CAVALLOTTI, Frank Martin e la dodecafonia :: Philomusica on-line :: Rivista di musicologia dell'Università di Pavia

 

Contributo di Pietro Cavallotti

 

Frank Martin e la dodecafonia

 

 

Nella letteratura specialistica il rapporto di Frank Martin con la dodecafonia è stato oggetto di interpretazioni riduttive se non addirittura forvianti. Autore strettamente legato alla tradizione, strenuo difensore del linguaggio armonico tonale (per parafrasare il titolo di un suo importante saggio),[1] compositore di punta in una città, Ginevra, che aveva in Ernest Ansermet un fiero oppositore delle tendenze musicali coeve più radicali, la sua (parziale) adozione del metodo dodecafonico è stata spesso sottovalutata, quando non volutamente relegata a una sorta di incidente di percorso. Rudolf Klein, nella sua monografia del 1960, risolve la questione in un capitoletto di cinque pagine intitolato «Das Zwölfton-Zwischenspiel», in cui narra la sfida di Martin al «diabolus in musica»;[2] titoli analoghi si ritrovano sovente nei lavori successivi di altri autori, fino all’«intermède dodécaphonique» di Alain Perroux (2001).[3] Persino Bernhard Billeter, a cui dobbiamo alcuni tra gli studi più approfonditi sul compositore svizzero, usa toni quasi sarcastici nel descrivere compiaciuto le eccezioni di Martin al metodo di Arnold Schönberg.[4] Infine, la voce di Laurenz Lütteken nella nuova edizione di Die Musik in Geschichte und Gegenwart non menziona neppure la parola dodecafonia. Eppure non era certamente un mistero per nessuno di questi autori che tracce di un ricorso, seppur parziale, a metodi dodecafonici non sono affatto limitate a poche opere composte in un periodo determinato; al contrario si trovano esempi anche nell’ultima fase di produzione del compositore.

Non è possibile documentare con precisione le modalità e i tempi dell’incontro di Martin con la dodecafonia. Il dato certo è che Martin appartiene a quella folta schiera di compositori che, a partire dagli anni Trenta, si sono accostati da autodidatti al "metodo di comporre con dodici note in rapporto soltanto l’una con l’altra", senza entrare in contatto diretto con Schönberg o con i suoi allievi. Alcune circostanze che probabilmente hanno favorito il primo approccio di Martin alla dodecafonia sono già state evidenziate da Ulrich Mosch[5] e varrà qui la pena riassumerle: nella stagione concertistica 1932-1933 l’Orchestra della Suisse Romande diretta da Ernest Ansermet eseguì la Lyrische Suite (nella rielaborazione per orchestra) e frammenti dal Wozzek di Alban Berg; sempre a Ginevra si tennero nel 1934 e nel 1935 due concerti del Kolisch Quartett con in programma composizioni – dodecafoniche e non – della scuola di Vienna. Non si esclude quindi la possibilità che Martin abbia avuto modo di discutere su questioni tecniche con Rudolf Kolisch, cognato e prima ancora allievo di Schönberg, che conosceva nei dettagli i princìpi del metodo dodecafonico. Mosch rileva inoltre come nel lascito del compositore svizzero, conservato alla Fondazione Paul Sacher di Basilea,[6] sia presente una partitura annotata dei Cinque pezzi per pianoforte op. 23 di Schönberg. Anche se non è possibile datare con certezza gli interventi analitici di Martin, mirati ad evidenziare la successione delle altezze dei brani numerando da 1 a 12 le singole note, questa partitura testimonia il suo approccio da autodidatta, in quanto il compositore tenta un’analisi dodecafonica di tutti i brani (lasciandola inevitabilmente incompleta) senza sapere che in realtà soltanto l’ultimo pezzo è stato composto a partire da una serie di dodici note.

Al di là di ogni possibile supposizione, è un dato di fatto che il compositore inizia a cimentarsi con il metodo dodecafonico intorno al 1933 – con i 4 Brevi pezzi per chitarra e il primo Concerto per pianoforte – e continua a sperimentare nuove soluzioni almeno fino al 1937, anno di composizione della Sinfonia per grande orchestra (lavoro definito da Klein come «ein letzter Rückfall in die extreme, dissonanzenfreudige Art der radikalen Zwölftontechnik»).[7] È doveroso puntualizzare che in tutti questi casi parlare di composizioni dodecafoniche in senso stretto sarebbe completamente fuorviante, dal momento che nella musica di Martin l’impiego della serie non è mai esclusivo.

I 4 Brevi pezzi per chitarra furono composti nel 1933 per Andres Segovia, dal quale però non furono mai eseguiti. Nello stesso anno Martin ne fece una trascrizione per pianoforte con il titolo Guitare: quatre pièces brèves puor piano e una versione orchestrale su impulso di Ansermet – che diresse la prima esecuzione nel novembre del 1934. Il lavoro, come si è visto, viene solitamente indicato come il primo approccio di Martin al metodo dodecafonico. In realtà si tratta di brani basati su un impianto tonale che tende a dissolversi nel cromatismo. Nei primi tre brani non compare infatti alcuna successione che possa essere legittimamente considerata una serie dodecafonica. In diversi momenti Martin mira evidentemente a esaurire il totale cromatico nell’arco di due o tre battute, ma le ripetizioni di altezze sono troppo numerose per far pensare che alla base ci sia l’impiego di una o più serie. In due occasioni – si confrontino le ultime nove battute di Prelude e le ultime cinque battute di Plainte – il compositore insiste su una stessa successione di intervalli, ripetendola e trasponendola, ma si tratta in ogni caso di una successione troppo breve (sei intervalli) per dare origine a una vera e propria serie dodecafonica. In generale, si può sostenere che in questi primi tre brani Martin accentui il cromatismo melodico (in un contesto comunque tonale) fino ad impiegare le dodici note pur senza ricorrere a una costruzione seriale. Leggermente diverso è il caso dell’ultimo pezzo, Comme une Gigue, dove invece è possibile individuare una serie dodecafonica, anche se il suo impiego è ben distante dall’ortodossia del metodo di Schönberg. L’esempio 1 riporta le prime due pagine della partitura nelle versione per pianoforte:

 

Esempio 1 - prima parte

Esempio 1 - seconda parte

Esempio 1. FRANK MARTIN, Guitare: quatre pièces brèves puor piano, Universal Edition 1976, pp. 8-9

 

 

Esempio 2

Esempio 2. Analisi delle altezze, bb. 1-9[8]

 

 

Nelle prime 5 battute, a partire dal si ribattuto iniziale, inizia una prima successione di dodici note fino al fadiesis (mano sinistra, batt. 4), a sua volta nota iniziale di una seconda successione dodecafonica che si estende fino al soldiesis di batt. 5. Per quanto le due successioni non siano identiche, è ragionevole pensare che nel secondo caso si tratti di una trasposizione di quinta della prima serie in cui tre note vengono spostate di posizione (cfr. Esempio 2). A battuta 6 si ripresenta il si ribattuto, punto di partenza di una nuova trasformazione della serie iniziale, in cui alcune altezze vengono omesse, altre vengono trasposte di un semitono. In questo caso, le variazioni sulla serie di partenza sono tali da snaturarne completamente la natura dodecafonica, dando origine a diverse ripetizioni e a una semplificazione della successione intervallare che e nelle bb. 11-16 risulta condensata nel solo intervallo di seconda (minore o maggiore). Tuttavia, la supposizione che la successione dodecafonica iniziale possa veramente essere considerata come serie principale del brano, trova conferma nella sua esatta ripetizione nelle bb.17-19 nella sua forma originale O11 (seguita poi da ulteriori trasformazioni), e soprattutto nella disposizione delle altezze delle bb. 26-33, identica a quella iniziale, ma trasposta una quarta sopra.

Pur nel limitato e irregolare impiego della serie, questo brano mostra già alcuni tratti tipici della dodecafonia di Frank Martin, e cioè la tendenza a usare la serie soltanto nella dimensione orizzontale e tendenzialmente in isoritmia. Entrambe le caratteristiche permangono nel successivo primo Concerto per pianoforte (1933/1934), una composizione che rivela un uso ben più ampio di mezzi dodecafonici.

Il primo movimento si apre con una lunga introduzione (bb. 1-26) basata su un’ampia melodia molto cantabile del flauto su un pedale di mi, che – stando al racconto di Bernhard Billeter – era stata scritta di getto qualche tempo prima in una circostanza particolare:[9] essendo membro di una commissione della Schweizerische Tonkünstlerverein preposta ad assegnare borse di studio a giovani musicisti, Martin abbozzò questa linea melodica che i candidati avrebbero poi letto a prima vista. In seguito, durante la stesura del Concerto, il compositore ritrovò casualmente il pentagramma con la melodia e decise di riutilizzarla. Non si tratta in nessun caso di una melodia dodecafonica; al contrario, nonostante una certa tendenza al cromatismo, è una linea chiaramente riferibile alla tonalità di Mi minore, tonalità d’impianto del primo movimento del Concerto. Dopo l’introduzione, alla cifra 2, i legni presentano il primo tema (anch’esso chiaramente tonale), mentre il pedale sul mi si trasforma in un ostinato isoritmico dodecafonico sostenuto dagli archi:

 

 

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Esempio 3. FRANK MARTIN, Ier Concerto pour piano et orchestre, Universal Edition 1977, pp. 6-7 (il file si apre in una nuova finestra)

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Esempio 4. FRANK MARTIN, Ier Concerto pour piano et orchestre, Universal Edition 1977, pp. 12-13

 

 

Esempio 5

Esempio 5. Serie del primo movimento e analisi delle altezze nelle prime battute dell’ostinato

 

 

L’ostinato prosegue senza soluzione di continuità fino all’ingresso del pianoforte solista alla cifra 5 e viene ripreso da quest’ultimo con valori ritmici dimezzati; la serie su cui si basa il passaggio iniziale del solista presenta caratteristiche interessanti, evidenziate nell’esempio 5: innanzitutto va rilevata la sua forte connotazione tonale, evidente soprattutto nell’accordo di settima minore sul do (secondo tetracordo) e nella triade di Re minore (con l’aggiunta del Soldiesis, terzo tetracordo), mentre il primo tetracordo è caratterizzato da due intervalli di quarta ascendente, il primo di quali (si-mi) tende evidentemente a ribadire la tonalità d’impianto. A partire da questa serie Martin costruisce una lunga successione che si ripete identica sia a cifra 2 (Esempio 3) sia a cifra 5 (Esempio 4) in entrambi i casi con un canone all’ottava separato da una sola unità ritmica. Se analizzato da un punto di vista dodecafonico, l’ostinato rivela caratteristiche particolari. Innanzitutto, dopo l’esposizione della serie di partenza (O11), viene ripetuto il tetracordo iniziale, che sembra svolgere due funzioni: da un lato funge da ponte creando un solido legame con la forma seriale successiva (O1), avendo in comune le note dodiesis-fadiesis, dall’altro svela una caratteristica delle serie che si evidenzia soltanto grazie alla ripetizione delle prime due note. Infatti, come mostra l’esempio 5 (primo pentagramma), se alla serie vengono fatte seguire le sue prime due note, si genera una struttura a specchio (la successione intervallare si ripete in retrogrado) con asse di simmetria tra la settima e l’ottava nota. Il successivo ritorno a O11 viene effettuato sfruttando ancora le sue note comuni con O1 (si-mi), in seguito la struttura seriale inizia a diventare irregolare, secondo procedimenti (l’interpolazione e l’esclusione di note) assolutamente tipici del comporre dodecafonico di Martin anche negli anni a venire. Il successivo trattamento dell’ostinato può essere interpretato nel modo seguente: O11 procede regolarmente fino all’undicesima nota, la dodicesima è abbassata di un tono (sidiesis al posto di re). Questa eccezione permette a Martin di sfruttare il terzo tetracordo di O3 (la-do-dodiesis-fadiesis) come nuovo ponte verso O1. Seguono una forma variata e difettiva di O1 (la quinta e l’ottava nota sono abbassate di un tono) e di O11 (con anticipazione del fa tra la seconda e la terza nota nonché omissione della sesta, settima e dodicesima nota). Il tetracordo sol-do-re-mibemolle potrebbe essere anche ricondotto all’inizio della forma seriale O1 difettiva della terza nota (la).

Accanto ad altre costruzioni motivico-tematiche non dodecafoniche, l’ostinato viene ripetuto più volte anche nel prosieguo, sostenuto soprattutto da violoncelli e contrabbassi, e svolge dunque un ruolo fondamentale nell’intero movimento. In alcuni casi ritorna alla voce solista, o passa agli strumenti a fiato, mantenendo sempre il suo andamento a canone isortimico, a volte anche con valori raddoppiati (cfr. per esempio cifra 12). La successione di altezze mostrata in precedenza, con la sua alternanza tra momenti in cui la serie viene esposta nella sua totalità e altri in cui essa viene fortemente modificata, è esemplare anche per gli svolgimenti successivi. La serie dodecafonica non ha invece alcuna influenza nella costruzione armonica del movimento. Estendendo il discorso all’intera composizione, va rilevata l’assoluta assenza di serie dodecafoniche nel secondo movimento, mentre nel terzo l’esordio del solista (cifra 4) presenta inizialmente un andamento isoritmico (ottavi in terzina) basato sulla stessa serie del primo movimento, ripreso successivamente, con notevoli modifiche, nella seconda metà del brano (cifra 15). Osservando dunque l’operare di Martin in questa prima composizione in cui il ricorso a mezzi dodecafonici oltrepassa lo sporadico utilizzo di successioni seriali e arriva a informare il decorso del brano, si possono riassumere le seguenti caratteristiche: la serie svolge una funzione tematica; per quanto ampiamente sfruttata, limita la propria azione alla dimensione orizzontale e ha un influsso solo indiretto sull’armonia del brano, che rimane sostanzialmente tonale. A criteri tonali rispondono tutti gli altri temi della composizione; la successione intervallare della serie stessa contiene al suo interno triadi perfette e una predominanza di intervalli consonanti. Martin ricorre ad alcune trasposizioni della serie, ma evita l’impiego delle sue forme derivate (inversione e retrogradazione) per facilitare il più possibile il riconoscimento della sua successione intervallare e quindi accentuarne la valenza tematica. Alla stessa esigenza sembra rispondere anche l’andamento isoritmico, la tendenza a mantenere fissa la direzione ascendente o discendente degli intervalli e ad assegnare più volte la serie allo stesso strumento, garantendo quindi uniformità timbrica. Dopo alcune ripetizioni e trasposizioni esatte, Martin opera alcune variazioni che arrivano a mutare la natura della serie, rivelando così un atteggiamento per nulla rigoroso nei confronti della regola autoimposta. La struttura simmetrica della serie, che potrebbe sembrare a prima vista quasi weberniana, viene sfruttata soltanto localmente, per garantire solidi legami nel passaggio a una successiva trasposizione, ma certamente non ha alcun influsso su altri aspetti del brano e sulla sua disposizione formale.

Tra questo approccio alla dodecafonia e il metodo di Schönberg sussistono dunque differenze decisive, tra le quali due appaiono particolarmente significative: la serie dodecafonica nella musica di Martin non è la Grundgestalt del brano e non comporta il passaggio a un contesto atonale. Le istanze che hanno condotto il compositore viennese alla formulazione del suo metodo per uscire dalle aporie dell’atonalità, cioè la necessità di stipulare un nuovo criterio per garantire l’esistenza di nessi logici nella rappresentazione del proprio pensiero musicale in sostituzione del linguaggio tonale, sono totalmente estranei alla poetica di Martin, per il quale invece la tonalità può essere sì integrata ma non sostituita. Come è già stato ampiamente evidenziato e tematizzato nella letteratura sul compositore svizzero, soprattutto da Klein e Billeter e prima ancora da Roman Vlad,[10] l’impiego tematico, limitato alla dimensione orizzontale della serie dodecafonica rappresenta per Martin un arricchimento del proprio linguaggio musicale senza minarne le fondamenta. Nel suo saggio Schönberg et nous del 1947,[11] lo stesso compositore sottolinea questo aspetto in alcuni passi, spesso citati:

Il est […] merveilleusement fécond d’écrire en se conformant à une règle stricte, si arbitraire soit-elle, mais à la condition de satisfaire en même temps aux exigences les plus sévères de sa propre sensibilité musicale. C’est ainsi que le règles établies par Schönberg peuvent enrichir notre écriture musicale en rendant notre sensibilité plus aiguë.

Le commerce avec les séries va donc nous apprendre à penser et à écrire dans une langue nouvelle, que chacun devra constituer pour lui-même. Et la première chose que nous y apprendrons, c’est à concevoir des mélodies extrêmement riches, puisqu’elles doivent emprunter les douze notes de la gamme chromatique avant de redire la première. La recherche de semblables mélodies nous entraîne hors des chemins battus de la mélodie tonale ou modale et nous rend extraordinairement sensible au retour de la mélodie sur elle même ; ce n’est plus qu’en pleine conscience de sa nécessité que l’on admet alors semblable retour, avec le sentiment de violer une règle fondamentale dans un but esthétique bien défini.[12]
 

Se dunque la dodecafonia può rappresentare un arricchimento, la condizione indispensabile per l’adozione del metodo risiede secondo Martin nella capacità di evitare un impiego dogmatico, quindi nel suo utilizzo parziale. Il compositore svizzero rifiuta le premesse teoriche di Schönberg, la convinzione che tra consonanza e dissonanza non esista un’opposizione ma soltanto una differenza di grado: le dissonanze sono semplicemente più difficili da comprendere per l’orecchio (perché più distanti dalla fondamentale nella successione degli armonici) ma non per questo meno giustificate in natura.[13] Egli evita di seguire Schönberg sul terreno dell’atonalità, ravvede anzi nella dodecafonia un pericolo, proprio perché permette a chi ne fa uso di stabilire gerarchie eludendo il sistema tonale. Gerarchie che a suo parere sono di fatto illusorie perché non riconoscibili all’ascolto. Su questo aspetto Martin si pronuncia in diverse occasioni, da ultimo in un saggio del 1974:

C’est là un ordre, introduit dans l’anarchie de l’atonalisme, qui guide le compositeur dans son travail. Mais est-ce un ordre qui puisse être perçu par un auditeur? Certainement pas. En tout cas le renversement et la récurrence rendent impossible de reconnaître le série par l’oreille. Ainsi je suis convaincu que pour notre sens musical, l’écriture sérielle ne peut pas, par elle-même, donner de l’unité à une œuvre. Y aurait-il une unité que notre raison ne connaît pas?[14]

Porterebbe troppo lontano soffermarsi sulla legittimità di questa critica – che ha certamente la sua ragion d’essere ma andrebbe approfondita adeguatamente. Vale invece la pena sottolineare ancora le sue conseguenze per le modalità d’impiego della dodecafonia nel comporre di Martin. Se da un alto le frasi citate confermano i risultati delle analisi precedenti (motivando per esempio la già riscontrata rinuncia all’uso di forme in inversione e retrogrado della serie), offrono dall’altro interessanti spunti teorici per affrontare ulteriori aspetti, spesso trascurati negli studi sul compositore svizzero. Sarebbe infatti fuorviante leggere le asserzioni come una conferma di un impiego della serie esclusivamente limitato alla dimensione orizzontale. Sebbene in modo meno appariscente, Martin estende talvolta il raggio d’azione della serie anche alla dimensione verticale, seguendo modalità, come vedremo, per nulla in contraddizione con le sue dichiarazioni programmatiche. A questo proposito, interessanti elementi possono essere rintracciati in due composizioni molto differenti, il Trio per archi e Der Cornet.

Il Trio pour violon, alto et violoncello venne composto nel 1936, quindi ancora all’epoca dell’«intermezzo dodecafonico». Indubbiamente, rispetto alle opere osservate finora, si tratta di una composizione che all’ascolto risulta più dissonante; forse è il brano di Martin in cui l’impiego del metodo dodecafonico si avvicina maggiormente ai dettami di Schönberg, in virtù di un uso quasi esclusivo della serie, ma per questo non più rigoroso. In diverse sezioni, anche piuttosto ampie, di tutti e tre i movimenti, Martin ricorre soltanto al materiale dodecafonico, pur con numerose mutazioni. A tratti, quindi, la serie acquista quella funzione di Grundgestalt del brano che non era assolutamente riscontrabile nelle composizioni esaminate in precedenza. Ancora una volta, però, il metodo dodecafonico non impedisce a Martin di mantenere forti legami con il linguaggio tonale. Questi vengono come sempre garantiti dalla successione intervallare stessa della serie dodecafonica, costruita con una netta predominanza degli intervalli di quarta e quinta giusta nonché di triadi tonali (cfr. Esempio 6).

 

Esempio 6

Esempio 6. Serie del primo movimento e quadrato seriale.

 

 

Il primo tetracordo è formato di fatto da un accordo di settima maggiore; le note dall’ottava alla decima formano una triade maggiore, mentre quelle dalla nona all’undicesima una triade minore. Nell’esempio 6 viene riprodotto il quadrato della serie.[15] È necessario sottolineare che la struttura simmetrica del primo tetracordo (ic: -5, +1, -5) comporta ovviamente un’equivalenza tetracordale tra forme seriali in originale e in inversione – per esempio, il primo tetracordo di O1 (pc: 1, 8, 9, 4) equivale all’ultimo di RI11.

Esempio 7

Esempio 7. FRANK MARTIN, Trio pour violon, alto et violoncello, Universal Edition 1967, p. 1.

 

 

Le prime dodici battute del primo movimento (cfr. Esempio 7) offrono già numerosi elementi degni di nota: al violoncello è affidato il solito ostinato isoritmico mentre violino e viola si spartiscono lenti accordi in minime. La linea del violoncello presenta inizialmente una costruzione dodecafonica abbastanza regolare, esponendo dapprima la serie O1 senza eccezioni, seguita dal primo tetracordo di O4 e dagli ultimi due di O5. In pratica è una ripetizione trasposta della serie iniziale leggermente modificata: il primo tetracordo viene ripetuto a una distanza di terza minore, gli ultimi due a una distanza di terza maggiore. A battuta 7 inizia uno svolgimento più libero, sottolineato anche dalla variazione ritmica: le prime cinque note, fino al fadiesis, appartengono a O8, mentre la successione successiva è chiaramente ascrivibile a una forma della serie in inversione, ovvero I11 (ultimi due tetracordi), nonostante l’omissione di do e re e la ripartizione del fadiesis. O8 e I11 sono imparentate dalla relazione tetracordale osservata sopra, ovvero il primo tetracordo di O8 equivale al primo di I11 in retrogrado. Dopo un passaggio cromatico svincolato dalla serie dodecafonica, compare ancora un frammento di R4 a battuta 12 che conduce a una ripetizione dell’intera disposizione fin qui analizzata. Martin ricorre dunque in questo caso a estratti delle forme in inversione e in retrogrado, ma soltanto nei passaggi più liberi, quando la serie tende a dissolversi e, anche se in modo molto limitato, sfrutta persino le corrispondenze tra più forme seriali – ovvero le cosiddette invarianti, che svolgono un ruolo strutturale determinante nel comporre dodecafonico di Schönberg a partire dalle Variazioni per orchestra op. 31. Agli altri due strumenti è invece affidata una sorta di progressione cromatica, costruita anch’essa a partire dalle caratteristiche della serie. Il primo accordo di ogni battuta è sempre un accordo di settima maggiore (ovvero il primo tetracordo della serie), che si trasforma in una settima di sensibile con spostamento cromatico discendente delle tre note inferiori (per es. bb. 1 e 2) oppure viene trasposto di tono (per es. bb. 3 e 6). Nel dettaglio, a battuta 1 compare un accordo di settima maggiore sul sol (primo tetracordo di O11) che diventa settima di sensibile e conduce a battuta 2 al Labemolle maggiore (O0), seguito dalla sua settima di sensibile. A battuta 3 risuona l’accordo di settima maggiore in La maggiore (O1) seguito dal Sibemolle maggiore (O3) e dal Si maggiore a battuta 4 (O2) ecc. In queste prime battute – ma il discorso può essere esteso a tutto il movimento – il compositore adatta quindi il metodo dodecafonico alle proprie esigenze espressive, sfrutta la serie per creare delle successioni di accordi che, seppur privi di una chiara funzione, mantengono uno stretto legame con la tradizione del linguaggio tonale.

Un impiego simile, per alcuni aspetti ancora più caratteristico del comporre di Martin, è rintracciabile in Der Schrei , l’ottavo Lied del ciclo Der Cornet (ovvero Die Weise von Liebe und Tod des Cornets Christoph Rilke ) per contralto e orchestra, composto nel 1942/1943. Il Lied si apre con tre accordi in andamento cromatico discendente (Mibemolle minore in primo rivolto, Fa maggiore, Mi maggiore), accompagnati da una linea di basso – al violoncello e al contrabbasso – che sembra avulsa dal contesto armonico delle voci superiori e che conclude con un unisono sul sol (cfr. Esempio 8):

 

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Esempio 8. FRANK MARTIN, Der Schrei, da: Die Weise von Liebe und Tod des Cormets Christoph Rilke, Musikproduktion Höflich, 2004, pp. 98-99

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Esempio 9. FRANK MARTIN, Der Schrei, da: Universal Edition 1977, pp. 100-101

 

Questo è uno di quei passaggi abbastanza frequenti nella musica di Martin, in cui si potrebbe supporre che l’esaurimento del totale cromatico, così come avviene a battuta 1, sia accidentale o comunque sia stato ottenuto liberamente, senza ricorso a una serie dodecafonica. Come nel caso della successione di settime maggiori nel Trio, le tre triadi perfette sembrano rispondere a criteri affatto diversi da quelli seriali. In questo caso, però, viene in aiuto uno schizzo del compositore, rinvenuto tra i materiali preparatori del Concerto per violoncello e orchestra (1965/1966), che riproduco in trascrizione diplomatica nell’esempio 10.

 

esempio 10


Esempio 10
. Trascrizione di uno schizzo riferito all’organizzazione delle altezze in Der Schrei.

[N.B.: in questo caso i numeri arabi indicano il numero progressivo di ogni nota nella serie (prima, seconda ecc.) e non la loro classe d’altezza. Si è preferito non intervenire con modifiche nella trascrizione, nonostante il sistema di numerazione di Martin nello schizzo possa generare confusione rispetto a quello adottato negli esempi precedenti].

 

Lo schizzo offre una chiara conferma di come anche le triadi perfette iniziali siano il risultato di operazioni condotte secondo criteri dodecafonici. Nel primo sistema il compositore scrive la serie (O7) su cui si basa il solito procedimento dodecafonico e isoritmico a partire dalla cifra 1 (cfr. esempio 9: in queste due pagine di partitura la dodicesima nota della serie (re) è presente sottoforma di pedale di basso; O7 viene ripetuta tre volte con trasposizione d’ottava, seguita da O8 e O10, mentre l’andamento della voce solista è indipendente dalla disposizione seriale). Successivamente il compositore ripete la successione seriale, suddividendola in tre tetracordi, ed estrapola nel sistema sottostante le triadi perfette (Sol minore, La maggiore, Labemolle maggiore) contenute in ogni tetracordo. La voce armonicamente avulsa del basso viene infine a determinarsi con le tre note rimanenti: la seconda, la sesta e la dodicesima. Con leggere modifiche ritmiche, le prime due battute del Lied non sono altro che una trasposizione una terza maggiore sotto (O3) di questa successione, seguita a ruota da un’altra trasposizione a una seconda maggiore di distanza (O5, bb. 3-4).

A completamento di questa panoramica vanno ancora quantomeno menzionate altre importanti composizioni, di molto successive, come per esempio il Concerto per violino del 1950/1951 o il Concerto per violoncello del 1965/1966. Nel primo caso, la fortunata situazione delle fonti autografe conservate, che – come avviene molto raramente nel caso di Martin – documentano copiosamente anche le prime fasi del processo compositivo, ha consentito ad André Baltensperger un’analisi molto approfondita della composizione, che evidenzia anche la centralità di diverse disposizioni dodecafoniche nelle fasi precompositive del lavoro.[16] Purtroppo la situazione delle fonti nel caso del Concerto per violoncello non è altrettanto positiva, anche se alcuni schizzi conservati, di difficile interpretazione, lascerebbero presupporre che anche linee tematiche non dodecafoniche fossero a volte originate a partire da trasformazioni operate su un materiale seriale. In questa sede non verranno analizzati i temi dodecafonici presenti in tutti e tre i movimenti del concerto, in quanto non presentano caratteristiche diverse da quelle osservate finora.

In conclusione, vale forse la pena osservare brevemente le caratteristiche della dodecafonia di Martin in un contesto più generale. Sicuramente nessuna innovazione nell’ambito della tecnica compositiva ha avuto nel Novecento un influsso maggiore su contemporanei e generazioni successive del metodo ideato da Schönberg. I motivi del suo notevole successo vanno cercati nella sua estrema praticità. È risaputo che Schönberg non fu né il primo né l’unico a cercare nell’esaurimento del totale cromatico una soluzione ai problemi compositivi insorti ai primi del Novecento. Ma altri tentativi, come per esempio quello di Josef Mathias Hauer ebbero un impatto praticamente nullo a causa della loro scarsa applicabilità. Con il suo "metodo di comporre con dodici note in rapporto soltanto l’una con l’altra" Schönberg ha ideato una tecnica estremamente pratica, di facile adozione soprattutto se non impiegata in modo esclusivo (che, tra l’altro, dopo il 1933 assunse anche connotati rilevanti politicamente di resistenza al Nazionalsocialismo). È anche vero che la ricezione della dodecafonia mostra in ogni compositore tratti assolutamente diversi; è sufficiente confrontare, per fare un esempio, il Concerto per violino di Alban Berg e qualsiasi composizione dodecafonica di Anton Webern. Può sembrare paradossale, ma di fatto il metodo dodecafonico è anche estremamente malleabile. Se si escludono Webern, Ernst Křenek e naturalmente lo stesso Schönberg, è difficile trovare compositori che negli anni Trenta e Quaranta abbiano adottato il metodo dodecafonico sfruttandone appieno e con rigore le sue potenzialità strutturanti. Hanns Eisler e Paul Dessau ne fanno un uso molto più limitato, nel senso che operano delle scelte per circoscrivere il materiale utilizzabile. Wladimir Vogel e Luigi Dallapiccola non rinunciano e inserire elementi dodecafonici in contesti tonali, a volte seguendo procedimenti abbastanza simili a quelli di Martin. Stephan Wolpe inizia già verso la metà degli anni Trenta a derivare dalla serie, operando varie trasformazioni in sede precompositiva, un repertorio di altezze o intervalli poi effettivamente utilizzati nella composizione, inaugurando una tendenza che sarà poi tipica della ricezione della dodecafonia negli Stati Uniti e in Italia (ad esempio in Bruno Maderna e Luigi Nono).

Dal metodo ideato da Schönberg è scaturito negli anni Trenta e Quaranta un autentico ‘pensiero dodecafonico’, cioè una propensione condivisa da molti compositori a cercare nell’esaurimento del totale cromatico regolato da una serie una possibile soluzione a determinati problemi compositivi oppure un arricchimento del proprio linguaggio musicale. Pur nel suo impiego parziale dei procedimenti dodecafonici, Martin ha preso a parte a pieno titolo a questo processo. D’altronde, come lo stesso compositore aveva lucidamente espresso in un saggio del 1947, «Cette technique parlera alors une autre langue que celle de son initiateur, chacun la façonnera selon son tempérament».[17]

 

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[Bio] Pietro Cavallotti si è laureato con Gianmario Borio alla Facoltà di Musicologia di Cremona (Università di Pavia) e addottorato nel 2002 alla Humboldt Universität di Berlino con Hermann Danuser. Dal 2006/2007 è docente a contratto alla Humboldt Universität e, dal 2008/2009 all’Universität Basel.

E-mail cavallotti@gmx.net

Pietro Cavallotti, MA in Cremona (University of Pavia), PhD at the Humboldt University of Berlin (2002), is temporary lecturer at the Humboldt University of Berlin (since 2006/2007) and at the University of Basel (since 2008/2009).

[1] FRANK MARTIN, Défense de l’harmonie [1943], in Un compositeur médite sur son art, Ecrits et pensées recueillis par Maria Martin, Neuchâtel, Editions de la Baconnière, 1977, pp. 108-112.

[2] RUDOLF KLEIN, Frank Martin. Sein Leben und Werk, Wien, Verlag Österreichische Musikzeitschrift, 1960, pp. 13-18: 14.

[3] ALAIN PERROUX, Frank Martin ou l’insatiable quête, Genève, Editions Papillon, 2001, pp. 29-36.

[4] FRANK BILLETER, Frank Martin. Werdegang und Musiksprache seiner Werke, Mainz, Schott, 1999, 65-73.

[5] ULRICH MOSCH, Dodekaphonie in der Schweiz, in «Entre Denges et Denezy…». Dokumente zur Schweizer Musikgeschichte 1900-2000, hrsg. von Ulrich Mosch und Matthias Kassel, Mainz, Schott, 2001, pp. 228-243 (ed. it. «Entre Denges et Denezy…». Documenti sulla storia della musica in Svizzera 1900-2000, Lucca, LIM, 2001, pp. 228-243).

[6] Ringrazio in questa sede il responsabile del Fondo Frank Martin alla Fondazione Paul Sacher, Robert Piencikowski, nonché i bibliotecari Henrike Hoffmann e Carlos Chanfón per avermi gentilmente agevolato la visione del materiale autografo del compositore.

[7] KLEIN, Frank Martin, cit., p. 18.

[8] Adottando la terminologia, oggi predominante, sviluppata dalla Set Theory statunitense, in questo e negli esempi successivi, si denominano le classi d’altezze (pc = pitch class ) con numeri dallo 0 (do) all’11 (si) e le classi d’intervalli (ic = interval class ) indicando i numero di semitoni in direzione ascendente (+) o discendente (-). Per semplificazione, gli intervalli superiori al tritono (±6) vengono sempre definiti con l’intervallo complementare.

[9] BILLETER, Frank Martin, cit., pp. 68-69.

[10] Cfr. ROMAN VLAD, Modernità e tradizione nella musica contemporanea, Torino, Einaudi, 1955, pp. 236-249 e ID., Storia della dodecafonia, Milano, Edizioni Suvini Zerboni, 1958, pp. 175-181.

[11] FRANK MARTIN, Schönberg et nous [1947], in Un compositeur médite sur son art, cit., pp. 108-112.

[12] Ibid., pp. 110-111.

[13] Cfr. per esempio ARNOLD SCHÖNBERG, Probleme der Harmonie [1934], in Stile herrschen, Gedanken Siegen. Ausgewählte Schriften, hrsg. von Anna Maria Morazzoni, Mainz, Schott, 2007, pp. 135-150.

[14] FRANK MARTIN, Schönberg et les conséquences de son activité [1974], in Un compositeur médite sur son art, cit., pp. 115-119: 118.

[15] Nel quadrato si leggono da sinistra verso destra le forma seriali in originale (O), da destra verso sinistra quelle in retrogrado (R), dall’alto al basso le forme in inversione (I) e dal basso all’alto quelle in retrogrado dell’inversione (RI). Per convenzione definisco R0 il retrogrado di O0 e RI0 il retrogrado di I0; le forme retrograde vengono quindi denominate in base alla classe d’altezza della loro ultima nota.

[16] ANDRÉ BALTENSPERGER, Fragen des Métiers bei Frank Martin. Untersuchungen zu den Skizzen des Violinkonzerts, in Quellenstudien I. Gustav Mahler, Igor Strawinsky, Anton Webern, Frank Martin, hrsg. von Hans Oesch, Basel, Paul Sacher Stiftung-Winterthur, Amadeus Verlag, 1991, pp. 157-234.

[17] MARTIN, Schönberg et nous, cit., p. 110.

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