costruzione armonica,
ora ad essa estranea).
Nei due Cornet la generale dialettica armonica
fra tradizione e modernità si trova ancora più accentuata
allorquando gli accordi triadici e le generali
‘salienze’ tonali – arpeggi di triadi, anche solo
accennati, o movimenti lineari delle parti che richiamano
stereotipi cadenzali tonali – fronteggiano set
cromatici e serialismi che ne sono del tutto privi. Considerata
questa dimensione ‘armonica’ – o, più
propriamente, di organizzazione delle altezze – si può
dunque affermare che Martin e Ullmann tendevano entrambi,
idealmente, ad assecondare la dialettica fra tradizione e
modernità del testo di Rilke tramite un compromesso fra la
tradizione e la modernità delle tecniche compositive
disponibili fino ad allora. Ma le similitudini musicali che in
relazione al medesimo testo si rivelano fra le due composizioni non
si limitano all’armonia, o generica organizzazione delle
altezze. Alcune forti analogie infatti emergono con evidenza anche
nel comune e frequente impiego di ostinati ritmici, nonché in
una organizzazione dei materiali tematici che sia Martin sia
Ullmann impiegano come leitmotiv (motivi conduttori) seguendo gli
episodi e le sensazioni dell’avventura di Christoph, e
riflettendo così quello «stile musicale della
poesia» che i leitmotiv letterari del Cornet avevano
già suggerito a studiosi come Oskar Walzel e Felix
Wittmer.
IV. Testo e leitmotiv. Funzioni del cromatismo e
funzioni tonali
Né il Cornet di Martin né quello di
Ullmann riportano il testo di Rilke integralmente. La divisione del
poemetto in ventisei brevi capitoli, oltre ad assecondare le
macroarticolazioni del materiale musicale, offre anche un certo
margine di scelta, cioè la possibilità di escluderne
alcuni senza inficiare il senso complessivo della trama –
anche perché a fronte dei capitoli narrativi dell’azione
altri sono più di carattere statico e contemplativo. In merito
a tale organizzazione generale del testo, la prima differenza fra i
Cornet di Martin e Ullmann riguarda il capitolo I, che
consiste nella notizia di cronaca introduttiva, è il
‘documento ritrovato’: Martin lo esclude, iniziando la
composizione direttamente con i «Reiten, reiten,
reiten» che aprono la versificazione vera e propria,
mentre Ullmann lo mantiene in stile di pura recitazione, senza
musica, con l’accompagnamento del pianoforte che compare,
anch’esso, a partire da «Reiten, reiten,
reiten». In seguito sono altresì numerose fra i due
Cornet le differenze di scelta e organizzazione dei
capitoli. Martin esclude i capitoli I, IV, V, VII e XIX, ottenendo
nel complesso, con alcuni accorpamenti, ventitrè
brani.[33] Ullmann invece utilizza solo dodici dei
ventisei capitoli a disposizione, organizzandoli in due parti.
Nella prima parte i capitoli III-IV e XII-XIII sono riuniti
rispettivamente in un unico brano musicale.
I PARTE
|
II
PARTE
|
I
(senza musica)
|
XIV
|
II
|
XV
|
III-IV
|
XVII
|
IX
|
XX
|
XII-XIII
|
XXIII
|
|
XXIV
|
|
XXV
|
|
XXVI
(i versi finali)
|
Così, Martin si avvicina molto più di
Ullmann alla struttura originale del testo. Il carattere
‘antologico’ del Cornet di Ullmann è del
resto indicato esplicitamente dal sottotitolo 12 Stücke aus
der Dichtung Rilkes (‘Dodici brani dal poema di
Rilke’).
Nonostante la difformità nella scelta e
nell’accostamento dei capitoli, Ullmann e Martin conservano
nelle rispettive strutture di testo verbale i fondamentali
leitmotiv dati da Rilke al Cornet. «Desiderio e morte,
donna e destino» come notava Maync, certo, ma anche, o forse
prima di tutto, il motivo del cavalcare (reiten) che innerva
la versificazione dall’inizio alla fine. È un tema in
apparenza puramente materiale, questo della continua cavalcata di
Christoph e dei suoi compagni, ma che si carica di stati emotivi
tesi a trasfigurare il movimento fisico, come accade per molti
altri aspetti materiali della vicenda. Le varie forme espressive (o
espressioniste) del cavalcare di Christoph ricevono un continuo
ampliamento semantico dalle multiformi relazioni che Ullmann e
Martin stabiliscono fra i cromatismi atonali, gli elementi triadici
e i ‘gesti’ tonali. Il testo letterario viene cioè
assecondato da una dialettica armonica che dispiega già in
sé, nelle sue peculiari contrapposizioni fra consonanza e
dissonanza, comunque venate da eredità tonali, una fitta rete
di implicazioni associative e simboliche.
I due versi iniziali del secondo capitolo (ovvero il
primo capitolo in versi ma che è numerato come secondo
perché il primo è costituito dall’introduzione
cronachistica) ripetono un ritmico cavalcare di Christoph dalle
sembianze quasi ‘asettiche’; ma subito il sentimento
della nostalgia avvolge il trotto del cavallo e la stanchezza del
protagonista, e lo sguardo narrativo si allarga su un paesaggio nel
contempo reale e ultrasensibile, sulle «capanne
assetate», su un senso di smarrimento dei cavalieri che sembra
giungere fino alle «donne tristi che sanno di noi».
Reiten, reiten, reiten, durch den Tag, durch die
Nacht, durch den Tag.
Reiten, reiten, reiten.
Und der Mut ist so müde geworden und die Sehnsucht so
groß. Es gibt keine Berge mehr, kaum einen Baum. Nichts wagt
aufzustehen. Fremde Hütten hocken durstig an versumpften
Brunnen. Nirgends ein Turm. Und immer das gleiche Bild. Man hat
zwei Augen zufiel. Nur in der Nacht manchmal glaubt man den Weg zu
kennen. Vielleicht kehren wir nächtens immer wieder das
Stück zurück, das wir in der fremden Sonne mühsam
gewonnen haben? Es kann sein. Die Sonne ist schwer, wie bei uns
tief im Sommer. Aber wir haben im Sommer Abschied genommen. Die
Kleider der Frauen leuchteten lang aus dem Grün. Und nun
reiten wir lang. Es muß also Herbst sein. Wenigstens dort, wo
traurige Frauen von uns wissen.[34]
Dunque Rilke dipinge un quadro dapprima di pura
gestualità esterna, poi di riflessione interiore e confusione
fra queste due sfere. Per rendere il senso dell’incedere,
della progressione del cavallo compresa fra il reiten
iniziale e l’ultimo reiten del secondo verso, Martin
affida al canto del contralto una serie ascendente di dodici note,
in cui l’ultima ripete la prima a distanza di ottava. Ullmann
invece, per accompagnare i reiten recitati del suo brano,
ricorre a un ostinato ritmico nella regione grave del pianoforte:
ottave di crome alla mano sinistra (fa) scandite da regolari
‘disturbi’ dissonanti di acciaccature e di varie note
sui tasti neri.
La serie impiegata da Martin conta dodici suoni, ma
contenendo una ripetizione (la diesis
all’inizio e si bemolle alla fine) non può
essere definita propriamente dodecafonica, bensì
‘difettiva’ (i suoni diversi fra loro sono undici e non
dodici: manca il la bemolle). I tre reiten del
primo verso e i tre reiten del secondo sono musicati con due
cellule melodiche ascendenti: la prima costituita dalle note
la diesis-si-re; la seconda fa
diesis-sol-si bemolle. Si tratta di due
cellule di identica struttura intervallare – un semitono
seguito da una terza minore – mentre ritmicamente ogni
reiten è cantato con due semiminime – una seguita
da punto di valore, l’altra da pausa di croma – che
tramite le due pulsazioni confondono il metro di 3/4 assimilandolo
a un 6/8. Le parole «durch den Tag, durch die Nacht, durch
den Tag» sono inserite nella serie difettiva con tre
cellule di altra struttura ritmico-intervallare, costante nella
successione breve-breve-lunga (due crome seguite da
semiminima).
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Esempio 1. FRANK MARTIN, Der Cornet
für Alt und Orchester (1942/1943) nach dem Gedichte von Rainer
Maria Rilke, n. 1 (Reiten), bb. 1-10: Marjana Lipovšek
(contralto), ORF-Symphonieorchester, Lothar Zagrosek (dir.), n. 1
(Reiten), bb. 1-10[35] [**].
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Anche Ullmann, seppure per una parola recitata e non
cantata, crea una dialettica musicale che accomuna da un lato i
ripetuti reiten, e dall’altro il verso «durch
den Tag, durch die Nacht, durch den Tag».
L’accompagnamento sotto le parole reiten che aprono il
primo verso e costituiscono il secondo (nella partitura di Ullmann
rispettivamente le bb. 3-5 e 11-13) è puramente
ritmico-timbrico, quasi onomatopeico, tanto rispetto al significato
delle parole, cioè all’immagine sonora ‘della
cavalcata’, quanto al loro significante, ovvero al suono
delle parole stesse. Il trottare ‘a grappoli’ del
cavallo viene suggerito tramite l’ostinato delle ottave al
basso (fa) con le acciaccature (sol bemolle)
che provocano una costante sfasatura ritmica rispetto al metro di
battuta (4/4) e soprattutto conferiscono all’incedere
dell’ostinato un carattere rumoristico.
Sotto le parole reiten, la funzione ritmica e
rumoristica delle acciaccature è assunta dalle simili note di
‘disturbo’ affidate alla mano destra, sui tasti neri,
che rispetto ai fa del basso sono lievemente dissonanti:
sol bemolle, la bemolle, si
bemolle, do bemolle (pp ma
marcato). Ma tanto le acciaccature quanto le quattro
ripetute note successive riecheggiano anche, nel sovrapporsi al
fa, il suono della lettera r, iniziale di
reiten – specialmente quando questa r sia
‘moscia’, ovvero ‘rotata’, come in certa
pronuncia tipicamente tedesca (propriamente: una vibrante sonora
emessa con articolazione uvulare).[36] È dunque lo
stesso suono della parola a farsi musica. Anche la continua
ripetizione delle due sillabe della parola rei-ten sembra
trovare un corrispettivo musicale nell’accompagnamento,
cioè nello sfasato accento binario (ogni due crome, sempre in
levare) generato prima dalle acciaccature e poi dalle note della
mano destra.
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Esempio 2. VIKTOR ULLMANN, Die Weise von
Liebe und Tod des Cornets Christoph Rilke für
Sprecher und Klavier (1944), 12 Stücke aus der Dichtung
Rilkes, erster Teil, n. 2, bb. 1-6: Gert Wesphal (voce recitante) e
Michael Allan (pianoforte)[34] [***].
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Le parole «durch den Tag, durch die Nacht,
durch den Tag» sono differenziate dai ripetuti
reiten poiché nelle bb. 7-10, pur continuando
ininterrotto alla mano sinistra l’accompagnamento in ottave
con le acciaccature, Ullmann affida alla mano destra due cellule di
tre note ciascuna dal carattere più melodico, cantabile, e
meno rumoristico (anche grazie alla collocazione in un ambito della
tastiera più acuto: un’ottava superiore rispetto alle
note dei reiten). Le note della prima cellula procedono per
grado congiunto discendente, quelle della seconda procedono per
salti di sesta e terza.
Esempio 3. ULLMANN, Die Weise von Liebe und
Tod, erster Teil, n. 2, bb. 7-10.
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Nella versione di Ullmann, la valenza sonora di
questi primi versi, soprattutto delle iniziali parole
reiten, si trova ampliata anche grazie al contrasto con la
pura recitazione dell’introduzione cronachistica riportata in
apertura. Dopo l’ultima parola recitata –
zurückkehrt – l’entrata del pianoforte che
reca l’accompagnamento ‘della cavalcata’ già
lascia presentire che grazie a questi suoni i reiten di
Rilke sprigioneranno una musicalità nuova, tesa a trasferire
su altri livelli gli originali significanti e significati
poetici.
1
den 24. November 1663
wurde Otto von Rilke
auf Langenau
Gränitz
und Ziegra
zu Linda mit seines in Ungarn gefallenen
Bruders Christoph hinterlassenem Antheile am Gute Linda
beliehen;
doch müβte er einen Revers ausstellen
nach welchem die Lebens-
reichung null und nichtig sein sollte
im Falle sein Bruder Christoph
der nach beigebrachten Totenschein als Cornet in der Compagnie
des Freiherrn von Pirovano des kaiserl. oesterr. Heysterschen
Regiments zu Roß… verstorben war
zurückkehrt.[37]
2
Nelle bb. 15-18, per le parole «Und der Mut
ist so müde geworden und die Sehnsucht so groß»
(‘E l’animo si è fatto così stanco e la
nostalgia così grande’) con cui Rilke inizia a
‘trascendere’ il cavalcare fisico dei primi tre versi,
Ullmann impiega una trasposizione di quelle due cellule melodiche
di tre note che già a bb. 7-10 sono sottoposte a
«durch den Tag, durch die Nacht, durch den Tag».
La saturazione cromatica, solo latente nella contrapposizione fra i
materiali di queste prime diciotto battute, diventa totale nelle
dieci battute seguenti, dove – sempre sopra
l’accompagnamento ‘della cavalcata’ –
compare una serie di tre accordi fortemente dissonanti per le
parole «Es gibt keine Berge mehr, kaum einen Baum. Nicht
wagt aufzustehen. Fremde Hütten hocken durstig an versumpften
Brunnen» (‘Non si vedono più monti, a malapena
un albero. Nulla che osi levarsi. Capanne sconosciute siedono
assetate accanto a fonti paludose’).
Nella produzione matura di Ullmann l’impiego di
simili accordi, basati su quarte giuste e concatenazioni di
tritoni, è in sintonia con le risorse scalari
‘acustiche’ che egli sovente utilizza per orientarsi
nel totale cromatico (ma anche per colorire strutture
tonali).[38]
Esempio 5. ULLMANN, Die Weise von Liebe und
Tod, erster Teil, n. 2, bb. 19-23.
|
In seguito, il paesaggio psicologico descritto da
Rilke si ritrova accompagnato da una scrittura musicale che
rispetto a quella precedente segna un sensibile contrasto. Infatti,
viene sì mantenuta la figurazione di crome ostinate alla mano
sinistra, ma non è più costituita da ottave sole con
acciaccature, bensì da martellati accordi, variamente
dissonanti e consonanti, triadici e non, che trovano un elemento
comune in una triade diminuita, accompagnata da un pedale estraneo
a tale armonia. In coincidenza del cambio di metro, da 4/4 a 3/4,
viene assegnato alla mano destra un motivo di due battute
continuamente ripetuto e variato. Il climax sembra raggiunto
sotto le parole «Vielleicht kehren wir nächtens immer
wieder das Stück zurück, das wir in der fremden Sonne
mühsam gewonnen haben?» (‘Forse di notte
[sempre] ripercorriamo a ritroso quello stesso tratto conquistato
con pena sotto un sole straniero?’).
Nell’armonizzazione di questo verso, Ullmann pone in risalto
la triade diminuita affidata all’ostinato della mano
sinistra, si bemolle – re bemolle
– fa bemolle, distanziandola dal pedale al
basso (mi bemolle), mentre il motivo alla mano destra
viene portato nella regione acuta della tastiera e stretto con
figurazioni di crome e semicrome. Alla fine del verso la triade
diminuita è resa minore, con il fa bemolle che
diventa bequadro.
Esempio 6. ULLMANN, Die Weise von Liebe und
Tod, erster Teil, n. 2, bb. 36-40.
|
Dopo che lo smarrimento dei cavalieri è stato
musicato ricorrendo alla presenza della triade diminuita, che forse
non a caso determina un richiamo tonale ‘tensivo’
– «vagante», come direbbe Schönberg –,
l’accompagnamento si basa su un ripetuto accordo di La
minore, con dinamica sul forte, e ottave al basso in
controtempo che portano progressivamente alla ripresa della
figurazione ‘della cavalcata’ nella sua forma iniziale
(in ottave e con le acciaccature). Ritornano gli accordi
‘acustici’ delle bb. 19-28, ritmicamente accelerati, in
forte e fortissimo, prima che si alternino, di nuovo
in pianissimo, ai lievi disturbi cromatici dei reiten
iniziali. Da qui fino ai versi finali «Es muß also
Herbst sein. Wenigstens dort, wo traurige Frauen von uns
wissen», viene ripreso il materiale della prima sezione,
in una sorta di processo di liquidazione, articolando così una
forma musicale del brano che nel complesso appare tripartita, con
una sezione centrale ‘di movimento’.
Se queste sono le caratteristiche musicali che
Ullmann conferisce al secondo capitolo di Rilke, dal canto suo
Martin, per i medesimi versi, segue un altro percorso, in cui
tuttavia si possono rintracciare sintomatici punti di contatto con
quello di Ullmann e che a loro volta sembrano motivati dal
significato e dalla struttura del testo rilkiano. La serie
difettiva posta da Martin ad apertura del brano diventa
dodecafonica con la comparsa del la bemolle
all’inizio del terzo verso «Und der Mut ist so
müde geworden». Martin trasgredisce la regola
dodecafonica sia utilizzando una serie difettiva, per costruire la
melodia che riveste i primi tre versi, sia utilizzando una serie
dodecafonica in cui la dodicesima nota viene raggiunta dopo una
ripetizione della prima. Allora è facile richiamare le citate
affermazioni di Martin, pubblicate qualche anno dopo la
composizione del Cornet, secondo cui una delle
possibilità offerte dalla tecnica di Schönberg – il
suo apporto «positivo» – sarebbe la concezione di
melodie «estremamente ricche», come conseguenza di una
ricerca che «ci rende estremamente sensibili al ritorno della
melodia su se stessa». Una sensibilità, questa, in cui la
ripetizione di una delle dodici note prima che ritorni la prima
corrisponde al sentimento di violazione di una regola fondamentale
nel segno di una estetica ben definita.[39]
Con la frase «Und der Mut ist so müde
geworden und die Sehnsucht so groß» la melodia
diventa ancora meno ‘serialmente rigorosa’ e non si
scorgono procedimenti di inversione, retrogradazione o
retrogradazione inversa della serie enunciata inizialmente. Emerge
piuttosto l’altra fondamentale caratteristica della
dodecafonia di Martin cui abbiamo fatto riferimento, e dal
compositore dichiarata, ovvero il mantenimento di un generico
«senso tonale», poiché Martin ricorre qui ad alcune
triadi maggiori e minori. In ragione di una loro peculiare valenza
associativa, accentuata dal contrasto rispetto al precedente
cromatismo, esse paiono riflettere il caricamento emotivo che Rilke
in questo verso conferisce all’incedere della cavalcata
– è forse non casuale che un sentimento in sé
contrastante come la Sehnsucht, (ricordo di una gioia
lontana che nel contempo si fa smarrimento di fronte
all’hic et nunc) sia introdotto nell’alveo
tonale ricorrendo all’alternanza fra una triade minore e una
maggiore.
La presenza delle triadi è prima accennata
orizzontalmente nella melodia stessa: dopo il la
bemolle di «Und der», che costituisce la
dodicesima nota della serie iniziale, le tre parole «Mut
ist so müde» sono affidate alla voce rispettivamente
con le note discendenti la-fa-do, arpeggio della triade di
Fa maggiore. Poi sulla parola «Sehnsucht»
(‘nostalgia’) le triadi vengono realizzate
armonicamente tramite l’entrata del clarinetto e del fagotto:
il do diesis del canto si trova accompagnato
simultaneamente da un la (clarinetto) e da un fa
diesis (fagotto), e quindi si forma complessivamente una
triade di Fa diesis minore. Nello stesso modo, segue
sull’aggettivo «groß» – cioè
quando Rilke scrive che la nostalgia «è così
grande» – una triade di Fa maggiore (la al
contralto, fa al fagotto, do al clarinetto).
Nella battuta successiva, i movimenti cromatici del
clarinetto e del fagotto si arrestano su una quinta
mi-si che prepara l’inizio della conseguente
frase su una triade di Mi maggiore (iniziando il contralto con un
sol diesis). I versi «Es gibt keine Berg
mehr, kaum einen Baum. Nicht wagt aufzustehen. Fremde Hütten
hocken durstig an versumpften Brunnen» sono affidati al
contralto con una melodia cromatica ma dai frequenti rapporti di
terza e ricca di ripetizioni. Quindi Martin già espone le
caratteristiche della parte del canto che saranno fondamentali nel
corso di tutta la composizione, ovvero, ben oltre un generico
cromatismo, lo sfruttamento degli intervalli di semitono e di terza
(maggiore e minore), le frequenti insistenze su una sola nota, che
tende a farsi quasi corda di recitazione, e il rapporto con la
texture dell’orchestra, particolarmente ricco ed
espressivo, che porta le note del contralto talora a farsi parte
delle armonie triadiche strumentali, talora a completarle, talora
ad arricchirle con appoggiature o determinando intervalli di
settima o di nona. L’alternanza maggiore/minore impiegata per
la parola «Sehnsucht» è un esempio di
reciproco completamento triadico fra la voce e l’armonia
strumentale. Tale espediente si ripete, uguale e trasposto, per il
verso «Man hat zwei Augen zufiel», che non è
solo ‘emotivo’ ma addirittura
‘ultrasensibile’.
Esempio 8. MARTIN, Der Cornet, n. 1
(Reiten), cifra 2.
|
Quando il contralto canta «Nur in der Nacht
manchmal glaubt man den Weg zu kennen» la scarna struttura
armonico-contrappuntistica dei fiati confluisce in una scrittura
complessivamente più consonante e ritmicamente più mossa,
affidata agli archi. Per il senso di smarrimento sensibile che
ammanta la cavalcata nel verso seguente, «Vielleicht kehren
wir nächtens immer wieder das Stück zurück, das wir
in der fremden Sonne mühsam gewonnen haben?» –
ovvero il verso che nella versione di Ullmann costituiva il
climax della sezione centrale – Martin affida alla
voce la frequente ripercussione di una medesima nota (una delle
‘corde di recitazione’ a cui si è accennato) e
impiega come sostegno armonico negli archi una nuova figurazione,
anch’essa a suo modo ostinata: una ripetuta e ieratica
successione cromatica di quattro accordi di semiminima. Come nel
corrispondente passaggio di Ullmann, per il medesimo verso di
Rilke, anche questo motivo è caratterizzato dalla costante
presenza di triadi diminuite (pur non trattandosi sempre dello
stesso accordo). A queste si aggiungono rapide note per salti dei
bassi che accentuano il senso ritmico dell’incedere e
‘pungono’ l’armonia, allargando la costruzione
diminuita. Così, ogni quartina forma complessivamente un
totale cromatico.
Esempio 9. MARTIN, Der Cornet,
n. 1 (Reiten), cifra 3 + 1.
|
Il canto insiste inizialmente su un sol
diesis che è di volta in volta appartenente ed estraneo
rispetto alle triadi, o insieme ad esse forma delle settime
diminuite. La melodia si fa più articolata allorquando la
figurazione ostinata dell’accompagnamento viene ripetuta e
trasposta per dieci battute fino dal verso «Die Sonne ist
schwer, wie bei uns tief im Sommer». Poi la voce canta
senza accompagnamento strumentale gli ultimi versi, «Aber
wir haben im Sommer Abschied genommen. Die Kleider der Frauen
leuchteten lang aus dem Grün. Und nun reiten wir lang. Es
muß also Herbst sein». Nelle ultime tre battute, sul
verso «Wenigstens dort, wo traurige Frauen von uns
wissen», la linea del canto ritrova il principio del
reciproco completamento triadico rispetto all’orchestra,
formando insieme agli ottoni le triadi di Do diesis minore, Do
maggiore, Do minore e Si minore.
Sia l’accompagnamento ‘della
cavalcata’ nel Cornet di Ullmann, sia la figurazione
ostinata delle triadi diminuite in quello di Martin ricorreranno
varie volte a mo’ di leitmotiv. In Martin, il leitmotiv
è recato dall’orchestra, non dal canto:
quest’ultimo si ripresenta ogni volta variato e senza
caratteristiche ricorrenti che possano suggerire una funzione
leitmotivica. Se in Ullmann l’ostinato delle ottave al basso
costituisce una sorta di sfondo materiale su cui si innestano i
vari psicologismi dell’incedere, d’altronde in Martin
il connotato ripresentarsi dell’ostinato diminuito degli
archi – il suo comparire nel primo brano per poi ricorrere
nel terzo, nel decimo e infine nell’ultimo (in Rilke
rispettivamente i capitoli III, XIII e XXVI) – ha stimolato
la definizione di Leidensmotiv (‘tema del
dolore’).[40] Questo motivo infatti non solo musica
all’inizio il senso dello smarrimento della cavalcata, ma si
ritrova accennato e variato proprio nel terzo brano, pervaso dalla
crepuscolare nostalgia di Christoph per la madre (capitolo III), e
viene poi riproposto fedelmente nel decimo (capitolo XIII) per
accompagnare i cavalieri che scavalcano un contadino trucidato
(prima che avvistino il castello ove troveranno sosta).
Sie reiten über einen erschlagenen Bauer. Er
hat die Augen weit offen und etwas spiegelt sich drin; kein
Himmel.[41]
Infine, il Leidensmotiv ritornerà,
sintomaticamente, nell’ultimo capitolo, quando il cavalcare
è quello del corriere del barone von Pirovano che giunge a
Langenau per recare notizia della caduta di Christoph. Nel motivo
di Martin, il ‘dolore’, o forse, piuttosto, un generico
sentimento di malessere e visionaria inquietudine – che
dunque più che trascendere il movimento della cavalcata sembra
trovare in esso un proprio correlativo oggettivo –, non pare
legato solo al ritmo dell’ostinato, allo ieratico incedere
delle semiminime, ma anche all’armonia. Essa infatti, pure
straniata dai bassi e dalla cangiante relazione con la linea del
canto, si mostra inequivocabilmente diminuita, richiamando il
carattere tonalmente «vagante» di tale simmetria
triadica, sintomo di un errare incerto, come nel percorso notturno
di Ullmann. Una conferma della funzione drammatica e
‘inquieta’ che l’armonia diminuita riveste per
Martin si ha, paradossalmente, allorché il motivo ricorre in
un momento di stabilità fisica e netto cambiamento emotivo del
racconto. Si tratta in particolare di alcuni versi del capitolo XIV
(in Martin l’undicesimo brano) in cui i cavalieri, dopo aver
scavalcato il contadino trucidato, giungono al castello e lì
trovano ristoro: «Nicht immer Soldat sein. Einmal die
Locken offen tragen und den weiten offenen Kragen und in seidenen
Sesseln sitzen und bis in die Finger-spitzen so: nach dem Bad
sein».[42]
Ecco allora che le triadi del Leidensmotiv,
condotte non più dagli archi ma dal pianoforte, diventano
perfette (maggiori e minori) smorzando la dissonante tensione di
quelle diminuite (e i ‘pungenti’ salti dei bassi
vengono sostituiti da lunghe note tenute). La benvenuta sosta
presso il castello rende armonicamente più stabile – pur
in una continua deformazione complessiva e in una nuova dialettica
cromatica tra maggiore e minore – quello stesso motivo che
nel brano precedente (capitolo XIII) viene impiegato nella sua
originaria veste armonica diminuita per accompagnare la cavalcata
oltre il contadino trucidato – e che fino
all’avvistamento del castello avviene in una atmosfera
lugubre e ansiosa. Perdendo la sua connotazione diminuita, insomma,
l’ostinato ritmico sembra farsi parte e specchio
dell’animo dei cavalieri che non si sentono più (solo)
soldati. In questa forma armonica maggiore/minore, il motivo viene
ripetuto a conclusione del primo incontro con le dame: inizialmente
compaiono ripetuti accordi formati da triadi perfette che grazie
all’orchestrazione di Martin assorbono in modo
dolcissimo le lievi aggiunte dissonanti, poi le triadi
perfette e gli scivolamenti cromatici del Leidensmotiv,
affidato di nuovo agli archi, intervengono suggerendo un forte
‘moto emotivo’ – ma diverso da quello
dell’inquietudine della cavalcata – in un parossistico
crescendo recato dalla voce, dalla texture e dalla dinamica
orchestrale che sfocia infine nella gioiosa festa del banchetto (il
brano successivo).
Tanto nel Cornet di Ullmann quanto in quello
di Martin sono numerosi i motivi basati su ostinati ritmici (ove
l’elemento ostinato può essere un accordo o un bicordo o
anche una sola nota raddoppiata ai bassi) impiegati tendenzialmente
per sostenere immagini di movimento. Oltre ai comuni momenti
‘di cavalcata’, basti considerare gli ostinati che i
due compositori utilizzano per la concitazione del capitolo IX o
per la progressione dello scontro armato verso la fine. Tuttavia,
il Leidensmotiv di Martin e l’accompagnamento
‘della cavalcata’ in Ullmann, ripresentandosi a
distanza – ciclicamente – in corrispondenza di immagini
e suggestioni ricorrenti, sembrano più degli altri mostrare
forti valenze narrative, nonché sintomatiche analogie fra le
due composizioni.
Se in Martin il Leidensmotiv dopo il brano
iniziale ricorre parzialmente nel capitolo III del poema, ma
soprattutto nel XIII e infine nell’ultimo, in Ullmann
l’accompagnamento ‘della cavalcata’ si ripresenta
fedelmente pressoché nei medesimi momenti, cioè, oltre
all’inizio, proprio nel XIII e nell’ultimo capitolo. I
materiali musicali di cui tale accompagnamento viene ogni volta
rivestito confermano come in Ullmann la carica psicologica data da
Rilke al movimento della cavalcata trovi un corrispettivo nelle
potenzialità associative insite nelle triadi e nella loro
intersezione od opposizione con i campi cromatici, soprattutto
perché il pattern ritmico ‘della cavalcata’
si troverà strettamente collegato a un tema
‘poliarmonico’ che ritornerà anch’esso
carico di forti connotazioni leitmotiviche.
L’accompagnamento ‘della cavalcata’
ritorna una prima volta per l’inizio del XIII capitolo di
Rilke, che in Ullmann corrisponde alla seconda sezione del quinto
brano – la prima sezione del brano è costituita dal
capitolo XII e la sezione del capitolo XIII attacca di
seguito. Con l’indicazione Tempo I (des I.
Stückes) l’accompagnamento ‘della
cavalcata’ si ripresenta sorreggendo un tema che era già
stato utilizzato all’inizio del brano, e quindi del capitolo
XII, quando Christoph arresta per qualche istante il suo incedere e
scrive una lettera alla madre: «Der von Langenau schreibt
einen Brief, ganz in Gedanken» (‘quel di Langenau
scrive una lettera, profondamente assorto’). Qui Ullmann
ricorre a una breve melodia accompagnata, di due battute. Sarebbe
riduttivo parlare di un mero ‘tema della lettera’: per
come esso comparirà anche in seguito, pare più
appropriato identificarlo come generico tema ‘dello spirito
di Christoph’; o forse, addirittura può essere detto
tema ‘del dolore’ – richiamando proprio il
Leidensmotiv di Martin – dato che dopo questa
presentazione esso, sempre in drammatica simbiosi con
l’accompagnamento ‘della cavalcata’, si
ritroverà sia nel fosco capitolo successivo sia nella
conclusione del poema, ad enfatizzare il dolore per la morte del
protagonista.
Esempio 10. ULLMANN,
Die Weise von Liebe und Tod, n. 5, erster Teil, bb. 1-2.
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La melodia è costituita da una serie di otto
note, in cui l’ultima ripete la prima, mentre per
l’armonizzazione vengono impiegati accordi triadici
appartenenti a tonalità diverse: La bemolle minore, Do minore,
una settima di terza specie (accordo semidiminuito) costruita su
re (con il fa che tace) e poi di nuovo La bemolle
minore. Seguono vari procedimenti di variazione, liquidazione
(soprattutto della conclusiva cellula di quattro note, seconda
battuta) e ripetizione. Nell’unirsi al libero cromatismo
della melodia e di varie note di collegamento, tali procedimenti
armonici richiamano con evidenza quel «sistema dodecafonico su
basi tonali» che Ullmann nel 1938 aveva definito
caratteristico del suo nuovo stile. Il totale cromatico viene
cioè esaurito mantenendo come base quelle successioni di
accordi triadici che Ullmann chiamerebbe ‘politonali’ e
che abbiamo qui ridefinito ‘poliarmoniche’.
Il tema ‘dello spirito di Christoph’
dunque ritorna insieme all’accompagnamento ‘della
cavalcata’ all’inizio della seconda sezione del brano
– cioè del capitolo XIII, che abbiamo visto iniziare con
i versi «Sie reiten über einen erschlagenen Bauer. Er
hat die Augen weit offen und etwas spiegelt sich drin; kein
Himmel». Il tema è riproposto per aggravamento.
L’accompagnamento ‘della cavalcata’ è
affidato alla mano sinistra, mentre la mano destra suona accordi e
melodia insieme. Gli accordi, di semibreve, uno per battuta,
riprendono le armonie utilizzate nella prima presentazione del
tema. Il primo quindi è ancora un accordo di La bemolle minore
(b. 29), il secondo di Do minore, con la nota della melodia che ne
costituisce la settima maggiore (b. 30), e il terzo (b. 31) è
la settima di terza specie (accordo semidiminuito) con il re
come fondamentale: se si considera il basso ‘della
cavalcata’ (il fa) non come mero pedale, bensì
come nota appartenente all’armonia, allora la struttura
semidiminuita risulterà completa (il sol della melodia
invece non può rientrare in questa costruzione triadica).
L’ultimo accordo è ancora di La bemolle minore (b.
32).
Nel corso del brano, le varie elaborazioni del tema
si alternano e sovrappongono ad altri frammenti leitmotivici per
accompagnare l’avvistamento del villaggio e del castello con
i suoi rumori. L’accompagnamento ‘della
cavalcata’ è intermittente, si interrompe varie volte,
ad esempio quando compare il maestoso portone del castello
(Groß wird das Tor ) e nel pianoforte il tema
‘dello spirito di Christoph’ è un solenne
contrappunto fra le due mani. Per la parola Horch
(‘Ascolta’) Ullmann impiega una veloce scala
‘acustica’ a due mani da cui derivano triadi
poliarmoniche e trilli. Le parole «Poltern, Klirren und
Hundegebell!» (‘strepitio, cigolio e abbaiar di
cani!’) sono musicate da accordi ‘acustici’ per
quarte, ribattuti a gruppi di due e di terzine, in una figurazione
ritmica che pare ancora una drammatica trasformazione
dell’accompagnamento ‘della cavalcata’. Così
avviene anche sotto le parole «Wiehern im Hof, Hufschlag
und Ruf» (‘Nitriti nel cortile, calpestio di zoccoli
e richiamo’), mentre ricompare il tema iniziale. Da qui alla
fine del brano, le ripetizioni, liquidazioni, diminuzioni e i
contrappunti del tema si alternano e si sovrappongono violentemente
con l’accompagnamento ‘della cavalcata’ e con la
sua nuova, drammatica forma ritmica.
Sie reiten über einen erschlagenen Bauer. Er
hat die Augen weit offen und etwas spiegelt sich drin; kein Himmel.
Später heulen Hunde. Es kommt also ein Dorf, endlich. Und
über den Hütten steigt steinern ein Schloß. Breit
hält sich ihnen die Brücke hin. Groß wird das Tor.
Hoch willkommt das Horn. Horch: Poltern, Klirren und Hundegebell!
Wiehern im Hof, Hufschlag und Ruf.[43]
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Esempio 11a. ULLMANN, Die Weise von Liebe
und Tod, erster Teil, n. 5: Gert Wesphal (voce recitante) e
Michael Allan (pianoforte).
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La struttura ritmico-armonica che in questo brano
Ullmann conferisce al tema ‘dello spirito di Christoph’
viene ripresa nell’ultimo dei dodici pezzi, quello che musica
gli ultimi versi del capitolo XXVI (esempio 12). Lo scontro con il
nemico fuori dal castello è già avvenuto e
l’avventura dell’amore e della morte di Christoph
è già finita; Rilke sposta la sua descrizione distante,
nello spazio e nel tempo, alcuni mesi dopo, quando al luogo
d’origine dei Christoph, Langenau, giunge il corriere del
barone von Pirovano per annunciare l’accaduto: «Im
nächsten Frühjar (es kam traurig und kalt) ritt ein
Kurier des Freiherrn von Pirovano langsam in Langenau ein. Dort hat
er eine alte Frau weinen sehen».[44]
Dopo due battute di introduzione affidate
all’accompagnamento ‘della cavalcata’, il tema
‘dello spirito di Christoph’ appare nella stessa forma
aggravata che musicava la cavalcata oltre il contadino trucidato
(capitolo XIII). Nelle battute seguenti, il tema è riproposto
con una diversa armonia, e con essa assume un’altra sfumatura
il significato complessivo del passaggio. Prima
l’accompagnamento ‘della cavalcata’ viene sospeso
sotto il verso «Dort hat er eine alte Frau Weinen
sehen» (‘Lì vide piangere una vecchia’
[la madre di Christoph]), e dopo due battute di transizione,
indicate retenu (warm und ruhig), la ripresa del tema
avviene nell’ambito di una esclusiva triade di Do minore. Ad
essa appartengono sia il tema, sia l’accompagnamento
‘della cavalcata’ (quest’ultimo costruito sulle
note sol-do e non più sul fa in ottava).
Per sottolineare un momento poetico che costituisce un punto di
confluenza di tutto il testo di Rilke, l’accordo di Do minore
lascia emergere in modo particolarmente evidente la propria
struttura triadica e la carica ‘drammatica’ tonalmente
associata alla triade minore. L’accompagnamento si fa parte
del ‘dramma’ dell’ultimo dolore della madre di
Christoph diventando parte dell’armonia, facendosi meno
rumoristico (vengono eliminate le acciaccature) e risuonando infine
a mo’ di marcia funebre, tramite una figurazione ritmica
simile a quella basata su gruppi di due crome e di terzine che
già Ullmann aveva impiegato per sonorizzare l’allucinata
immagine del castello del capitolo XIII.
Dopo questa ultima e pregnante ripetizione del tema
‘dello spirito di Christoph’ Ullmann sospende
definitivamente l’accompagnamento ‘della
cavalcata’ e dirige la propria poetica armonica sempre
più verso l’area di Mi bemolle maggiore – che
rispetto a Do minore costituisce la ‘serena’ relativa
maggiore. Formalmente questa sezione conclusiva è costruita
con alcuni frammenti leitmotivici che Ullmann aveva già
impiegato qua e là nel corso della composizione e che erano
concentrati soprattutto laddove Rilke descrive l’incedere di
Christoph contro il nemico dopo la notte d’amore. Si tratta
in particolare di una rapida cellula melodica in quarte e di una
libera sequenza di accordi (triadici e per quarte). Nel finale
dell’ultimo brano, entrambi questi elementi leitmotivici si
appoggiano a Mi bemolle, l’uno melodicamente e l’altro
armonicamente, per giungere a una conclusione su due esclusivi
accordi di Mi bemolle maggiore perfettamente consonanti. Rispetto
al ‘dramma’ appena trascorso, legato alla triade di Do
minore, gli accordi di Mi bemolle maggiore risuonano quasi come una
catarsi, a suggello di una morte che sembra dunque – forse
steinerianamente – non essere solo un
‘dramma’.
I versi su cui Ullmann compone l’ultimo brano
del suo Cornet corrispondono, in quello di Martin, alla
seconda parte del brano conclusivo intitolato Im nächsten
Frühjahr che nella prima sezione musica le parole
«Der Waffenrock ist im Schlosse verbrannt, der Brief und
das Rosenblatt einer fremden Frau»
(‘L’uniforme è bruciata nel castello, la lettera e
il petalo di rosa di una donna sconosciuta’). È per
Martin il ventitreesimo e ultimo brano, che a sua volta in
relazione al testo di Rilke corrisponde alla seconda parte del
capitolo XXVI. La prima parte di questo capitolo (esclusa da
Ullmann e che Martin mette in musica nel precedente brano n. 22,
Der Tod) descrive lo scontro con il nemico e la caduta di
Christoph. Così, l’ultimo brano di Martin inizia con la
scena postuma allo scontro, prima che lo sguardo narrativo di Rilke
si sposti sull’entrata a Langenau del corriere del barone von
Pirovano.
La cavalcata del corriere viene introdotta e
accompagnata dalle ostinate triadi diminuite del
Leidensmotiv, affidato agli archi. Per le otto battute del
precedente verso «Der Waffenrock ist im Schlosse verbrannt,
der Brief und das Rosenblatt einer fremden Frau» Martin
assegna al contralto due frasi melodiche con note che vengono
ribattute fra tre intervalli di terza minore (do
diesis-mi; mi-sol; re
diesis-fa diesis). Su un pedale costante di
mi, l’orchestra anticipa i bassi del
Leidensmotiv, sfruttando ancora relazioni di terza minore
che insieme alle note della melodia formano perciò una
‘latente’ triade/settima diminuita (la
diesis-do diesis-mi-sol). La
susseguente comparsa del Leidensmotiv orchestrale si pone
dunque come una ‘concretizzazione’ del sound
diminuito che nella prima parte è solo accennato. Il contralto
canta i desolati e dimessi versi del ritorno a Langenau con frasi e
frammenti melodici che nel loro vario cromatismo coprono dieci
delle dodici note a disposizione e si relazionano alle triadi
diminuite secondo i vari principi di arricchimento, appartenenza e
integrazione a cui abbiamo più volte accennato.
La pregnanza del verso «Dort hat er eine alte
Frau Weinen sehen» determina una sorta di analogia fra le
versioni di Ullmann e di Martin, poiché anche Martin per
musicare quest’ultimo verso sospende l’ostinato ritmico
dell’accompagnamento, e per quanto riguarda l’armonia,
dopo i cromatismi degli accordi diminuiti e dei vari complessi
dissonanti, si affida alla valenza espressiva di una
un’inaudita ed esclusiva triade minore (Do diesis minore).
Secondo un procedimento che Martin aveva già sfruttato alla
fine del primo brano, le note affidate agli archi e quelle affidate
al canto si integrano per formare una successione di triadi
perfette, in particolare una continua alternanza maggiore/minore,
che viene condotta da uno scivolamento cromatico discendente: alla
triade iniziale di Do diesis minore (mezzoforte) seguono in
diminuendo le triadi di Do maggiore, Do minore, Si maggiore
e Si minore, fino al pianissimo (ppp)
dell’ultimo isolato basso.
Esempio 13. Frank Martin, Die Weise von Liebe
und Tod des Cornets Christoph Rilke, © Copyright 1944 by
Universal Edition A.G., Wien/UE 11491.
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MARTIN, Der Cornet, n. 23 (Im
nächsten Frühjahr), cifra 1: Marjana Lipovšek
(contralto), ORF-Symphonieorchester, Lothar Zagrosek (dir.)
[**].
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Esempio 13a. Pagina autografa della riduzione per
canto e pianoforte che Martin ha approntato nel 1943. Conservata
presso la Paul Sacher Stiftung di Basilea, Sammlung Frank
Martin.
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Dunque i brani conclusivi riportati negli esempi 12 e
13 sono da un lato rappresentativi delle poetiche dei dodici suoni
di Ullmann e Martin, e d’altronde rivelano alcune
sintomatiche analogie stilistiche fra i Cornet dei due
compositori, indicando talora una comune ragion d’essere
delle strutture musicali che a sua volta si intreccia
indissolubilmente al significato e alle forme del testo di Rilke.
Nella conclusione di Ullmann, il suo «sistema dodecafonico su
basi tonali» emerge da un leitmotiv, quello ‘dello
spirito di Christoph’, che presenta una struttura melodica
serialmente ‘difettiva’ e un’armonizzazione
‘tonalmente poliarmonica’. Nella conclusione di Martin,
la sua particolare concezione della dodecafonia si riverbera
parzialmente nella linea melodica del contralto, che grazie al
cromatismo si fa «estremamente ricca», ma anche
nell’accompagnamento strumentale, formato da triadi diminuite
che unite ai bassi toccano tutti i dodici suoni disponibili.
È arduo stabilire se in Ullmann le diverse
presentazioni del tema ‘dello spirito di Christoph’
implichino i dodici suoni come un presupposto, o non piuttosto come
una risultante, cioè come la conseguenza di un procedimento
armonico liberamente triadico. Siamo in presenza di una sorta di
compromesso fra una neotonalità armonica e un libero pensiero
seriale ‘difettivo’, stimolato soprattutto da ragioni
melodiche, che si fondono determinando un esaurimento del totale
cromatico. Da parte sua, Martin, nel pezzo finale, copre il totale
cromatico con un procedimento in qualche modo analogo, sia
melodicamente che armonicamente, e anche qui perciò sussistono
le ambiguità: si intravede un certo atteggiamento seriale
nella natura variamente cromatica della melodia del contralto,
mentre nella formula del Leidensmotiv il totale cromatico
pare essere la conseguenza dell’armonia «vagante»
delle triadi diminuite. E tuttavia, non è escluso che anche in
questo accompagnamento strumentale si nasconda il pensiero
peculiarmente dodecafonico di Martin; ovvero non è escluso che
qui il procedimento precompositivo sia stato simile a quello che
apre l’ottavo brano, Der Schrei dove le triadi
perfette sono di comprovata provenienza seriale – stando alle
indicazioni dello schizzo che ci è rimasto.[45] E allora
anche nell’ultimo brano di Martin la dialettica fra accordi
triadici, cromatismi e campi cromatici atonali può scaturire
da un’interpretazione dell’eredità dodecafonica di
Schönberg; così come nella conclusione del Cornet
di Ullmann tale dialettica nasce all’interno di un
«sistema dodecafonico su basi tonali» che sembra
affondare in Schönberg, oltre che in Berg, parte delle sue
radici.
I referenti extramusicali dati dal testo di Rilke
rivestono un ruolo fondamentale in queste peculiari poetiche dei
dodici suoni, tanto, forse, da poter essere considerati addirittura
una primaria ragione costruttiva. In particolare nei brani che
concludono i due Cornet, emerge con evidenza come un momento
focale e drammatico del racconto motivi la tendenza di Martin e
Ullmann ad esaurire campi altamente cromatici, quando non
totalmente cromatici, pur mantenendovi certi elementi ereditati dal
sistema tonale. Nel corso del presente articolo sono stati
illustrati vari passaggi e sezioni che mostrano con forza una
reciproca influenza fra le istanze rilkiane e gli eclettismi dei
dodici suoni. Per un ulteriore esempio di tale simbiosi
poetico-musicale, si volga lo sguardo ancora a Der Schrei di
Martin, nella sua interezza: la coerenza della serialità
globale del brano determina la più varia ed esplicita
dialettica fra triadi perfette e serie dodecafoniche lineari, e del
resto pare non casuale che ciò si verifichi nel capitolo forse
più ‘espressionista’ di tutto il poema – a
cui Martin conferisce un titolo, Der Schrei
(‘L’urlo’), che inevitabilmente si pone come
riferimento all’omonimo quadro di Edvard Munch, ovvero una
delle opere in assoluto più rappresentative
dell’Espressionismo intorno a Rilke.
Nell’urlo di Martin le triadi iniziali,
straniate dalle dissonanze ai bassi, ricorrono fra i cromatismi
totali ad ampliamento espressivo di un testo verbale discontinuo,
frammentato. I versi spezzati, talvolta di una parola sola, che
descrivono il solitario incedere di un Christoph colto nel momento
del sogno corrispondono a consonanze di terza fra voce e orchestra
e a triadi maggiori e minori, suonate dolcissimo e
pianissimo anche quando armonizzano il totale cromatico. Per
le borchie della sella «che splendono tra la nube di
polvere» il totale cromatico suona come un accompagnamento
della voce rapido e leggero, senza incontri aspri; e così per
la luna che in una sorta di madrigalismo si innalza insieme con la
linea del canto, con le triadi e con la dinamica della
strumentazione orchestrale. Quando Christoph si trova
d’improvviso a fronteggiare l’urlo allucinato di
un albero cui è legata una donna nuda e insanguinata, questo
ripetuto urlo – nel paesaggio psichico di Rilke non
è la donna a gridare, bensì l’albero stesso –
si ritrova gridato nelle acute note del contralto
(«schreit, schreit») a completare
cluster orchestrali in forte e più forte.
Seguono nei campi cromatici altre alternanze fra triadi perfette e
agglomerati dissonanti in un crescendo ritmico e dinamico
dell’orchestra, finché Christoph libera la donna,
tagliando le «corde cocenti», per subito fuggire oltre
con quei «lacci insanguinati stretti in pugno».
Die Kompagnie liegt jenseits der Raab. Der von
Langenau reitet hin, allein. Ebene. Abend. Der Beschlag vorn am
Sattel glänzt durch den Staub. Und dann steigt der Mond. Er
sieht es an seinen Händen.
Er träumt.
Aber da schreit ihn an.
Schreit, schreit,
zerreißt ihm den Traum.
Das ist keine Eule. Barmherzigkeit:
der einzige Baum
schreit ihn an:
Mann!
Und er schaut: es bäumt sich. Es bäumt sich ein Leib
den Baum entlang, und ein junges Weib,
blutig und bloß,
fällt ihn an: Mach mich los!
Und er springt hinab in das schwarze Grün
und durchhaut die heißen Stricke;
und er sieht ihre Blicke glühn
und ihre Zähne beißen.
Lacht sie?
Ihn graust.
Und er sitz schon zu Roß
und jagt in die Nacht. Blutige Schnüre fest in der
Faust.[46]
Forse più di ogni altro brano dei Cornet
di Martin e Ullmann, Der Schrei mostra come gli elementi
armonici dell’eclettismo – tonali e atonali, triadici e
non, diatonici e cromatici, consonanti e dissonanti – si
fronteggino con apparente ostilità trovando tuttavia una
comune ragione di appartenenza nell’unità generale del
totale cromatico e, parimenti, trovando un’origine e una
logica costruttiva nella relazione che si instaura fra le proprie
potenzialità di associazione extramusicale e i significati del
testo verbale [47] – pur certo senza determinare con
tale relazione una ‘regola degli affetti’ dalle rigide
corrispondenze.
V. Quale ombra di Schönberg?
Nel Cornet di Martin e in quello di Ullmann la
compresenza di tradizione e modernità deriva da vari
atteggiamenti stilistici fra i quali un punto di coagulazione
è costituito dall’interpretazione ‘non
rigorosa’ che i due compositori intendono offrire
dell’eredità dodecafonica di Schönberg. Martin
affermava che il mantenimento nella serie di «un senso
tonale» era un modo per parlare un linguaggio seriale diverso
rispetto a quello del suo ideatore, mentre pare che per Ullmann il
proprio «sistema dodecafonico su basi tonali», in cui gli
elementi tonali si confrontano con nuove sintassi e libere
serialità, corrisponda alla fusione di due sfere
(«l’acqua e il vino») che Schönberg aveva
separato. Nei rispettivi Cornet tali atteggiamenti
corrispondono allo sfruttamento di serie difettive, o più
generici campi cromatici, ove accanto ad elementi atonali ricorrono
anche elementi triadici, accordi e arpeggi di triadi, settime e
none, ma anche semplici movimenti al basso che possono richiamare
quelli tonali. Linearmente poi, in alcuni passaggi, emergono anche
frammenti di codificate scale neomodali (non maggiori o minori). Si
consideri ancora il Leidensmotiv di Martin, ad esempio, e il
modo in cui dalla continua successione armonica delle triadi
diminuite si genera nelle tre voci anche una linearità
ottatonica.
Esempio 14. MARTIN, Der Cornet, n. 23
(Im nächsten Frühjar), cifra 1 + 5-6.
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La concezione della serie e del totale cromatico in
Martin e Ullmann è parte di una più generale tendenza a
interpretare l’eredità di Schönberg non
necessariamente come negazione della tonalità in tutti i suoi
aspetti (armonici, melodici, formali) e non necessariamente come
negazione di altre tendenze compositive del Novecento storico
(neotonali e neomodali, in senso lato neoclassiche) che anche da un
punto di vista storiografico sono state generalmente considerate
contrapposte al serialismo. Come ha rilevato anche Pietro
Cavallotti,[48] il sistema dodecafonico, paradossalmente,
a dispetto del ‘rigore’ o addirittura dell’idea
di rigidità che sovente ad esso è associata, è anche
un sistema estremamente malleabile, poiché
nell’esaurimento del totale cromatico si danno in effetti
possibilità per generare e accostare elementi che derivano dai
linguaggi più diversi, non solo atonali. Queste
possibilità sono testimoniate dagli svariati atteggiamenti
– dichiarati e non – che nei confronti
dell’ideazione di Schönberg sono stati assunti da alcuni
compositori nella prima metà del Novecento. Basti pensare alle
intersezioni triadiche e ottatoniche della dodecafonia di
Dallapiccola,[49] o al concetto di «dodecafonia
tonale» coniato e messo in pratica da Paul van Klenau.[50] In
casi simili, e come per certi atteggiamenti di Martin e Ullmann, il
riferimento a Schönberg parrebbe limitarsi anche solo a
‘un’ombra’, a un principio costruttivo che, di
fatto, si realizza con modalità anche molto lontane dalle
intenzioni del suo ideatore.
Ma tali modalità ‘non rigorose’,
come le tanto citate compromissioni tonali, erano davvero così
lontane dalle intenzioni di colui che la tecnica dodecafonica
l’aveva inventata? Il «metodo di composizione con dodici
note che stanno in relazione solo fra loro» era davvero, nelle
intenzioni di Schönberg, una negazione della tonalità in
tutti i suoi aspetti? Quando Martin al tempo della composizione del
Cornet, nel 1943, affermava che il mantenimento di un senso
tonale era un modo per far parlare alla dodecafonia un
«linguaggio diverso rispetto a quello del suo ideatore»
certo non poteva sapere che in quel medesimo periodo al di là
dell’oceano lo stesso Schönberg tendeva a compromettere
con varie ‘licenze’, consonanze, polarità, gesti e
salienze tonali, la ‘purezza’ dodecafonica di pezzi
come le Variazioni su un recitativo per organo op. 40,
L’Ode a Napoleone Bonaparte op. 41 e il
Concerto per pianoforte e orchestra op. 42.[51]
Se, fra gli anni Trenta e Quaranta, compositori come
Dallapiccola o Paul van Klenau, o gli stessi Martin e Ullmann,
davano valutazioni critiche e interpretazioni creative variamente
tonali del sistema dodecafonico, spesso convinti di trasgredire in
tal modo le norme di un’ortodossia, non va dimenticato che in
quegli anni anche Schönberg intraprendeva un percorso che lo
avrebbe portato a caratterizzare sempre più la propria
dodecafonia con elementi o allusioni tonali – distinguendola
così dalle stesse sue composizioni dodecafoniche degli anni
Venti. Più in generale, dunque, dopo aver individuato con la
dodecafonia un principio di integrazione in un linguaggio che era
altamente differenziato a causa dell’emancipazione della
dissonanza, egli tendeva a riportare nella tecnica seriale una
dialettica fra consonanza e dissonanza dalle strutture e dai
significati nuovi. Strutture e significati che peraltro da un punto
di vista teorico nemmeno lui, alla fine della sua vita e della sua
parabola creativa, sarebbe riuscito a descrivere e giustificare del
tutto:
In questi ultimi anni mi è stato domandato se
certe mie composizioni siano dodecafoniche ‘pure’ o in
generale se siano dodecafoniche. Il fatto è che io non lo so.
Sono tuttora più un compositore che un teorico. Quando
compongo cerco di dimenticare tutte le teorie e continuo a comporre
soltanto dopo aver liberato la mia mente da esse. Mi sembra
importante mettere in guardia i miei amici contro
l’ortodossia. La composizione con dodici note non è
affatto un metodo così severo ed esclusivo come comunemente si
crede. È prima di tutto un metodo che richiede ordine logico e
organizzazione, cui il risultato principale mira ad essere la
comprensibilità. Se certe mie composizioni manchino di
‘purezza’ a causa della sorprendente apparizione di
alcune armonie consonanti – sorprendenti anche per me –
io non sono in grado, come ho detto, di decidere. Ma sono sicuro
che una mente esercitata alla logica musicale non sbaglia, anche se
non è consapevole di tutto ciò che fa. Così spero
che, ancora una volta, un atto di grazia possa venire in mio
soccorso, come accadde nel caso della Kammersymphonie, e possa
svelare la coerenza in questa apparente discrepanza.[52]
Fra le ragioni di una «coerenza in questa
apparente discrepanza», vanno certo ricercati quei significati
extramusicali che per Schönberg avevano avuto
un’importanza determinante (parte significativa
dell’«atto di grazia», come lo chiamerebbe lui) non
solo nel suo periodo espressionista, quello dei monodrammi, del
Pierrot Lunaire e di vari cicli liederistici, ma persino
nella stessa prima intuizione della serie dodecafonica,
nell’oratorio Die Jakobsleiter. Parimenti, la presenza
di materiali consonanti nel campo seriale, approfondita da
Schönberg dopo il 1933, nel suo periodo americano, sembra non
a caso trovare un primo momento di sperimentazione in una
precedente opera dalle implicazioni fortemente spirituali e
simboliche, ovvero Moses und Aron (1930-1932). Ecco dunque
che le interpretazioni variamente triadiche e
‘poliarmoniche’ del sistema dodecafonico da parte di
compositori come Martin e Ullmann rivelano, più di quanto
questi stessi compositori potessero sapere, sintomatici punti di
contatto con Schönberg sia per la presenza e
l’organizzazione di certe strutture immanenti, sia per la
ricerca di una loro logica e motivazione – di una loro
«coerenza» – in referenti extramusicali.
Quale ombra di Schönberg allora si proietta
sulle poetiche dei dodici suoni di Martin e Ullmann e sui
rispettivi Cornet? Proprio Ullmann, scrivendo il citato
articolo su Berg del 1930, mentre Schönberg iniziava la
composizione di Moses und Aron, si era dimostrato uno dei
primi a intuire che il sistema dodecafonico avrebbe potuto
rivelarsi tutt’altro che rigido, severo ed esclusivo, persino
nelle mani del suo stesso ideatore. Il quale – afferma
Ullmann, forse per averne parlato direttamente con lui –
stava aspettando «una nuova tonalità nel senso più
ampio del termine», che a quel tempo ancora apparteneva al
futuro:
Nel momento in cui [Schönberg] per prima cosa
sciolse tutti i legami della famiglia musicale seguendo il
rivoluzionario principio: «tutti i suoni siano fratelli»,
subito egli avvertì il pericolo dell’anarchia che si
nascondeva in questa comunità di suoni, che avrebbe potuto
riportare ad un ‘ordine primitivo’. Egli scongiurò
questo pericolo ricorrendo a un grosso tabù, il sistema
dodecafonico. Questa giovane comunità di suoni non era
governata da altre leggi. Se questo suo nuovo ordine, se la
‘lex-dodecafonia’ abbia gettato le basi di un nuovo
Stato di forte organizzazione, oppure solo di un governo
provvisorio, non lo si può prevedere proprio perché lo
stesso Schönberg sta aspettando una nuova tonalità
– nel senso più ampio del termine – la cui essenza
ci è sconosciuta.[53]
DISCOGRAFIA
Gli esempi audio dei Cornet di Martin e
Ullmann sono tratti rispettivamente da:
[**] FRANK MARTIN, Der Cornet, 1CD,
Orfeo International Music GmbH, 1988 (LC 8175).
[***] VIKTOR
ULLMANN – ARNOLD SCHÖNBERG, Die Weise von Liebe und
Tod des Cornets Christoph Rilke et al., 1CD, EDA Edition
Abseit, 1995 (EDA 008-2).
|
_________________________
[Bio] Carlo Bianchi
è diplomato in pianoforte e insegna analisi musicale presso la
facoltà di Musicologia di Cremona (Università degli Studi
di Pavia). Si è addottorato presso la medesima facoltà
presentando la dissertazione Musica e guerra. Comporre
all’epoca del secondo conflitto mondiale. Svolge
attività di ricerca prevalentemente nell’ambito del
Novecento storico.
E-mail
carbianchi@libero.it
Carlo Bianchi has a degree in Piano Performance
from the Conservatory of music "Cesare Pollini" of Padua. He
graduated at the Faculty of Musicology of Cremona (Department of
Musicological Science of the University of Pavia) and there he took
his PhD working on a dissertation about relations between music and
Second World War. He is currently teacher of Music Analysis at the
same Faculty. His studies are mainly focused on music and composers
of the first half of 20th century.
[*] La riduzione per canto
e pianoforte del Cornet di Martin è edita dalla casa
viennese Universal Edition (UE11491). Il Cornet di Ullmann
è disponibile in una edizione Schott (ED 8285). Nel presente
articolo gli esempi che si riferiscono a questo brano non sono
stati riportati integralmente in ragione delle condizioni imposte
dalla casa editrice.
[1] «Versifizierten
Prosa» la definì lo stesso Rilke in una lettera ad Arthur
Holitscher del 20 giugno 1907 (citata in RAINER MARIA RILKE, Die
Weise von Liebe und Tod des Cornets Christoph Rilke:
Text-Fassungen und Dokumente, hrsg. von Walter Simon,
Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1974, p. 97).
[2] Il Cornet era
stato musicato da Kasimir von Pászthory nel 1914 come
‘melodramma’ per voce recitante e pianoforte, poi da
Paul van Klenau fra il 1915 e il 1918 (per baritono, coro e
orchestra) e infine da Kurt Weill nel 1919 (un poema
sinfonico).
[3] «È chiaro
che la celebrazione del soldato in essa contenuta non poteva che
rendere quest’opera, soprattutto nei primi mesi di guerra
sostenuti da entusiasmo bellico, ancora più amata di quanto
già non fosse. In molti zaini, così si dice,
L’Alfiere è presente, al pari della Bibbia o
tutt’al più del Faust, come una sorta di
equipaggiamento ideologico da battaglia» (WOLFGANG LEPPMANN,
Rilke. La vita e l’opera, trad. di Donatella Frediani,
Milano, Longanesi, 1989, p. 173).
[4] RILKE, Über
Kunst [Sull’arte, 1898], in IDEM, Tutti gli scritti
sull’arte e sulla letteratura [testo tedesco a fronte], a
cura di Elena Polledri, Milano, Bompiani, 2008, pp. 194-207:
197.
[5] Anche le illustrazioni
figurative del Cornet furono numerose. Rilke tendeva a
svalutarle e scoraggiarle. In particolare nel 1917 respinse la
proposta, avanzata dalla sua conoscente Katherina Kippenberg
(moglie di Anton Kippenberg, dell’Insel-Verlag, che fu il
principale artefice del successo editoriale del Cornet), di
commissionare alcuni quadri a Kokoschka (LEPPMANN, Rilke. La
vita e l’opera, cit., p. 175).
[6] Lettera alla contessa
Maria Viktoria Attems del 12 marzo 1921, riportata in HARRY E.
SEELIG, Rilke and Music. Orpheus and
the Maenadic Muse, in Rilke-Rezeptionen. Rilke
Reconsidered, ed. by Sigrid Bauschinger and Susan L. Cocalis,
Tübingen/Basel, Francke, 1995, pp. 63-93: 66. Nel
presente articolo le traduzioni in italiano sono a cura di chi
scrive salvo diversa indicazione. Desidero ringraziare il professor
Artemio Focher (Università degli Studi di Pavia) per alcuni
consigli sulle traduzioni dal tedesco.
[7] «In den Cornet
sind die Motten gekommen […] durch diese Ritze drang das
Mottenvolk ein, und nun bin ich eben bestraft». Lettera del 13
ottobre 1916 (riportata in SEELIG, Rilke and Music,
cit., p. 69) destinata a Katherina Kippenberg, che aveva
assistito alla prima esecuzione del Cornet di Pászthory
a Lipsia. In un’altra lettera ad Anna Freifrau del 4 febbraio
1915 Rilke aveva preso spunto dal Cornet di Pászthory
per esprimere il suo disappunto nei confronti della generale
«coesistenza di parole e musica» (Nebeneinender von
Wort und Musik) e per una «forma melodrammatica» che
secondo lui non era una «forma d’arte» (die
für mich keine Kunstform ist): «Vielleicht kann ein
starker Sprecher den augenblicklichen Einklang herstellen: das wird
sich nun zeigen» (‘Forse un vigoroso lettore riesce a
produrre la momentanea armonia: questo però diventa
esibirsi’). RILKE, Text-Fassungen und Dokumente, cit.,
p. 123.
[8] Per una sintetica
disamina della ricezione musicale dell’opera di Rilke, si
veda SEELIG, Rilke and Music, cit. Sarebbe fuori
luogo elencare qui tutti i numerosi compositori e brani del
Novecento ispirati dalle poesie di Rilke (fra cui va comunque
menzionato, quantomeno, il ciclo liederistico Das
Marienleben di Hindemith, 1922). È piuttosto il caso di
rimandare alle voci «Rilke» di alcuni dizionari
enciclopedici musicali (che danno anche indicazioni sui vari
contributi bibliografici inerenti l’argomento). Si vedano in
particolare le voci curate da ANGIOLA MARIA BONISCONTI in
Dizionario Enciclopedico Universale della Musica e dei
Musicisti, vol. 6 (Le biografie), 1983, pp. 353-355;
PETER BRANSOMBE, in The New Grove Dictionary of Music and
Musicians. Second edition, vol. 21, 2001, p. 397; RÜDIGER
GÖRNER, in Die Musik in Geschichte und Gegenwart, vol.
14 (Personenteil), 2005, pp. 353-355.
[9] Queste riflessioni,
maturate prima ancora della stesura del Cornet, sono
contenute negli scritti Moderne Lyryk [La lirica moderna] e
Über Kunst [Sull’arte, cit.] che risalgono
entrambi al 1898. Si veda RILKE, Tutti gli scritti, cit.,
rispettivamente pp. 100-149 (per le espressioni qui citate, pp.
104-105) e pp. 194-207: 197.
[10] «Ancora la
ricordo la notte prodigiosa / che lo scrissi [il Cornet]:
com’ero giovane. / Da allora le pretese del destino / hanno
portato in sorte / a migliaia coraggio e bisogno, / e a centinaia
l’eroismo, / improvviso: come se mai avessero / conosciuto il
loro cuore. Così anche il mio fu / per me del tutto nuovo in
quella lontana notte / che non presagita, impensata, / questa
poesia da esso scaturì… / Così noi siamo qualcosa,
lo siamo e non lo sappiamo / e il destino non è più di
noi: esso ha volontà». Poesia spedita al tenente degli
ussari Friedrich von Mosch nel dicembre 1914, riportata in
LEPPMANN, Rilke. La vita e l’opera, cit., pp.
173-174. Qui la traduzione differisce leggermente da quella di
Donatella Frediani, ibid., p. 174.
[11] Oltre a Martin
e Ullmann, sempre nei medesimi anni della seconda guerra mondiale,
il Cornet fu messo in musica anche dal compositore Anton
Würtz (un brano per baritono e pianoforte). Così, nel
complesso, i sei arrangiamenti al tempo delle due guerre, uniti
alla più recente opera di Siegfrid Matthus (1985), rendono il
Cornet la poesia di Rilke maggiormente musicata.
[12] Nel corso del
1942, prima ancora di venire a conoscenza del testo di Rilke,
Martin aveva pensato a un ciclo liederistico per voce e pianoforte.
La versione del Cornet per contralto e orchestra fu il
risultato di varie riflessioni sul testo, nonché della
collaborazione con la cantante Elisabeth Gehri e il direttore
d’orchestra Paul Sacher: «La rencontre que je fis alors
d’Elisabeth Gehri et la possibilité de l’avoir
pour interprète, me décidèrent à renoncer
à mon cycle de Lieder et à entreprendre un plus
vaste travail. Les encouragements que je reçus
de Paul Sacher achevèrent de me décider et donnèrent
à mon projet sa forme définitive, en m’offrant
comme partenaire à la voix d’alto la finesse et la
transparence d’un orchestre de chambre.» (FRANK MARTIN,
Le Cornette (1942-1943), in A propos de…
Commentaires de Frank Martin sur ses oeuvres, pub. par Maria
Martin, Neuchâtel, Editions de la Baconnière, 1984, pp.
49-50: 51).
[13] «…cette courte épopée en vingt et
quelques chants, qui sont chacun un exquis petit poème en
prose, ayant chacun sa couleur propre et son rythme et gardant
jusque dans la peinture des brutalités de la guerre une
sensibilité incroyablement raffinée», MARTIN,
Pourquoi J’ai mis en musique «Der Cornet» de
Rilke, in A propos de…, cit., pp. 51-55:
52.
[14] Per una
contestualizzazione della composizione del Cornet rispetto
ad altre opere di Ullmann scritte a Theresienstadt, e rispetto ai
generali meccanismi estetici del Ghetto, si vedano VERENA NAEGELE,
Viktor Ullmann. Komponieren in verlorener Zeit, Köln,
Dittrich Verlag, 2002, pp. 426-430; INGO SCHULZ note illustrative
allegate a (2) ULLMANN – SCHÖNBERG, 1995, pp. 8-13 (si
veda Discografia). Con particolare riguardo al concetto di morte
steineriana in Ullmann, CARLO BIANCHI, L’Andante della
Sonata per pianoforte n. 5 op. 45 di Viktor Ullmann. Una
testimonianza da Theresienstadt, «Philomusica
on-line», 5, 2005-2006 (http://philomusica.unipv.it/).
[15] Lettera a H.
Pongs del 17 agosto citata in LEPPMANN, Rilke. La vita e
l’opera, cit., p. 160.
[16] Una parziale
trattazione degli aspetti psicologici della poetica romantica, con
riferimento in particolare alle arti figurative e con accenni al
percorso che lega il Romanticismo alla nascita della psicoanalisi
nel Novecento, è offerta da GIULIANO BRIGANTI, I pittori
dell’immaginario. Arte e rivoluzione psicologica, Milano,
Electa, 1989. Per quanto riguarda l’ambito letterario e
musicale, un testo emblematico della continuità fra certe
istanze simboliche e psicologiche dell’epoca romantica e
quelle espressioniste del secolo successivo è costituito dal
dramma Woyzeck di Georg Büchner. L’allucinata
vicenda del soldato Woyzeck, scritta da Büchner nel 1836-1837
e lasciata incompiuta, venne riscoperta e ricostruita, con il
deformato titolo Wozzeck, solo alla fine
dell’Ottocento, dopo un lungo periodo di oblio. Messa in
scena alla vigilia della prima guerra mondiale nei teatri di Monaco
e Vienna, iniziò subito a porsi come modello di dramma
espressionista suscitando l’entusiasmo di molti artisti e
intellettuali, fra i quali Rilke, e infine trovò una veste
musicale nelle opere di Alban Berg e Manfred Gurlitt (risalgono al
1925 le prime rappresentazioni di entrambe le opere,
rispettivamente a Berlino e Dresda). Il Wozzeck di Berg
è in genere considerato l’opera per eccellenza del
teatro musicale espressionista pur essendo basato su un testo
letterario di un’epoca precedente. Per alcuni aspetti del
rapporto fra il dramma di Büchner e l’opera di Berg si
vedano, fra i contributi in italiano, GRAZIELLA SEMINARA, Dal
«Woyzeck» al «Wozzeck»: percorsi di un
capolavoro, e LINA MARIA UGOLINI, La terribile voce del
silenzio. Una lettura del «Woyzeck» di Georg
Büchner, entrambi in Wozzeck. Atti del convegno
«Il Wozzeck di Alban Berg». Catania, 3-4 giugno 1996,
a cura di Adriana Licciardello e Graziella Seminara, Lucca, LIM,
1999, rispettivamente pp. 3-24 e pp. 81-94; FAUSTO CERCIGNANI,
Il «Woyzeck» di Büchner e il «Wozzeck»
di Berg, in Wozzeck, a cura di Francesco Degrada,
Milano, Edizioni del Teatro alla Scala, 2000, pp. 99-120.
[17] «E uno
è lì e guarda stupito tanta magnificenza. Ed è come
se temesse di destarsi. Perché solo nel sonno è dato
contemplare un tale sfarzo e un tale tripudio di tali donne: ogni
loro gesto è una piega che scivola nel broccato. Da dialoghi
argentei tessono le ore e talvolta… come levano le
mani… crederesti che in qualche luogo, dove tu non giungi,
colgano rose soavi, che tu non vedi. E allora sogni: di esserne
adorno e di godere di una diversa felicità e di conquistarti
una corona per la tua fronte, spoglia.» (Per la traduzione del
Cornet mi avvalgo di quella di Maria Teresa Ferrari
contenuta nell’edizione SE (Milano, 2001). Sia questa
traduzione sia gli stessi brani di Martin e Ullmann si rifanno al
testo nella sua versione definitiva del 1906).
[18] «È
[questo] il mattino? Quale sole sorge? Com’è grande il
sole. Sono uccelli questi? Le loro voci sono ovunque. / Tutto
è luce, ma non è il giorno. / Tutto è rumore ma non
sono le voci degli uccelli. / Sono le travi che risplendono. Sono
le finestre che urlano. E urlano, rosse, contro i nemici, fuori,
nella campagna fiammeggiante, urlano: fuoco».
[19] Il termine
Weise è, ad esempio, un termine che, adottato dai
Minnesänger medievali, indicava una forma, una canzone da
porgere in un determinato ‘modo’ (Weise) e
quindi il termine può essere inteso anche come
‘melodia’ e ‘canto’. Lo stesso termine
Cornet designa un grado militare di antica tradizione. Per
alcuni accenni all’etimo delle parole Weise e
Cornet si veda MARIO SPECCHIO, Alle origini del
canto, in RILKE, Canzone d’amore e morte
dell’Alfiere Christoph Rilke, trad. di Anna Maria Carpi,
Roma, Edizioni dell’Altana, 1999, pp. 9-29 e 90 (I luoghi, i
tempi, le parole). In lingua tedesca RILKE,
Text-Fassungen und Dokumente, cit.
[20] JUDITH RYAN, Rilke, Modernism and Poetic Tradition,
Cambridge, Cambridge University Press, 1999.
[21] «Sind bis
jetzt einzelne Arbeiten über musikalische Gesetze in der
Dichtung erscheinen, so sollte, wenn einst genügend Material
gesammelt ist, einer die Geschichte des musikalischen Stils in der
Dichtung schreiben. Es würde dann ersichtlich werden, dass
Rilke seine Leitmotive, wie "Sehnen und Sterben, Weib und
Schicksal" (Maync), in kühnerer Weise spielt und abwandelt als
E.T.A. Hoffmann die seinen im "Goldenen Topf". Man würde
erkennen, dass die losere Form seines Werkes der befreiten Struktur
moderner Musik gleichkommt, dass sein Metrum den Takt so
häufig wechselt wie das zerrissenste Werk Regers, ja dass er
Wortakkorde zu sagen vermochte, die dem geistreichen
Musiktheoretiker Arnold Schönberg als Klangfarbenharmonien
vorschwebten.» (FELIX WITTMER, Rilkes
«Cornet», «Publications of the Modern Language
Associations», XLIV, 1929, pp. 911-924: 923).
[22] PIETRO
CAVALLOTTI, Frank Martin e la dodecafonia, «Philomusica
on-line», 6, 2007 (http://philomusica.unipv.it/).
[23] «L’harmonie est née du contrepoint,
historiquement, ce qui est tout autre chose. C’est le
contrepoint qui l’a engendrée. Mais elle est, dans la
musique, un tout autre élément, et un élément
d’une tout autre importance; c’est en effet a
l’harmonie que nous devons la marque distinctive de notre
musique européenne; je veux dire le sens tonale» (MARTIN,
Défense de l’harmonie [1943] in Un compositeur
médite sur son art, Ecrits et pensées recueillis par
Maria Martin, Neuchâtel, Editions de la Baconnière, 1977,
pp. 79-82: 80).
[24] «Comme toutes les révolutions, celle de
Schönberg érige en système la pensée nouvelle
qu’elle apporte, nie tout ce qui n’est pas
elle-même et estime tout particulièrement suspects ceux
qui s’approchent d’elle sans adopter
l’intégralité de ses dogmes. Comme toutes les
révolutions, elle croit aussi que l’avenir est à
elle, ne comprenant pas que, par son essence, en elle-même,
elle est éphémère, et que son apport positif ne peut
être fécond que s’il s’intègre dans les
valeurs permanentes de la musique. Car il n’est, en art, de
valeurs réelles que celles qui unissent l’immédiat
et le permanent. […] C’est ainsi que les règles
établies par Schönberg peuvent enrichir notre
écriture musicale en rendant notre sensibilité plus
aiguë. Cette technique parlera alors une autre langage que
celle de sono initiateur, chacun la façonnera selon son
tempérament. […] Ainsi nous pouvons participer à
cette libération de la cadence et de la tonalité
classique, a cette libération aussi du mode diatonique, sans
renier pour autant notre sens des fonction tonales, de la basse
fonctionnelle et de la hiérarchie des rapports dont
l’acoustique élémentaire nous assure la
réalité physique.» (MARTIN, Schönberg et
nous [1947], in Un compositeur médite sur son art,
cit., pp. 108-112: 110-111).
[25] MARTIN, Schönberg et les conséquences de son
activité [1974], in Un compositeur médite sur son
art, cit., pp. 115-120: 119.
[26] Schönberg
iniziò a scrivere in uno stile dodecafonico
«rigoroso» nel 1921, con la Suite per pianoforte
op. 25, ultimata nel 1923. Anche la raccolta dei cinque
Klavierstücke op. 23 e la Serenade per baritono
e sette strumenti op. 24, iniziate entrambe nel 1919 e terminate,
come la Suite, nel 1923, presentano parti di dodecafonia
«rigorosa» che Schönberg stesso dice risalire al
1922-1923. Dunque, sempre a detta di Schönberg,
l’elaborazione dei Klavierstücke e della
Serenade fra il 1919 e il 1921 costituisce una fase di
preparazione diretta alla nascita della dodecafonia (il ruolo della
serie nella Serenade, ad esempio, è testimoniato
già da uno schizzo che risale al 1920). In alcune composizioni
degli anni ancora precedenti, in particolare nell’oratorio
Die Jakobsleiter (1917) e nel frammento di un settimino per
archi (1918), si può notare come Schönberg ricercasse in
vari modi la serie e stesse progressivamente approntando alcune
tecniche che avrebbero caratterizzato il sistema dodecafonico (fra
i vari studi inerenti questo argomento, si veda MARTINA SICHARDT,
L’origine del metodo dodecafonico in Schönberg,
in Schönberg, a cura di Gianmario Borio, Bologna, Il
Mulino, 1999, pp. 91-111. Alcune dichiarazioni di Schönberg al
riguardo sono riportate in La composizione con dodici note,
in ARNOLD SCHÖNBERG, Analisi e pratica musicale. Scritti
1909-1950, a cura di Ivan Vojtech, Torino, Einaudi, 1974, pp.
240-243: 243; si veda anche IDEM, Stile e pensiero. Scritti su
musica e società, a cura di Anna Maria Morazzoni, Milano,
Il Saggiatore, 2008, p. 217).
[27] VIKTOR ULLMANN,
Alban Berg, «Anbruch. Monatsschrift für moderne
Musik», XII/2, 1930, pp. 50-51: 50.
[28] «Unter
dieser Hand wird das Material der Diskussion entrückt, und wir
vergessen, daß es hier "Tonalität", dort
"Atonalität" oder Zwölftonsystem heißt.
Schönberg hat einmal Tonalität mit Wasser,
Atonalität mit Wein verglichen. Berg tut das Wunder der
Verwandlung: Die beiden Elemente werden einander ähnlich, sie
durchdringen einander.» ‘Sotto questa mano <di
Berg> il materiale della discussione diventa sfocato e noi
dimentichiamo che esso qui si chiami "tonalità", e lì
"atonalità" o sistema dodecafonico. Schönberg ha
assimilato una volta la tonalità all’acqua e
l’atonalità al vino. Berg fa il prodigio della
trasformazione: i due elementi diventano simili l’uno
all’altro, si compenetrano a vicenda.’).
Ibid.
[29] «Die
Brücke über den Abgrund, der scheinbar die vorige
Musikepoche von der ars nova trennte, ist geschlagen, und damit die
Brücke zum "Publikum". Denn das Werk Bergs wirkt nicht nur in
die Tiefe, sondern auch in die Breite.» (‘Il ponte,
sull’abisso che in apparenza separava l’ars nova
dall’epoca musicale precedente, è gettato, e così
il ponte verso il "pubblico". Perché l’opera di Berg non
agisce solo in profondità, ma anche in ampiezza’).
ULLMANN, Alban Berg, cit., p. 51.
[30] «The reviews of performances of Ullmann’s works
begin, almost without exception, with reminding the reader that he
was a pupil of Schoenberg. So brilliant was the aura, so much of a
favorable [sic] introduction, that it comes almost as an
anti-climax when we learn that not a single work of Ullmann’s
written in strict twelve-tone style has been preserved. One of the
music critics wrote in the early days that Ullmann was a brilliant
exponent of the twelve-tone system, but we have nothing to prove
this. We may have our doubts when, where and even whether Ullmann
had systematic instruction in composition with twelve tones. At the
time he studied with Schoenberg, its rules had to wait another five
years to be fully developed. Moreover, Schoenberg insisted on every
student’s mastery of traditional harmony and counterpoint
before he took his first steps beyond. This makes it almost certain
that whatever Ullmann absorbed of the system, he did not learn
directly from the master himself, only from studying the
master’s works and those of his elder disciples, notably
Alban Berg. However, a detailed analysis of Ullmann’s works
will reveal other stylistic features of Schoenberg.»
(MAX BLOCH, Viktor Ullmann. A Brief
Biography and Appreciation, «Journal of the Arnold
Schoenberg Institute», III/2, 1979, pp. 151-177:
163).
[31] «Characteristic of my new endeavors [sic] is,
in my opinion, especially the new piano sonata (new harmonic
functions within the framework of a tonality which perhaps could be
called polytonality. The principle subject is in three tonalities,
but this is not essential. What apparently is happening is the
linking of the twelve tonalities and their related minor keys. It
seems that I was always striving for a twelve note system on a
tonal basis, similar to the merging of major and minor keys.)
– What may be involved is the exploration of the limitless
areas of total-functional harmony, or the bridging of the gap
between romantic and "atonal" harmony. – I am indebted the
Schoenberg school for strict, i.e. logical structures and to the
Hába school for a refinement of melodic sensitivity, the
vision of new formal values and the liberation from the canons of
Beethoven and Brahms. […] In my opinion Hába ventures
the first step beyond the epoch of Beethoven whose ideas relative
to form still dominate the Schoenberg school.» (BLOCH,
Viktor Ullmann, cit., p. 165). Questa lettera di Ullmann non
è stata finora pubblicata. Bloch la riporta parzialmente nel
proprio articolo definendola «note about his studies»
(‘nota sui suoi studi’ [di Ullmann] custodita
privatamente a Praga). L’identificazione di questo scritto
come inedita lettera a Karel Rainer e la sua precisa datazione (25
agosto 1938) sono invece fornite da Konrad Richter nella prefazione
all’edizione Schott delle sonate per pianoforte di Ullmann
(vol. I, 1999, nota 3).
[32] Uno dei
più evidenti esempi di ricezione creativa da parte di Ullmann
nei confronti dell’atonalità non ancora dodecafonica di
Schönberg è costituito dalle sue Variationen und
Doppelfuge über ein Thema von Arnold Schönberg für
Klavier op. 3a (composte nel 1925 e riviste nel 1934). Il tema
di Schönberg è tratto dal quarto dei Sechs
Klavierstücke op. 19.
[33] Martin assegna
ad ogni brano un titolo, che è spesso desunto dai versi
iniziali del capitolo musicato ogni volta. Questi i titoli: 1.
Reiten; 2. Der kleine Marquis; 3. Jemand
erzählt von seiner Mutter; 4. Wachtfeuer; 5. Das
Heer; 6. Ein Tag durch den Troß; 7. Spork;
8. Der Schrei; 9. Der Brief; 10. Das
Schloß; 11. Rast; 12. Das Fest; 13. Und
Einer steht; 14. Bist du die Nacht?; 15. Hast Du
vergessen?; 16. Die Turmstube; 17. Im Vorsaal;
18. War ein Fenster offen?; 19 Ist das der Morgen?;
20. Aber die Fahne ist nicht dabei; 22. Der Tod; 23.
Im nächsten Frühjahr.
[34]
«Cavalcare, cavalcare, cavalcare, attraverso il giorno,
attraverso la notte, attraverso il giorno. / Cavalcare, cavalcare,
cavalcare. / [E] L’animo si è fatto così stanco e
la nostalgia così grande. Non si vedono più monti, a
malapena un albero. Nulla che osi levarsi. Capanne sconosciute
siedono assetate accanto a fonti paludose. Non una torre. E sempre
lo stesso scenario. Si hanno due occhi di troppo. Solo la notte si
crede talvolta di conoscere la via. Forse di notte [sempre]
ripercorriamo a ritroso quello stesso tratto conquistato con pena
sotto un sole straniero? Può essere. Il sole è
opprimente, come da noi al colmo dell’estate. Ma in estate
partimmo. Gli abiti delle donne splendettero a lungo sul verde. E
cavalchiamo ormai da gran tempo. Deve dunque essere autunno. Almeno
là dove donne tristi sanno di noi».
[35] Riprendo in
questo esempio e nell’esempio 7 alcune indicazioni già
date da THOMAS SEEDORF, «Porträt der literarischen
Form». Rilkes «Cornet» in der Vertonungen von Frank
Martin, «Die Musikforschung», XLVI/3, 1993, pp.
254-267: 262.
[36] È ad
esempio il caso della pronuncia di Gert Westphal, che si può
ascoltare negli estratti audio del presente articolo.
Un’incisione del Cornet di Ullmann che invece non
rivela tale caratteristica di pronuncia è quella effettuata da
Elisabeth Verhoeven e dal pianista Hartmut Höll (Capriccio,
Delta Music GmbH, 2001, CAP10897. Il CD contiene anche alcuni
lieder di Ullmann cantati da Mitsuko Shirai: Fünf
Libeslieder von Richard Huch op. 26; Gesänge nach
Gedichten von Friedrich Hölderlin [1943]; Little
Cakewalk [1943]).
[37] «il 24
novembre 1663 Otto von Rilke / [signore] di Langenau / Gränitz
e Ziegra / fu investito a Linda della parte di proprietà di
Linda lasciata in eredità dal fratello Christoph caduto in
Ungheria; dovette però sottoscrivere un atto / che aveva
facoltà di render nulla l’investitura / qualora il
fratello Christoph (che in base al certificato di morte era caduto
col grado di Alfiere nella compagnia del barone von Pirovano
dell’imperial reggimento austriaco a cavallo di
Heyster…) / fosse ritornato».
[38] A tale
proposito si veda BIANCHI, L’Andante della Sonata per
pianoforte n. 5, cit., fig. 1, es. 1.
[39] MARTIN, Schönberg et nous, cit., p.
111.
[40] Così lo
indica NORBERT BOLIN, Triumph und Tod des Helden, in
Frank Martin. Das kompositorische Werk (III), hrsg. von
Dietrich Kamper, Mainz, Schott, 1993, pp. 37-58: 45.
[41]
«Scavalcano un contadino trucidato. Ha gli occhi sbarrati e
qualcosa vi si rispecchia; non è il cielo.» (nella
traduzione di Maria Teresa Ferrari il verbo reiten über
è reso con ‘oltrepassano’).
[42] «Non dover
esser sempre soldati. Per una volta almeno portare i riccioli
sciolti e il colletto largo e sedere in poltrone rivestite di seta
e sentirsi in ogni parte del corpo come dopo un bagno».
[43]
«Scavalcano un contadino trucidato. Ha gli occhi sbarrati e
qualcosa vi si rispecchia; non è il cielo. Cani ululano,
più tardi. Un villaggio dunque finalmente. E sopra le casupole
s’innalza un castello, di pietra. Il ponte si tende verso di
loro, largo. Il portone ingigantisce. Dall’alto dà il
benvenuto il corno. Ascolta: strepitio, cigolio e abbaiar di cani!
Nitriti nel cortile, calpestio di zoccoli e richiamo».
[44] «La
primavera successiva (giunse fredda e triste) un corriere del
barone von Pirovano fece il suo ingresso a cavallo a Langenau,
lentamente. Lì vide piangere una vecchia».
[45] CAVALOTTI,
Frank Martin e la dodecafonia, cit., es. 10. La coerenza
seriale dell’incipit di questo brano si trova argomentata
anche in SEEDORF, «Porträt der literarischen
Form», cit., p. 263. In simili casi, più che
di una dodecafonia orientata in senso tonale, o
‘poliarmonico’, sarebbe opportuno, al contrario,
parlare di una tonalità ‘poliarmonica’ orientata
in senso seriale.
[46] «La
compagnia è oltre il Raab. Quel di Langenau vi cavalca, solo.
Pianura. Sera. Le borchie della sella splendono tra la nube di
polvere. E poi sale la luna. Lo vede dalle proprie mani. / Sogna /
Ma ecco che un grido gli si leva contro. / Un grido, un grido, /
gli lacera il sogno. / Non è una civetta. Misericordia: /
l’unico albero / grida contro di lui: / uomo! / E lui guarda:
qualcosa si tende lungo il tronco. Un corpo e una giovane donna, /
sanguinante e nuda, / lo investe: liberami! / E lui salta giù
nell’erba nera / e taglia le corde cocenti: / e vede lo
sguardo di lei ardere / e i denti mordere. / Ride? / Inorridisce. /
Ed è già in sella / e si lancia nella notte. Lacci
insanguinati stretti in pugno».
[47]
L’aderenza fra testo e musica che si verifica in Der
Schrei richiama con forza quanto dichiarato da Martin a
proposito del modo in cui nel suo Cornet la musica si
rapporta ai versi di Rilke: «Que dire de la musique, sinon que
j’ai cherché, pour chaque tableau, une forme musicale
aussi adéquate que possible à sa forme littéraire,
que j’ai cherché aussi conserver le caractére
propre à chaque fragment, qu’il soit simple récit,
description, explosion lyrique ou approfondissement tout
intérieur des sentiments. En bref, j’ai
tenté de rester aussi fidèle qu’il
m’était possible à ce texte, aussi fidèle que
me le dictait ma profonde admiration.» (MARTIN, Le
Cornette (1942-1943), cit., p. 50).
[48] CAVALOTTI,
Frank Martin e la dodecafonia, cit.
[49] Il carattere
‘misto’ della dodecafonia di Dallapiccola risiede anche
nelle possibilità lineari e armoniche offerte da collezioni
ottatoniche. Si veda MICHAEL ECKERT,
Octatonic elements in the Music of Luigi Dallapiccola,
«The Music Review», XLVI/1, 1985, pp. 35-48). Fra
le composizioni scritte negli anni Quaranta tali potenzialità
sono sfruttate, ad esempio, nell’opera Il
prigioniero.
[50] In particolare
nell’articolo Wagners «Tristan» und die
«Zwölftönemusik»" («Die Musik»,
XXVIII/10, 1935, pp. 727-731) Klenau aveva parlato di
«dodecafonia tonale» (Tonartbestimmte
Zwölftonmusik) a proposito della sua opera Michael
Kohlhaas, illustrando come le note di una serie dodecafonica,
se opportunamente disposte, possano essere ricondotte a scale
maggiori e minori di tonalità diverse (Ibid., p.
732).
[51] La permanenza
di residui tonali nelle ultime composizioni di Schönberg
è talmente evidente che, oltre ad essere al giorno
d’oggi argomentata da un vasto panorama di studi, non
sfuggì nemmeno ai contemporanei di quel periodo. Infatti,
già subito dopo la scomparsa del compositore apparvero a tale
riguardo due articoli su «The Score» VI, 1952: PIERRE
BOULEZ, Schönberg is dead (pp. 18-22) e ROBERTO
GERHARD, Tonality in Twelve-note Music (pp. 23-35). In
particolare Boulez, al di là dei noti toni sprezzanti che
accompagnavano la sua analisi, rimarcava con efficacia
l’interazione fra tradizione e modernità nella
dodecafonia di queste composizioni: «Ma cosa pensare del
periodo americano di Schönberg […]? Come potremo
giudicare […] questa rivalutazione di funzioni polarizzanti e
persino di funzioni tonali? Il rigore nella struttura viene allora
abbandonato. Vediamo risorgere gli intervalli di ottava, le false
cadenze, i canoni esatti all’ottava […]. Si sarebbe
dunque arrivati a una nuova metodologia musicale soltanto per
ricomporre l’antica?» (riportato in BOULEZ, Note di
apprendistato, a cura di Paule Thévenin, Torino, Einaudi,
1968, pp. 233-239 [Schönberg è morto]: 237).
[52] SCHÖNBERG,
My Evolution, «The Musical Quarterly», XXXVIII/4,
1952, pp. 517-527 (prima versione in «Nuestra Musica»,
1949), riportato in SCHÖNBERG, Analisi e pratica
musicale, cit., La mia evoluzione, pp. 318-331: 331.
[53] «Indem er
[Schönberg] zunächst alle Bade der musikalischen Sippe
löste, nach dem revolutionären Prinzip: "Alle Töne
werden Brüder", sah er alsbald die Gefahr der Anarchie in
dieser Tongemeinschaft lauern, welche zur "Urhorde"
zurückführen konnte. Er bannte diese Gefahr durch ein
großes Tabu, das Zwölftonsystem. Andere Gesetze fehlten
der jungen Tongemeinschaft. Ob ihre Neuordnung, ob die "lex –
Zwölfton" die Basis zu einem gewaltigen Staatengebilde gelegt
hat oder ob bloß eine provisorische Regierung geschaffen
wurde, läßt sich schon deswegen nicht voraussagen, weil
Schönberg selbst eine neue Tonalität – im weitesten
Sinne – erwartet, deren Wesen uns unbekannt ist.»
(ULLMANN, Alban Berg, cit., p. 50. Questo passo
dell’articolo è riportato anche nella prefazione
all’edizione Schott delle Sonate per pianoforte di
Ullmann curata da Konrad Richter, vol. I, 1999, nota 2).
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