Nella letteratura specialistica il rapporto di Frank
Martin con la dodecafonia è stato oggetto di interpretazioni
riduttive se non addirittura forvianti. Autore strettamente legato
alla tradizione, strenuo difensore del linguaggio armonico tonale
(per parafrasare il titolo di un suo importante saggio),[1]
compositore di punta in una città, Ginevra, che aveva in
Ernest Ansermet un fiero oppositore delle tendenze musicali coeve
più radicali, la sua (parziale) adozione del metodo
dodecafonico è stata spesso sottovalutata, quando non
volutamente relegata a una sorta di incidente di percorso. Rudolf
Klein, nella sua monografia del 1960, risolve la questione in un
capitoletto di cinque pagine intitolato «Das
Zwölfton-Zwischenspiel», in cui narra la sfida di Martin
al «diabolus in musica»;[2] titoli analoghi si
ritrovano sovente nei lavori successivi di altri autori, fino
all’«intermède dodécaphonique» di Alain
Perroux (2001).[3] Persino Bernhard Billeter, a cui dobbiamo
alcuni tra gli studi più approfonditi sul compositore
svizzero, usa toni quasi sarcastici nel descrivere compiaciuto le
eccezioni di Martin al metodo di Arnold Schönberg.[4]
Infine, la voce di Laurenz Lütteken nella nuova edizione di
Die Musik in Geschichte und Gegenwart non menziona neppure
la parola dodecafonia. Eppure non era certamente un mistero per
nessuno di questi autori che tracce di un ricorso, seppur parziale,
a metodi dodecafonici non sono affatto limitate a poche opere
composte in un periodo determinato; al contrario si trovano esempi
anche nell’ultima fase di produzione del compositore.
Non è possibile documentare con precisione le
modalità e i tempi dell’incontro di Martin con la
dodecafonia. Il dato certo è che Martin appartiene a quella
folta schiera di compositori che, a partire dagli anni Trenta, si
sono accostati da autodidatti al "metodo di comporre con dodici
note in rapporto soltanto l’una con l’altra", senza
entrare in contatto diretto con Schönberg o con i suoi
allievi. Alcune circostanze che probabilmente hanno favorito il
primo approccio di Martin alla dodecafonia sono già state
evidenziate da Ulrich Mosch[5] e varrà qui la
pena riassumerle: nella stagione concertistica 1932-1933
l’Orchestra della Suisse Romande diretta da Ernest Ansermet
eseguì la Lyrische Suite (nella rielaborazione per
orchestra) e frammenti dal Wozzek di Alban Berg; sempre a
Ginevra si tennero nel 1934 e nel 1935 due concerti del Kolisch
Quartett con in programma composizioni – dodecafoniche e non
– della scuola di Vienna. Non si esclude quindi la
possibilità che Martin abbia avuto modo di discutere su
questioni tecniche con Rudolf Kolisch, cognato e prima ancora
allievo di Schönberg, che conosceva nei dettagli i
princìpi del metodo dodecafonico. Mosch rileva inoltre come
nel lascito del compositore svizzero, conservato alla Fondazione
Paul Sacher di Basilea,[6] sia presente una
partitura annotata dei Cinque pezzi per pianoforte op. 23 di
Schönberg. Anche se non è possibile datare con certezza
gli interventi analitici di Martin, mirati ad evidenziare la
successione delle altezze dei brani numerando da 1 a 12 le singole
note, questa partitura testimonia il suo approccio da autodidatta,
in quanto il compositore tenta un’analisi dodecafonica di
tutti i brani (lasciandola inevitabilmente incompleta) senza sapere
che in realtà soltanto l’ultimo pezzo è stato
composto a partire da una serie di dodici note.
Al di là di ogni possibile supposizione, è
un dato di fatto che il compositore inizia a cimentarsi con il
metodo dodecafonico intorno al 1933 – con i 4 Brevi
pezzi per chitarra e il primo Concerto per pianoforte
– e continua a sperimentare nuove soluzioni almeno fino al
1937, anno di composizione della Sinfonia per grande
orchestra (lavoro definito da Klein come «ein letzter
Rückfall in die extreme, dissonanzenfreudige Art der radikalen
Zwölftontechnik»).[7] È doveroso
puntualizzare che in tutti questi casi parlare di composizioni
dodecafoniche in senso stretto sarebbe completamente fuorviante,
dal momento che nella musica di Martin l’impiego della serie
non è mai esclusivo.
I 4 Brevi pezzi per chitarra furono composti
nel 1933 per Andres Segovia, dal quale però non furono mai
eseguiti. Nello stesso anno Martin ne fece una trascrizione per
pianoforte con il titolo Guitare: quatre pièces brèves
puor piano e una versione orchestrale su impulso di Ansermet
– che diresse la prima esecuzione nel novembre del 1934. Il
lavoro, come si è visto, viene solitamente indicato come il
primo approccio di Martin al metodo dodecafonico. In realtà si
tratta di brani basati su un impianto tonale che tende a
dissolversi nel cromatismo. Nei primi tre brani non compare infatti
alcuna successione che possa essere legittimamente considerata una
serie dodecafonica. In diversi momenti Martin mira evidentemente a
esaurire il totale cromatico nell’arco di due o tre battute,
ma le ripetizioni di altezze sono troppo numerose per far pensare
che alla base ci sia l’impiego di una o più serie. In
due occasioni – si confrontino le ultime nove battute di
Prelude e le ultime cinque battute di Plainte –
il compositore insiste su una stessa successione di intervalli,
ripetendola e trasponendola, ma si tratta in ogni caso di una
successione troppo breve (sei intervalli) per dare origine a una
vera e propria serie dodecafonica. In generale, si può
sostenere che in questi primi tre brani Martin accentui il
cromatismo melodico (in un contesto comunque tonale) fino ad
impiegare le dodici note pur senza ricorrere a una costruzione
seriale. Leggermente diverso è il caso dell’ultimo
pezzo, Comme une Gigue, dove invece è possibile
individuare una serie dodecafonica, anche se il suo impiego è
ben distante dall’ortodossia del metodo di Schönberg.
L’esempio 1 riporta le prime due pagine della partitura nelle
versione per pianoforte:
Esempio 1. FRANK MARTIN, Guitare: quatre
pièces brèves puor piano, Universal Edition 1976, pp.
8-9
Esempio 2. Analisi delle altezze, bb.
1-9[8]
Nelle prime 5 battute, a partire dal si
ribattuto iniziale, inizia una prima successione di dodici note
fino al fa (mano sinistra, batt. 4), a sua volta nota
iniziale di una seconda successione dodecafonica che si estende
fino al sol di batt. 5. Per quanto le due successioni non
siano identiche, è ragionevole pensare che nel secondo caso si
tratti di una trasposizione di quinta della prima serie in cui tre
note vengono spostate di posizione (cfr. Esempio 2). A battuta 6 si
ripresenta il si ribattuto, punto di partenza di una nuova
trasformazione della serie iniziale, in cui alcune altezze vengono
omesse, altre vengono trasposte di un semitono. In questo caso, le
variazioni sulla serie di partenza sono tali da snaturarne
completamente la natura dodecafonica, dando origine a diverse
ripetizioni e a una semplificazione della successione intervallare
che e nelle bb. 11-16 risulta condensata nel solo intervallo di
seconda (minore o maggiore). Tuttavia, la supposizione che la
successione dodecafonica iniziale possa veramente essere
considerata come serie principale del brano, trova conferma nella
sua esatta ripetizione nelle bb.17-19 nella sua forma originale
O11 (seguita poi da ulteriori trasformazioni), e
soprattutto nella disposizione delle altezze delle bb. 26-33,
identica a quella iniziale, ma trasposta una quarta sopra.
Pur nel limitato e irregolare impiego della serie,
questo brano mostra già alcuni tratti tipici della dodecafonia
di Frank Martin, e cioè la tendenza a usare la serie soltanto
nella dimensione orizzontale e tendenzialmente in isoritmia.
Entrambe le caratteristiche permangono nel successivo primo
Concerto per pianoforte (1933/1934), una composizione che
rivela un uso ben più ampio di mezzi dodecafonici.
Il primo movimento si apre con una lunga introduzione
(bb. 1-26) basata su un’ampia melodia molto cantabile del
flauto su un pedale di mi, che – stando al racconto di
Bernhard Billeter – era stata scritta di getto qualche tempo
prima in una circostanza particolare:[9] essendo membro di
una commissione della Schweizerische Tonkünstlerverein
preposta ad assegnare borse di studio a giovani musicisti, Martin
abbozzò questa linea melodica che i candidati avrebbero poi
letto a prima vista. In seguito, durante la stesura del
Concerto, il compositore ritrovò casualmente il
pentagramma con la melodia e decise di riutilizzarla. Non si tratta
in nessun caso di una melodia dodecafonica; al contrario,
nonostante una certa tendenza al cromatismo, è una linea
chiaramente riferibile alla tonalità di Mi minore,
tonalità d’impianto del primo movimento del
Concerto. Dopo l’introduzione, alla cifra 2, i legni
presentano il primo tema (anch’esso chiaramente tonale),
mentre il pedale sul mi si trasforma in un ostinato
isoritmico dodecafonico sostenuto dagli archi:
Esempio 5. Serie del primo
movimento e analisi delle altezze nelle prime battute
dell’ostinato
L’ostinato prosegue senza soluzione di
continuità fino all’ingresso del pianoforte solista alla
cifra 5 e viene ripreso da quest’ultimo con valori ritmici
dimezzati; la serie su cui si basa il passaggio iniziale del
solista presenta caratteristiche interessanti, evidenziate
nell’esempio 5: innanzitutto va rilevata la sua forte
connotazione tonale, evidente soprattutto nell’accordo di
settima minore sul do (secondo tetracordo) e nella triade di
Re minore (con l’aggiunta del Sol, terzo
tetracordo), mentre il primo tetracordo è caratterizzato da
due intervalli di quarta ascendente, il primo di quali
(si-mi) tende evidentemente a ribadire la tonalità
d’impianto. A partire da questa serie Martin costruisce una
lunga successione che si ripete identica sia a cifra 2 (Esempio 3)
sia a cifra 5 (Esempio 4) in entrambi i casi con un canone
all’ottava separato da una sola unità ritmica. Se
analizzato da un punto di vista dodecafonico, l’ostinato
rivela caratteristiche particolari. Innanzitutto, dopo
l’esposizione della serie di partenza (O11), viene
ripetuto il tetracordo iniziale, che sembra svolgere due funzioni:
da un lato funge da ponte creando un solido legame con la forma
seriale successiva (O1), avendo in comune le note
do-fa, dall’altro svela una caratteristica delle
serie che si evidenzia soltanto grazie alla ripetizione delle prime
due note. Infatti, come mostra l’esempio
5 (primo pentagramma), se alla serie vengono fatte seguire
le sue prime due note, si genera una struttura a specchio (la
successione intervallare si ripete in retrogrado) con asse di
simmetria tra la settima e l’ottava nota. Il successivo
ritorno a O11 viene effettuato sfruttando ancora le sue
note comuni con O1 (si-mi), in seguito la
struttura seriale inizia a diventare irregolare, secondo
procedimenti (l’interpolazione e l’esclusione di note)
assolutamente tipici del comporre dodecafonico di Martin anche
negli anni a venire. Il successivo trattamento dell’ostinato
può essere interpretato nel modo seguente: O11
procede regolarmente fino all’undicesima nota, la dodicesima
è abbassata di un tono (si al posto di re). Questa
eccezione permette a Martin di sfruttare il terzo tetracordo di
O3 (la-do-do-fa) come nuovo ponte verso
O1. Seguono una forma variata e difettiva di
O1 (la quinta e l’ottava nota sono abbassate di un
tono) e di O11 (con anticipazione del fa tra la
seconda e la terza nota nonché omissione della sesta, settima
e dodicesima nota). Il tetracordo sol-do-re-mi potrebbe
essere anche ricondotto all’inizio della forma seriale
O1 difettiva della terza nota (la).
Accanto ad altre costruzioni motivico-tematiche non
dodecafoniche, l’ostinato viene ripetuto più volte anche
nel prosieguo, sostenuto soprattutto da violoncelli e contrabbassi,
e svolge dunque un ruolo fondamentale nell’intero movimento.
In alcuni casi ritorna alla voce solista, o passa agli strumenti a
fiato, mantenendo sempre il suo andamento a canone isortimico, a
volte anche con valori raddoppiati (cfr. per esempio cifra 12). La
successione di altezze mostrata in precedenza, con la sua
alternanza tra momenti in cui la serie viene esposta nella sua
totalità e altri in cui essa viene fortemente modificata,
è esemplare anche per gli svolgimenti successivi. La serie
dodecafonica non ha invece alcuna influenza nella costruzione
armonica del movimento. Estendendo il discorso all’intera
composizione, va rilevata l’assoluta assenza di serie
dodecafoniche nel secondo movimento, mentre nel terzo
l’esordio del solista (cifra 4) presenta inizialmente un
andamento isoritmico (ottavi in terzina) basato sulla stessa serie
del primo movimento, ripreso successivamente, con notevoli
modifiche, nella seconda metà del brano (cifra 15). Osservando
dunque l’operare di Martin in questa prima composizione in
cui il ricorso a mezzi dodecafonici oltrepassa lo sporadico
utilizzo di successioni seriali e arriva a informare il decorso del
brano, si possono riassumere le seguenti caratteristiche: la serie
svolge una funzione tematica; per quanto ampiamente sfruttata,
limita la propria azione alla dimensione orizzontale e ha un
influsso solo indiretto sull’armonia del brano, che rimane
sostanzialmente tonale. A criteri tonali rispondono tutti gli altri
temi della composizione; la successione intervallare della serie
stessa contiene al suo interno triadi perfette e una predominanza
di intervalli consonanti. Martin ricorre ad alcune trasposizioni
della serie, ma evita l’impiego delle sue forme derivate
(inversione e retrogradazione) per facilitare il più possibile
il riconoscimento della sua successione intervallare e quindi
accentuarne la valenza tematica. Alla stessa esigenza sembra
rispondere anche l’andamento isoritmico, la tendenza a
mantenere fissa la direzione ascendente o discendente degli
intervalli e ad assegnare più volte la serie allo stesso
strumento, garantendo quindi uniformità timbrica. Dopo alcune
ripetizioni e trasposizioni esatte, Martin opera alcune variazioni
che arrivano a mutare la natura della serie, rivelando così un
atteggiamento per nulla rigoroso nei confronti della regola
autoimposta. La struttura simmetrica della serie, che potrebbe
sembrare a prima vista quasi weberniana, viene sfruttata soltanto
localmente, per garantire solidi legami nel passaggio a una
successiva trasposizione, ma certamente non ha alcun influsso su
altri aspetti del brano e sulla sua disposizione formale.
Tra questo approccio alla dodecafonia e il metodo di
Schönberg sussistono dunque differenze decisive, tra le quali
due appaiono particolarmente significative: la serie dodecafonica
nella musica di Martin non è la Grundgestalt del brano
e non comporta il passaggio a un contesto atonale. Le istanze che
hanno condotto il compositore viennese alla formulazione del suo
metodo per uscire dalle aporie dell’atonalità, cioè
la necessità di stipulare un nuovo criterio per garantire
l’esistenza di nessi logici nella rappresentazione del
proprio pensiero musicale in sostituzione del linguaggio tonale,
sono totalmente estranei alla poetica di Martin, per il quale
invece la tonalità può essere sì integrata ma non
sostituita. Come è già stato ampiamente evidenziato e
tematizzato nella letteratura sul compositore svizzero, soprattutto
da Klein e Billeter e prima ancora da Roman Vlad,[10]
l’impiego tematico, limitato alla dimensione orizzontale
della serie dodecafonica rappresenta per Martin un arricchimento
del proprio linguaggio musicale senza minarne le fondamenta. Nel
suo saggio Schönberg et nous del 1947,[11] lo stesso
compositore sottolinea questo aspetto in alcuni passi, spesso
citati:
Il est […] merveilleusement fécond
d’écrire en se conformant à une règle stricte,
si arbitraire soit-elle, mais à la condition de satisfaire en
même temps aux exigences les plus sévères de sa
propre sensibilité musicale. C’est ainsi que le
règles établies par Schönberg peuvent enrichir notre
écriture musicale en rendant notre sensibilité plus
aiguë.
Le commerce avec les séries va donc nous
apprendre à penser et à écrire dans une langue
nouvelle, que chacun devra constituer pour lui-même. Et la
première chose que nous y apprendrons, c’est à
concevoir des mélodies extrêmement riches,
puisqu’elles doivent emprunter les douze notes de la gamme
chromatique avant de redire la première. La recherche de
semblables mélodies nous entraîne hors des chemins battus
de la mélodie tonale ou modale et nous rend extraordinairement
sensible au retour de la mélodie sur elle même ; ce
n’est plus qu’en pleine conscience de sa
nécessité que l’on admet alors semblable retour,
avec le sentiment de violer une règle fondamentale dans un but
esthétique bien défini.[12]
Se dunque la dodecafonia può rappresentare un
arricchimento, la condizione indispensabile per l’adozione
del metodo risiede secondo Martin nella capacità di evitare un
impiego dogmatico, quindi nel suo utilizzo parziale. Il compositore
svizzero rifiuta le premesse teoriche di Schönberg, la
convinzione che tra consonanza e dissonanza non esista
un’opposizione ma soltanto una differenza di grado: le
dissonanze sono semplicemente più difficili da comprendere per
l’orecchio (perché più distanti dalla fondamentale
nella successione degli armonici) ma non per questo meno
giustificate in natura.[13] Egli evita di
seguire Schönberg sul terreno dell’atonalità,
ravvede anzi nella dodecafonia un pericolo, proprio perché
permette a chi ne fa uso di stabilire gerarchie eludendo il sistema
tonale. Gerarchie che a suo parere sono di fatto illusorie
perché non riconoscibili all’ascolto. Su questo aspetto
Martin si pronuncia in diverse occasioni, da ultimo in un saggio
del 1974:
C’est là un ordre, introduit dans
l’anarchie de l’atonalisme, qui guide le compositeur
dans son travail. Mais est-ce un ordre qui puisse être
perçu par un auditeur? Certainement pas. En tout cas le
renversement et la récurrence rendent impossible de
reconnaître le série par l’oreille. Ainsi je suis
convaincu que pour notre sens musical, l’écriture
sérielle ne peut pas, par elle-même, donner de
l’unité à une œuvre. Y aurait-il une
unité que notre raison ne connaît pas?[14]
Porterebbe troppo lontano soffermarsi sulla
legittimità di questa critica – che ha certamente la sua
ragion d’essere ma andrebbe approfondita adeguatamente. Vale
invece la pena sottolineare ancora le sue conseguenze per le
modalità d’impiego della dodecafonia nel comporre di
Martin. Se da un alto le frasi citate confermano i risultati delle
analisi precedenti (motivando per esempio la già riscontrata
rinuncia all’uso di forme in inversione e retrogrado della
serie), offrono dall’altro interessanti spunti teorici per
affrontare ulteriori aspetti, spesso trascurati negli studi sul
compositore svizzero. Sarebbe infatti fuorviante leggere le
asserzioni come una conferma di un impiego della serie
esclusivamente limitato alla dimensione orizzontale. Sebbene in
modo meno appariscente, Martin estende talvolta il raggio
d’azione della serie anche alla dimensione verticale,
seguendo modalità, come vedremo, per nulla in contraddizione
con le sue dichiarazioni programmatiche. A questo proposito,
interessanti elementi possono essere rintracciati in due
composizioni molto differenti, il Trio per archi e Der
Cornet.
Il Trio pour violon, alto et violoncello venne
composto nel 1936, quindi ancora all’epoca
dell’«intermezzo dodecafonico». Indubbiamente,
rispetto alle opere osservate finora, si tratta di una composizione
che all’ascolto risulta più dissonante; forse è il
brano di Martin in cui l’impiego del metodo dodecafonico si
avvicina maggiormente ai dettami di Schönberg, in virtù
di un uso quasi esclusivo della serie, ma per questo non più
rigoroso. In diverse sezioni, anche piuttosto ampie, di tutti e tre
i movimenti, Martin ricorre soltanto al materiale dodecafonico, pur
con numerose mutazioni. A tratti, quindi, la serie acquista quella
funzione di Grundgestalt del brano che non era assolutamente
riscontrabile nelle composizioni esaminate in precedenza. Ancora
una volta, però, il metodo dodecafonico non impedisce a Martin
di mantenere forti legami con il linguaggio tonale. Questi vengono
come sempre garantiti dalla successione intervallare stessa della
serie dodecafonica, costruita con una netta predominanza degli
intervalli di quarta e quinta giusta nonché di triadi tonali
(cfr. Esempio 6).
Esempio 6. Serie del primo
movimento e quadrato seriale.
Il primo tetracordo è formato di fatto da un
accordo di settima maggiore; le note dall’ottava alla decima
formano una triade maggiore, mentre quelle dalla nona
all’undicesima una triade minore. Nell’esempio 6 viene riprodotto il quadrato della
serie.[15] È necessario sottolineare che la
struttura simmetrica del primo tetracordo (ic: -5, +1, -5) comporta
ovviamente un’equivalenza tetracordale tra forme seriali in
originale e in inversione – per esempio, il primo tetracordo
di O1 (pc: 1, 8, 9, 4) equivale all’ultimo di
RI11.
Esempio 7. FRANK MARTIN, Trio pour violon,
alto et violoncello, Universal Edition 1967, p. 1.
Le prime dodici battute del primo movimento (cfr.
Esempio 7) offrono già numerosi elementi degni di nota: al
violoncello è affidato il solito ostinato isoritmico mentre
violino e viola si spartiscono lenti accordi in minime. La linea
del violoncello presenta inizialmente una costruzione dodecafonica
abbastanza regolare, esponendo dapprima la serie O1
senza eccezioni, seguita dal primo tetracordo di O4 e
dagli ultimi due di O5. In pratica è una
ripetizione trasposta della serie iniziale leggermente modificata:
il primo tetracordo viene ripetuto a una distanza di terza minore,
gli ultimi due a una distanza di terza maggiore. A battuta 7 inizia
uno svolgimento più libero, sottolineato anche dalla
variazione ritmica: le prime cinque note, fino al fa,
appartengono a O8, mentre la successione successiva
è chiaramente ascrivibile a una forma della serie in
inversione, ovvero I11 (ultimi due tetracordi),
nonostante l’omissione di do e re e la
ripartizione del fa. O8 e I11 sono
imparentate dalla relazione tetracordale osservata sopra, ovvero il
primo tetracordo di O8 equivale al primo di
I11 in retrogrado. Dopo un passaggio cromatico
svincolato dalla serie dodecafonica, compare ancora un frammento di
R4 a battuta 12 che conduce a una ripetizione
dell’intera disposizione fin qui analizzata. Martin ricorre
dunque in questo caso a estratti delle forme in inversione e in
retrogrado, ma soltanto nei passaggi più liberi, quando la
serie tende a dissolversi e, anche se in modo molto limitato,
sfrutta persino le corrispondenze tra più forme seriali
– ovvero le cosiddette invarianti, che svolgono un ruolo
strutturale determinante nel comporre dodecafonico di
Schönberg a partire dalle Variazioni per orchestra op.
31. Agli altri due strumenti è invece affidata una sorta di
progressione cromatica, costruita anch’essa a partire dalle
caratteristiche della serie. Il primo accordo di ogni battuta
è sempre un accordo di settima maggiore (ovvero il primo
tetracordo della serie), che si trasforma in una settima di
sensibile con spostamento cromatico discendente delle tre note
inferiori (per es. bb. 1 e 2) oppure viene trasposto di tono (per
es. bb. 3 e 6). Nel dettaglio, a battuta 1 compare un accordo di
settima maggiore sul sol (primo tetracordo di
O11) che diventa settima di sensibile e conduce a
battuta 2 al La maggiore (O0), seguito dalla sua settima
di sensibile. A battuta 3 risuona l’accordo di settima
maggiore in La maggiore (O1) seguito dal Si maggiore
(O3) e dal Si maggiore a battuta 4 (O2) ecc.
In queste prime battute – ma il discorso può essere
esteso a tutto il movimento – il compositore adatta quindi il
metodo dodecafonico alle proprie esigenze espressive, sfrutta la
serie per creare delle successioni di accordi che, seppur privi di
una chiara funzione, mantengono uno stretto legame con la
tradizione del linguaggio tonale.
Un impiego simile, per alcuni aspetti ancora più
caratteristico del comporre di Martin, è rintracciabile in
Der Schrei , l’ottavo Lied del ciclo Der Cornet
(ovvero Die Weise von Liebe und Tod des Cornets Christoph
Rilke ) per contralto e orchestra, composto nel 1942/1943. Il
Lied si apre con tre accordi in andamento cromatico discendente
(Mi minore in primo rivolto, Fa maggiore, Mi maggiore),
accompagnati da una linea di basso – al violoncello e al
contrabbasso – che sembra avulsa dal contesto armonico delle
voci superiori e che conclude con un unisono sul sol (cfr.
Esempio 8):
Questo è uno di quei passaggi abbastanza
frequenti nella musica di Martin, in cui si potrebbe supporre che
l’esaurimento del totale cromatico, così come avviene a
battuta 1, sia accidentale o comunque sia stato ottenuto
liberamente, senza ricorso a una serie dodecafonica. Come nel caso
della successione di settime maggiori nel Trio, le tre
triadi perfette sembrano rispondere a criteri affatto diversi da
quelli seriali. In questo caso, però, viene in aiuto uno
schizzo del compositore, rinvenuto tra i materiali preparatori del
Concerto per violoncello e orchestra (1965/1966), che
riproduco in trascrizione diplomatica nell’esempio 10.
Esempio 10. Trascrizione di uno schizzo riferito
all’organizzazione delle altezze in Der Schrei.
[N.B.: in
questo caso i numeri arabi indicano il numero progressivo di ogni
nota nella serie (prima, seconda ecc.) e non la loro classe
d’altezza. Si è preferito non intervenire con modifiche
nella trascrizione, nonostante il sistema di numerazione di Martin
nello schizzo possa generare confusione rispetto a quello adottato
negli esempi precedenti].
Lo schizzo offre una chiara conferma di come anche le
triadi perfette iniziali siano il risultato di operazioni condotte
secondo criteri dodecafonici. Nel primo sistema il compositore
scrive la serie (O7) su cui si basa il solito
procedimento dodecafonico e isoritmico a partire dalla cifra 1
(cfr. esempio 9: in queste due pagine di partitura la dodicesima
nota della serie (re) è presente sottoforma di pedale
di basso; O7 viene ripetuta tre volte con trasposizione
d’ottava, seguita da O8 e O10, mentre
l’andamento della voce solista è indipendente dalla
disposizione seriale). Successivamente il compositore ripete la
successione seriale, suddividendola in tre tetracordi, ed estrapola
nel sistema sottostante le triadi perfette (Sol minore, La
maggiore, La maggiore) contenute in ogni tetracordo. La voce
armonicamente avulsa del basso viene infine a determinarsi con le
tre note rimanenti: la seconda, la sesta e la dodicesima. Con
leggere modifiche ritmiche, le prime due battute del Lied non sono
altro che una trasposizione una terza maggiore sotto
(O3) di questa successione, seguita a ruota da
un’altra trasposizione a una seconda maggiore di distanza
(O5, bb. 3-4).
A completamento di questa panoramica vanno ancora
quantomeno menzionate altre importanti composizioni, di molto
successive, come per esempio il Concerto per violino del
1950/1951 o il Concerto per violoncello del 1965/1966. Nel
primo caso, la fortunata situazione delle fonti autografe
conservate, che – come avviene molto raramente nel caso di
Martin – documentano copiosamente anche le prime fasi del
processo compositivo, ha consentito ad André Baltensperger
un’analisi molto approfondita della composizione, che
evidenzia anche la centralità di diverse disposizioni
dodecafoniche nelle fasi precompositive del lavoro.[16]
Purtroppo la situazione delle fonti nel caso del Concerto
per violoncello non è altrettanto positiva, anche se alcuni
schizzi conservati, di difficile interpretazione, lascerebbero
presupporre che anche linee tematiche non dodecafoniche fossero a
volte originate a partire da trasformazioni operate su un materiale
seriale. In questa sede non verranno analizzati i temi dodecafonici
presenti in tutti e tre i movimenti del concerto, in quanto non
presentano caratteristiche diverse da quelle osservate finora.
In conclusione, vale forse la pena osservare
brevemente le caratteristiche della dodecafonia di Martin in un
contesto più generale. Sicuramente nessuna innovazione
nell’ambito della tecnica compositiva ha avuto nel Novecento
un influsso maggiore su contemporanei e generazioni successive del
metodo ideato da Schönberg. I motivi del suo notevole successo
vanno cercati nella sua estrema praticità. È risaputo che
Schönberg non fu né il primo né l’unico a
cercare nell’esaurimento del totale cromatico una soluzione
ai problemi compositivi insorti ai primi del Novecento. Ma altri
tentativi, come per esempio quello di Josef Mathias Hauer ebbero un
impatto praticamente nullo a causa della loro scarsa
applicabilità. Con il suo "metodo di comporre con dodici note
in rapporto soltanto l’una con l’altra" Schönberg
ha ideato una tecnica estremamente pratica, di facile adozione
soprattutto se non impiegata in modo esclusivo (che, tra
l’altro, dopo il 1933 assunse anche connotati rilevanti
politicamente di resistenza al Nazionalsocialismo). È anche
vero che la ricezione della dodecafonia mostra in ogni compositore
tratti assolutamente diversi; è sufficiente confrontare, per
fare un esempio, il Concerto per violino di Alban Berg e
qualsiasi composizione dodecafonica di Anton Webern. Può
sembrare paradossale, ma di fatto il metodo dodecafonico è
anche estremamente malleabile. Se si escludono Webern, Ernst
Křenek e naturalmente lo stesso Schönberg, è
difficile trovare compositori che negli anni Trenta e Quaranta
abbiano adottato il metodo dodecafonico sfruttandone appieno e con
rigore le sue potenzialità strutturanti. Hanns Eisler e Paul
Dessau ne fanno un uso molto più limitato, nel senso che
operano delle scelte per circoscrivere il materiale utilizzabile.
Wladimir Vogel e Luigi Dallapiccola non rinunciano e inserire
elementi dodecafonici in contesti tonali, a volte seguendo
procedimenti abbastanza simili a quelli di Martin. Stephan Wolpe
inizia già verso la metà degli anni Trenta a derivare
dalla serie, operando varie trasformazioni in sede precompositiva,
un repertorio di altezze o intervalli poi effettivamente utilizzati
nella composizione, inaugurando una tendenza che sarà poi
tipica della ricezione della dodecafonia negli Stati Uniti e in
Italia (ad esempio in Bruno Maderna e Luigi Nono).
Dal metodo ideato da Schönberg è scaturito
negli anni Trenta e Quaranta un autentico ‘pensiero
dodecafonico’, cioè una propensione condivisa da molti
compositori a cercare nell’esaurimento del totale cromatico
regolato da una serie una possibile soluzione a determinati
problemi compositivi oppure un arricchimento del proprio linguaggio
musicale. Pur nel suo impiego parziale dei procedimenti
dodecafonici, Martin ha preso a parte a pieno titolo a questo
processo. D’altronde, come lo stesso compositore aveva
lucidamente espresso in un saggio del 1947, «Cette technique
parlera alors une autre langue que celle de son initiateur, chacun
la façonnera selon son tempérament».[17]
|
________________________
[Bio] Pietro
Cavallotti si è laureato con Gianmario Borio alla Facoltà
di Musicologia di Cremona (Università di Pavia) e addottorato
nel 2002 alla Humboldt Universität di Berlino con Hermann
Danuser. Dal 2006/2007 è docente a contratto alla Humboldt
Universität e, dal 2008/2009 all’Universität
Basel.
E-mail
cavallotti@gmx.net
Pietro Cavallotti, MA in Cremona (University of
Pavia), PhD at the Humboldt University of Berlin (2002), is
temporary lecturer at the Humboldt University of Berlin (since
2006/2007) and at the University of Basel (since 2008/2009).
[1] FRANK MARTIN,
Défense de l’harmonie [1943], in Un
compositeur médite sur son art, Ecrits et pensées
recueillis par Maria Martin, Neuchâtel, Editions de la
Baconnière, 1977, pp. 108-112.
[2] RUDOLF KLEIN, Frank
Martin. Sein Leben und Werk, Wien, Verlag Österreichische
Musikzeitschrift, 1960, pp. 13-18: 14.
[3] ALAIN PERROUX,
Frank Martin ou l’insatiable quête, Genève,
Editions Papillon, 2001, pp. 29-36.
[4] FRANK BILLETER,
Frank Martin. Werdegang und Musiksprache seiner Werke,
Mainz, Schott, 1999, 65-73.
[5] ULRICH MOSCH,
Dodekaphonie in der Schweiz, in «Entre Denges et
Denezy…». Dokumente zur Schweizer Musikgeschichte
1900-2000, hrsg. von Ulrich Mosch und Matthias Kassel, Mainz,
Schott, 2001, pp. 228-243 (ed. it. «Entre Denges et
Denezy…». Documenti sulla storia della musica in
Svizzera 1900-2000, Lucca, LIM, 2001, pp. 228-243).
[6] Ringrazio in questa
sede il responsabile del Fondo Frank Martin alla Fondazione Paul
Sacher, Robert Piencikowski, nonché i bibliotecari Henrike
Hoffmann e Carlos Chanfón per avermi gentilmente agevolato la
visione del materiale autografo del compositore.
[7] KLEIN, Frank
Martin, cit., p. 18.
[8] Adottando la
terminologia, oggi predominante, sviluppata dalla Set Theory
statunitense, in questo e negli esempi successivi, si denominano le
classi d’altezze (pc = pitch
class ) con numeri dallo 0 (do) all’11 (si)
e le classi d’intervalli (ic = interval
class ) indicando i numero di semitoni in direzione ascendente
(+) o discendente (-).
Per semplificazione, gli intervalli superiori al tritono (±6)
vengono sempre definiti con l’intervallo complementare.
[9] BILLETER, Frank
Martin, cit., pp. 68-69.
[10] Cfr. ROMAN
VLAD, Modernità e tradizione nella musica
contemporanea, Torino, Einaudi, 1955, pp. 236-249 e ID.,
Storia della dodecafonia, Milano, Edizioni Suvini Zerboni,
1958, pp. 175-181.
[11] FRANK MARTIN,
Schönberg et nous [1947], in Un compositeur
médite sur son art, cit., pp. 108-112.
[12] Ibid.,
pp. 110-111.
[13] Cfr. per
esempio ARNOLD SCHÖNBERG, Probleme der Harmonie [1934],
in Stile herrschen, Gedanken Siegen. Ausgewählte
Schriften, hrsg. von Anna Maria Morazzoni, Mainz, Schott, 2007,
pp. 135-150.
[14] FRANK MARTIN,
Schönberg et les conséquences de son activité
[1974], in Un compositeur médite sur son art, cit., pp.
115-119: 118.
[15] Nel quadrato si
leggono da sinistra verso destra le forma seriali in originale (O),
da destra verso sinistra quelle in retrogrado (R), dall’alto
al basso le forme in inversione (I) e dal basso all’alto
quelle in retrogrado dell’inversione (RI). Per convenzione
definisco R0 il retrogrado di O0 e
RI0 il retrogrado di I0; le forme retrograde
vengono quindi denominate in base alla classe d’altezza della
loro ultima nota.
[16] ANDRÉ
BALTENSPERGER, Fragen des Métiers bei Frank Martin.
Untersuchungen zu den Skizzen des Violinkonzerts, in
Quellenstudien I. Gustav Mahler, Igor Strawinsky, Anton Webern,
Frank Martin, hrsg. von Hans Oesch, Basel, Paul Sacher
Stiftung-Winterthur, Amadeus Verlag, 1991, pp. 157-234.
[17] MARTIN,
Schönberg et nous, cit., p. 110.
|
|
|