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Premessa
Quando si affronta la questione degli strumenti
originali si tende a concentrare l’attenzione su di essi in
quanto oggetti e sul ruolo di cui potrebbero essere investiti nel
tentativo di restituire un’immagine sonora convincente della
musica antica. Anche se con sempre maggior frequenza molti
esecutori ricorrono a delle copie, di rado la riflessione retrocede
oltre al loro darsi concreto: strumenti originali e copie sono
sempre già disponibili e si tratta solo di decidere se
adottarli o meno e, eventualmente, quale possa essere il loro reale
contributo nell’esecuzione.
In una prospettiva rigorosa, è corretto
chiedersi se dopo due o tre secoli uno strumento conservatosi in
chissà quali condizioni possa ancora avere un suono simile a
quello originario e allo stesso modo, nel caso di una copia, è
bene porre la questione del grado di fedeltà al modello.
Un’opinione forse datata, ma non per questo poco diffusa
è stata espressa da Jeremy Montagu nel lontano 1975:
The only way to copy an instrument is to copy it
exactly; the fact that it is then difficult to play is
immaterial, for it is up to the player to master it. Once he has
trained his musculature to produce good tone and good intonation on
an instrument identical to an original, he is halfway to
recreating the original technique and the original
performance style.[1]
Potrebbe essere interessante indagare quanto questa
visione sia effettivamente condivisa oggi: probabilmente molti
esecutori e molti organologi sarebbero più cauti
nell’usare aggettivi come ‘identico’ e avverbi
come ‘esattamente’, ma ciò non toglie che,
complice anche la grande fiducia nelle ultime tecniche di
misurazione e riproduzione applicate alla costruzione e al restauro
degli strumenti musicali, la copia sia spesso automaticamente
intesa come oggetto riproducente l’originale in ogni
dettaglio. Problematizzare quest’accezione per certi versi
riduttiva di ‘copia’ significa anche aprire un altro
ordine di riflessione, che introduce nuovi aspetti da valutare
tanto di per se stessi, quanto in relazione al complesso di idee e
convinzioni di natura tecnica, storica ed estetica che riassume lo
stato attuale di una riflessione iniziata già sul finire
dell’Ottocento, con i primi approcci antiquari di Dolmetsch.
Più precisamente, si pone il problema di come costruire la
copia a partire dallo strumento originale.
È probabile che molti non siano d’accordo
nell’includere la considerazione di ciò che riguarda la
realizzazione della copia nella discussione sul significato da dare
a quest’ultima. È evidente, tuttavia, che ciò che
si può pretendere da una copia in sede esecutiva dipende
innanzitutto dal suo modo di essere copia, il che rinvia
inevitabilmente ai principi e ai modi secondo cui è stata
costruita. In questa prospettiva, il ruolo dell’artigiano si
può dire rivalutato o persino riscoperto, in un’epoca in
cui il legame, un tempo indissolubile, tra un oggetto e il suo
processo di costruzione si è progressivamente allentato,
giungendo a volte ad annullarsi del tutto nell’anonimo
isolamento dei prodotti. L’abitudine di escludere
automaticamente dalla considerazione tutto ciò che riguarda il
processo produttivo di un bene è profondamente radicata in
noi, ma non lo era affatto un tempo: intere generazioni di famiglie
come gli Hotteterre e i Philidor, tanto per fare un esempio che ci
riporti in ambito musicale, non solo componevano, suonavano e
insegnavano, ma producevano i loro strumenti, sperimentavano e
innovavano. Se fu proprio grazie a questa costante interazione fra
diversi ambiti di competenza che molti degli strumenti che abbiamo
ereditato hanno visto la luce, come si può pensare oggi di
prescindere dalla considerazione di quella che in realtà
è una vera e propria premessa metodologica al recupero della
musica antica?
Come sopra si è accennato, non è affatto
scontato che l’artigiano che deve realizzare la copia di un
certo modello debba operare solo passivamente limitandosi a
misurare e a riprodurre. Molto dipende dalle richieste del
committente: se questo è un museo, ad esempio, il requisito
principale dovrà essere la massima precisione possibile nella
riproduzione di ogni dettaglio, ma se il committente è un
esecutore, professionista o dilettante, potrebbero essere
necessarie alcune modifiche imposte da esigenze pratiche, come ad
esempio quella relativa al diapason. Si profila quindi una
connotazione attiva del ruolo dell’artigiano, cui viene
richiesto di combinare la conoscenza dell’originale con le
personali doti di abilità ed esperienza. In questo senso,
dunque, si è affermato che il procedimento costruttivo
costituisce una premessa di metodo: il modo in cui
l’artigiano costruisce lo strumento determina a priori
in quali modi esso potrà essere suonato.
L’obiettivo di questo breve lavoro è
quello di analizzare il procedimento costruttivo di uno strumento
specifico, il flauto traversiere. Anche l’arco cronologico
considerato è piuttosto ben definito, dato che lo strumento
è apparso attorno al 1680 ed è stato impiegato
professionalmente fino alla fine del Settecento.
In un primo momento mi dedicherò a una rapida
ricognizione delle tecniche e degli utensili di cui potevano
disporre gli artigiani dell’epoca, facendo riferimento a una
delle pochissime testimonianze disponibili sull’argomento, il
Manuel du Tourneur di Bergeron. Si tratta di un’opera
rivolta a tornitori dilettanti, compilata alla fine del Settecento,
che nonostante i limiti connessi alla sua destinazione offre un
interessante compendio dei metodi e delle possibilità tecniche
della carpenteria dell’epoca.
Il tentativo di ricostruire il procedimento antico
sarà poi seguito da un confronto con la descrizione di quello
adottato da un apprezzato costruttore di copie di strumenti storici
a fiato, Michele Losappio, che ha gentilmente acconsentito ad
aprire il suo laboratorio.
PRIMA PARTE – IL METODO COSTRUTTIVO
ANTICO[*]
I materiali
Nel periodo compreso tra il XVI e il XVIII secolo, i
materiali impiegati nella costruzione dei flauti traversi e di
molti altri strumenti a fiato di dimensioni paragonabili, come ad
esempio i flauti diritti o gli strumenti ad ancia, erano
sostanzialmente due: il legno e l’avorio. Quest’ultimo,
in realtà, era usato solo nella produzione di strumenti di
particolare pregio perché, anche se era apprezzato per
l’eleganza e la bellezza, presentava grandi svantaggi pratici
nella lavorazione, era facilmente deteriorabile e, soprattutto,
assai costoso.
I primi accenni ai criteri di scelta delle essenze
nella costruzione di strumenti a fiato si trovano nella Harmonie
Universelle di Mersenne, riferite alle traverse:
Leur matiere peut estre de prunier, de cerisier &
des autres bois qui se percent aysément, mais on choisit
ordinairement du bois d’une belle couleur, & qui
reçoit un beau poly, afin que la beauté accompagne la
bonté de l’instrument, & que les yeux soient en
quelque façon participans du plaisir de l’oreille: on
les fait ordinairement de buis; elles sont aussi fort bonnes de
chrystal, ou de verre & d’ebene.[2]
L’analisi degli originali conservatisi mostra,
comunque, che queste affermazioni restano valide per tutti gli
strumenti a fiato della sua epoca e anche per quelli del periodo
precedente. Mersenne fa esplicito riferimento a legni di susino e
ciliegio e accenna genericamente anche ad altri legni che
presentano la caratteristica di lasciarsi forare con facilità
ma, di fatto, il legno impiegato più frequentemente era il
bosso. Altre essenze in uso erano il pero e l’ebano, mentre
spesso gli strumenti di grandi dimensioni venivano realizzati in
acero, legno molto più leggero anche se particolarmente
sensibile all’umidità e, per questo motivo, inadatto a
strumenti con cameratura stretta.
Circa un secolo più tardi Quantz affrontò
l’argomento nel suo trattato sul flauto traverso:
(§18) I Flauti sono formati di ogni spezie di
legno duro, come Bosso, Ebano, Legno reale, Legno santo,
Grenadiglia. Il Bosso è il legno più duro, e più
ordinario per fare flauti, ma l’Ebano rende il tuono più
chiaro, e più bello; si deve foderare il flauto con
l’Ottone, come alcuni hanno provato, per fare il di loro
suono rampognante, rozzo e disaggradevole. (§19) Siccome certe
umidità penetrano nell'interno del flauto, che si suona, le
quali sono dannose, bisogna avere diligenza di nettarlo spesso con
un cencio appeso ad un bastone; e perché tale umido non entri
nel legno, conviene ungerlo qualche volta con oglio di
mandorle.[3]
Dall’analisi di queste affermazioni si possono
trarre interessanti considerazioni. In primo luogo, si può
osservare che, più di un secolo dopo le informazioni di
Mersenne, il bosso era ancora il materiale più diffuso, mentre
i legni da frutto non sono nemmeno menzionati. In compenso,
l’ebano si era imposto nelle preferenze di Quantz
perché, grazie alle sue caratteristiche, conferiva allo
strumento un timbro più chiaro e bello, qualità che egli
cercava di intensificare anche tramite l’allargamento della
cameratura, che contribuiva ad accrescere la purezza e la
rotondità del suono nelle prime due ottave.
Notiamo, a questo punto, come l’attenzione di
Quantz per la qualità del suono e la noncuranza pressoché
completa per l’aspetto dello strumento si ponga in contrasto
con l’atteggiamento manifestato da Mersenne un secolo prima,
caratterizzato invece da un certo interesse per la bellezza del
colore, la lucidatura e, in generale, per la partecipazione della
vista al piacere dell’udito. Sebbene all’apparenza di
poco conto, si tratta senz’altro di un innegabile mutamento
di sensibilità.
Un uso determinato da motivi esclusivamente estetici
fu, a partire dalla metà del XVII secolo, quello di trattare
la superficie esterna dello strumento con tinte scure o con acidi
che conferivano al materiale impiegato le sembianze di un prezioso
legno esotico. Naturalmente, il favore incontrato da questi
interventi dipendeva dai gusti e dalle convinzioni personali:
alcuni esprimevano totale disapprovazione, altri apprezzamento per
il risultato estetico sulle venature, altri ancora una tolleranza
accresciuta dalla convinzione che il passaggio dell’acido
potesse rinforzare la superficie del legno.
Un’interessante osservazione di Quantz riguarda
la manutenzione, con particolare riferimento al problema della
condensa che si forma abbondantemente all’interno del tubo
già dopo pochi minuti di uso dello strumento. Oltre a
raccomandare di asciugare l’interno con un panno applicato a
un bastoncino, egli osservava come alcuni legni fossero più
sensibili di altri al permanere della condensa e, in generale,
più suscettibili alle variazioni atmosferiche. Va detto che,
quando uno strumento viene suonato, il rapido passaggio
dall’essere asciutto e, spesso, freddo all’essere umido
e caldo comporta brusche sollecitazioni cui ogni tipo di legno
reagisce diversamente. Il legno di bosso, ad esempio, specialmente
se non stagionato a dovere, è soggetto a deformazioni,
soprattutto in prossimità delle zone più delicate dello
strumento come i giunti tra i vari pezzi. Oltre agli effetti
estetici, le deformazioni possono influire sull’intonazione
del flauto e, nei casi più gravi, possono intaccare forma e
tenuta degli incastri tenone-mortasa, compromettendone anche del
tutto la funzionalità. Il legno d’ebano, invece, non
è soggetto a deformazioni, ma piuttosto a rotture o crepe, che
possono manifestarsi improvvisamente anche durante l’uso
dello strumento. L’accorgimento suggerito da Quantz e tuttora
in uso oggi, era di ungere lo strumento con olio di mandorle al
fine di rendere idrorepellenti le pareti interne del tubo ed
evitare così gli inconvenienti dovuti all’assorbimento
dell’umidità.
Diversi esemplari sono giunti sino a noi privi di
crepe o deformazioni e, senza dubbio, il legname impiegato per la
loro realizzazione era stato meticolosamente stagionato. Esisteva
un tempo in Inghilterra una procedura segreta per la stagionatura
della varietà locale di bosso, che consisteva nel seppellire
il legname sotto miscugli di terra e letame, lasciandolo riposare
per vent’anni o più. Pare che i costruttori antichi
attribuissero particolari proprietà al legno stagionato
secondo questa tecnica, responsabile forse anche
dell’accentuata colorazione miele di alcuni strumenti in
bosso che si sono conservati sino ad oggi. D’altra parte,
solo in un’epoca in cui i mestieri si tramandavano di padre
in figlio era possibile pianificare una stagionatura così
lunga, che faceva del legno un piccolo tesoro per gli eredi.
Il procedimento costruttivo
In passato, la costruzione del flauto e, più in
generale, degli strumenti a fiato in legno non richiedeva
competenze diverse da quelle possedute da qualsiasi buon tornitore,
anche se probabilmente solo i più abili sarebbero riusciti a
ottenere un buon risultato. Gli utensili impiegati nella
costruzione degli strumenti sono descritti in alcune opere
classiche sulla tornitura, come ad esempio L’art de
tourner en perfection di Plumier (1701) e il Manuel du
Tourneur di Bergeron[4] (1792 e 1816) e
compaiono anche nelle tavole dell’Encyclopédie di
Diderot (1751-1780).
Le testimonianze relative alla prassi costruttiva
dell’epoca sono invero piuttosto scarse e, del resto,
l’iniziativa di compilare descrizioni tecniche specifiche del
procedimento di costruzione non era per nulla conveniente: molto
più saggio era mantenere rigorosamente il segreto sui trucchi
del mestiere. Non si tratta di un caso, dunque, se l’unico
esempio di una simile descrizione ci è stato offerto da
Bergeron, il quale non era un costruttore, ma un noto avvocato.
Grazie a lui, siamo in grado di ricostruire almeno le fasi
fondamentali del procedimento che verosimilmente doveva seguire
ogni costruttore dell’epoca. Quanto ai dettagli di ogni
singolo passaggio, data la notevole variabilità in funzione
della geografia e persino delle abitudini dei singoli costruttori,
nulla può essere detto a un livello generale come quello della
nostra trattazione: la disponibilità di mezzi,
l’ingegno, l’esperienza o le consuetudini di famiglia,
infatti, influivano profondamente sulle scelte costruttive e, data
anche la scarsa circolazione di informazioni cui si è fatto
cenno, una ricostruzione esauriente è probabilmente
impossibile da realizzare.
Tutto aveva inizio con la scelta del legno, cui
seguiva la sua riduzione in blocchetti di dimensioni adeguate, vale
a dire di poco superiori a quelle del pezzo finito. Per un flauto
in quattro parti erano necessari quattro pezzi di legno della
medesima densità e colore, in modo da garantire un risultato
finale il più possibile omogeneo. Le parti erano ottenute per
spaccatura piuttosto che per segatura e le ragioni di tale
preferenza risiedevano nel fatto che il ricorso all’accetta
assicurava che la rottura avvenisse in corrispondenza dei naturali
punti deboli della struttura del legno, laddove la sega avrebbe
interrotto le venature e alterato gli equilibri interni ottenuti
dopo una lunga stagionatura. I pezzi erano quindi passati al tornio
per sbozzarne la sagoma esterna e poi accorciati, in modo da
ottenere dei cilindri di diametro e lunghezza di poco superiori a
quelli finali. A questo punto, si praticava longitudinalmente e
centralmente un foro di piccolo diametro, molto più stretto
rispetto a quella che sarebbe stata poi la cameratura dello
strumento. Per questo passaggio si adoperava una sorta di piccolo
trapano o un alesatore e si fissava il pezzo al tornio con una
lunetta, la quale consentiva da un lato di mantenerlo fermo e,
dall’altro, di avere facile accesso all’estremità
da forare. I pezzi così ottenuti erano lasciati riposare
ancora una volta al riparo dal sole e dall’umidità e,
grazie all’aria che poteva circolare all’interno, la
stagionatura avveniva in maniera molto più rapida ed
efficace.
Al termine di questa seconda stagionatura iniziava la
fase successiva della lavorazione, durante la quale veniva
allargato il foro pilota praticato in precedenza e veniva così
conferita alla cavità interna del tubo la sua forma
definitiva. Per compiere tale operazione venivano usati degli
alesatori, ovvero attrezzi simili a sgorbie, adatti alla
lavorazione all’interno del pezzo.
Dopo aver portato l’interno a forma definitiva,
si poteva passare alla realizzazione delle mortase. Si trattava di
fissare i pezzi al tornio, separatamente, servendosi di un mandrino
opportunamente sagomato che doveva essere preparato con la massima
cura poiché doveva far combaciare nel modo più preciso
possibile l’asse di rotazione del tornio con l’asse
della cavità interna del pezzo. In caso contrario, le pareti
esterne dello strumento avrebbero avuto spessore non uniforme e, di
conseguenza, l’incastro tra i pezzi avrebbe potuto essere
compromesso, così come le qualità sonore dello strumento.
Esternamente, in corrispondenza delle mortase, erano spesso
presenti degli anellini,[5] di solito con
funzione di abbellimento ma talvolta anche di rinforzo. Il loro
profilo interno era leggermente tronco-conico e venivano incollati
al pezzo subito dopo la lavorazione della mortasa.
A questo punto si procedeva con la tornitura esterna
definitiva durante la quale erano realizzati anche i tenoni,
opportunamente dimensionati in modo da poter entrare agevolmente
nelle mortase. A causa delle continue sollecitazioni meccaniche cui
erano sottoposti, essi non potevano avere lo stesso diametro delle
mortase, ma era necessario che vi fosse un certo gioco tra i due
pezzi. La stabilità dell’incastro era poi garantita
avvolgendo del filo cerato all’esterno del tenone e, per
evitare che quest’ultimo si spostasse quando lo strumento era
smontato, si praticavano delle tracce circolari.
Il passo successivo consisteva nel praticare i fori
di diteggiatura, il foro della chiave e quello
dell’imboccatura. Una volta determinata la loro corretta
posizione e il loro diametro esterno si procedeva alla foratura per
mezzo di un trapano dalla punta leggermente più piccola del
diametro del foro e si procedeva poi all’allargamento dei
fori pilota impiegando utensili di vario tipo, ad esempio delle
fresette coniche. Durante tutto il procedimento era necessario
controllare costantemente sia la misura del diametro del foro in
lavorazione, sia l’intonazione e la resa sonora dello
strumento, al fine di stabilire se l’allargamento fosse
sufficiente. Dopo quest’operazione, o anche
contemporaneamente, si praticava la svasatura interna dei fori.
Anche in questo caso gli utensili impiegati erano assai vari e
molto dipendeva dalle disponibilità e dall’ingegno del
singolo costruttore.
Le ultime fasi di lavorazione prevedevano
l’applicazione della chiave, la preparazione del cappuccio di
chiusura della testata e, ovviamente, la prova dello strumento,
alla quale potevano seguire diverse fasi di ritocco della svasatura
o del diametro dei fori per ottimizzare l’equilibrio di
intonazione dello strumento.
Gli utensili del mestiere
Gli alesatori
L’alesatore è un utensile impiegato per la
finitura di fori conici o cilindrici, dotato di spigoli di taglio
detti taglienti in grado di asportare piccoli spessori del
materiale in eccesso. La prima rappresentazione iconografica nota
di questi utensili si trova nell’illustrazione di Christoph
Weigel, Der Pfeiffenmacher (1698), oggi parte della Dayton
C. Miller collection (figura 1); il
dettaglio degli alesatori è rappresentato in figura
2. Altri alesatori sono raffigurati
nell’Encyclopédie (figura 3) e un
ulteriore esempio si trova nelle tavole annesse al trattato di
Bergeron (figura 4).
Pur nella semplicità del disegno, gli alesatori
dell’illustrazione di Weigel si possono ricondurre al tipo
illustrato con maggior dettaglio nelle tavole di Bergeron.
Indicazioni precise sul loro impiego sono fornite proprio da
quest’ultimo, che spiega come essi dovessero essere fissati
saldamente con una morsa mentre i pezzi venivano inseriti e ruotati
a mano.
Bergeron fornisce l’illustrazione di un unico
lungo alesatore da finitura (figura 4, in alto),
ma ne descrive anche altri quattro di lunghezza inferiore per le
corrispondenti parti del flauto, ciascuno dei quali riproduce un
determinato tratto dell’alesatore di finitura. Ognuno di essi
doveva essere più lungo dello stretto necessario di modo che,
quando l’usura ne avesse resa necessaria l’affilatura,
l’assottigliamento complessivo dell’utensile non ne
avrebbe compromesso la funzionalità.[6] Molto inverosimile,
invece, appare l’impiego del lungo alesatore di finitura cui
si è fatto cenno. Secondo Bergeron, esso avrebbe dovuto essere
usato sullo strumento già finito esternamente e assemblato,
bloccato in una morsa. La descrizione di questo passaggio,
così in contrasto con una valutazione dettata da elementare
buon senso, può essere un indizio in grado di confermare il
fatto che Bergeron non aveva mai costruito un flauto. Sembra del
tutto improbabile, infatti, che potesse essere prassi diffusa
quella di ruotare tutto lo strumento sull’alesatore facendo
leva su una morsa applicata a un solo pezzo perché i tenoni
non sarebbero mai rimasti solidali con le mortase; va aggiunto,
poi, che la testata del flauto, di forma interna cilindrica, non
avrebbe dovuto essere coinvolta in quest’operazione, ma di
questo dettaglio non è fatto il minimo cenno.
Quanto al concreto impiego degli alesatori, vi erano
due possibilità: essi potevano essere tenuti in mano mentre il
pezzo veniva ruotato, oppure si poteva ruotare l’alesatore
sul pezzo fissato a una morsa, a seconda della presenza o meno di
un’idonea impugnatura. Molto poco credibile appare invece
l’ipotesi che fossero usati con il pezzo caricato sul tornio
dato che la lavorazione, che richiedeva uno sforzo considerevole,
sarebbe divenuta pericolosa e potenzialmente
incontrollabile.[7]
Assai diversi sono gli alesatori rappresentati
nell’Encyclopédie: essi, infatti, appaiono
formati da un lungo manico cilindrico e da una parte terminale
raschiante, con diverse possibili forme tra cui quella a cucchiaio
(figura 3, n. 1), la quale permette di
raccogliere il truciolo durante la lavorazione per poi estrarlo
assieme all’attrezzo. Il modo d’impiego di questi
alesatori non è del tutto chiaro, soprattutto per quanto
riguarda la lavorazione delle cavità coniche caratteristiche
della cameratura del nostro strumento. Si può supporre che
essi venissero usati a mano per realizzare tratti cilindrici di
diverso diametro, ad esempio decrescente, in seguito raccordati con
leggera abrasione per ottenere un unico lungo tratto conico.
Il tornio
Il tornio è un utensile per produrre solidi di
rotazione. Ciò significa che ogni sezione di un pezzo tornito,
tagliata perpendicolarmente all’asse di rotazione, è
sempre circolare. A seconda del grado di evoluzione del tornio sono
possibili numerosi tipi di movimento e di interazione fra pezzo e
tagliente e tale versatilità ha motivato la straordinaria
importanza attribuita a questa macchina sin
dall’antichità.
A partire dal III secolo d.C. furono apportati
notevoli miglioramenti, soprattutto in relazione al sistema di
rotazione: un capo della corda guida fu allacciato a un pedale o a
una staffa e poi fatto passare attorno al pezzo da lavorare, mentre
l’altro capo era legato ad un palo flessibile, posto al di
sopra del tornio. L’adozione di questa tecnica aumentò
notevolmente la potenza di rotazione e presentava il vantaggio di
lasciare le mani libere durante la lavorazione. Interessanti esempi
sono rappresentati in figura 5, in figura
6 sullo sfondo e, con la massima chiarezza, in figura
7. Queste ultime due illustrazioni testimoniano che il
tornio con il palo flessibile, che ai nostri occhi appare molto
rudimentale, rimase in uso almeno fino alla fine del XVIII secolo,
nonostante fossero disponibili altre soluzioni (si veda ad esempio
il tornio ad azionamento manuale con due velocità, figura
6).
Le testimonianze scritte risalenti all’epoca
medievale e rinascimentale sono piuttosto scarse, ma non mancano di
interesse come nel caso di un disegno di Leonardo da Vinci,
appartenente al Codice Atlantico, che ritrae forse il primo esempio
di tornio in grado di combinare una rotazione continua, resa
possibile dal ricorso al volano, con la possibilità di impiego
indipendente da parte di un solo operatore.
Il primo trattato specifico di tornitura risale al
1701, anno in cui fu pubblicato L’art de tourner en
perfection dell’abate Charles Plumier. Nel 1678 Joseph
Moxon si era occupato di tornitura nel suo Mechanick
Exercises or the Doctrine of Handy-Works, il primo
trattato inglese che illustrò e descrisse l’uso degli
utensili di vari mestieri, tra cui l’arte del fabbro, la
gioielleria, l’orologeria, la carpenteria, la tornitura e la
muratura. Più tardi, nell’Encyclopédie
compilata fra il 1751 e il 1772, Diderot e D’Alembert
inclusero molte tavole in cui erano illustrati il funzionamento del
tornio e i lavori che era possibile eseguire con esso.
L’opera classica della tornitura antica, tuttavia, rimane il
Manuel du Tourneur pubblicato da L.E. Bergeron nel 1792:
comprende due volumi contenenti ben 96 tavole e illustra in grande
dettaglio quale fosse lo stato di quest’arte all’epoca,
anche se non era destinato ad artigiani veri e propri, ma agli
aristocratici che si dilettavano di tornitura.
Verso la fine del Settecento il tornio subì una
profonda evoluzione che lo trasformò in una macchina molto
sofisticata. Il tornio moderno non fu inventato nel vero senso
della parola, ma fu il risultato di un lento e graduale processo di
miglioramento. Un passaggio chiave in questo sviluppo fu
l’introduzione di un volano separato dal mandrino con la
funzione di mantenere uniforme la velocità e costante il verso
di rotazione. Già nel 1678 Moxon aveva descritto i vantaggi di
questo potenziamento osservando che il volano avrebbe permesso di
eseguire il lavoro molto più rapidamente rispetto a prima,
quando il sobbalzare del palo verso l’alto interrompeva di
continuo la rotazione; con un volano capace di immagazzinare
l’energia e ridistribuirla in modo uniforme, invece, il
lavoro avrebbe potuto fluire senza scosse e l’artigiano,
mentre agiva con le gambe su un pedale o su una manovella per
fornire energia al tornio, avrebbe potuto avere entrambe le mani
libere.
Un altro importante miglioramento fu la sostituzione
della struttura in legno con una in ferro, materiale più
resistente alle deformazioni, che permetteva tra l'altro
l’applicazione di un carrello mobile sempre perfettamente
allineato con l’asse di rotazione.
Altri utensili
Molti altri piccoli attrezzi occupavano i banchi da
lavoro dei costruttori di strumenti a fiato. Tra essi, in
particolare, si possono notare alcuni strumenti per il controllo
della lavorazione e la misura degli strumenti. In figura
8, ad esempio, è raffigurato un calibrino conico,
descritto nel trattato di Bergeron, munito di indicatori in
corrispondenza di diversi diametri di circonferenza: un simile
utensile era prezioso durante la fase di allargamento definitivo
dei fori di diteggiatura poiché consentiva di capire quanto
mancasse al raggiungimento della dimensione finale. Un altro
esempio può essere il calibro ad arco di figura 9,
descritto sempre nel medesimo trattato, che consentiva di prendere
misure dall’interno o dall’esterno del tubo, mediante
le punte d ed e, e di leggerne il valore con una
certa precisione rilevando la lunghezza dell’arco BC
sulla scala graduata.
Un altro attrezzo indispensabile era la fresetta
conica per l’allargamento dei fori, rappresentata in figura
10, il cui impiego è facile da intuire. Molto
interessante, poi, è una seconda fresetta per la svasatura
interna, riportata in figura 11, composta
da un manico provvisto di una comoda impugnatura e di
un’astina filettata nella parte terminale, cui andava
avvitata l’altra porzione dell’utensile, consistente in
un piccolo tronco di cono zigrinato. Facendo scorrere
quest’ultimo all’interno del tubo sino al
raggiungimento del foro da svasare, era possibile avvitarvi il
manico attraverso lo stesso foro e sollevare l’attrezzo per
raschiare, ruotando, la parte interna della cavità.
Per completezza, la tavola tratta dal Manuel
di Bergeron è riprodotta integralmente in figura 12.
SECONDA PARTE – INTERVISTA A UN
COSTRUTTORE[**]
Per capire in quale misura i metodi costruttivi
attuali si discostino da quelli del passato si è pensato di
intervistare Michele Losappio, un noto costruttore di copie di
strumenti a fiato storici, il cui laboratorio si trova a Castel San
Gimignano, in provincia di Siena.
Per quanto riguarda i flauti traversi, fra i suoi
modelli di riferimento sono compresi due flauti di fine Seicento e
inizio Settecento, ovvero un Hotteterre e un Denner, un paio di
metà Settecento, ovvero un Villars e il classico Rottenburgh
(o anche un Palanca), e un Kirst di fine Settecento. Si tratta di
strumenti dalle caratteristiche piuttosto eterogenee, dal punto di
vista sia costruttivo che strumentale in senso lato. Gli abbiamo
chiesto di illustrare gli aspetti più propriamente tecnici del
procedimento da lui seguito per costruire la copia, senza
trascurare qualche riflessione sull’atteggiamento del
costruttore moderno nei confronti dell’originale. La
discussione ha avuto inizio proprio a partire da quest’ultimo
punto.
Qual è, secondo lei, il
rapporto del costruttore di oggi con lo strumento
d’epoca?
Penso che sia sostanzialmente simile a quello che
c’era tra costruttore e strumento all’epoca: si parte
comunque da un modello, solo che nel caso del costruttore moderno
si tratta di un esemplare antico, nella scelta del quale
intervengono fattori diversi come quello commerciale e la moda. A
parte questo, tuttavia, anche all’epoca i costruttori avevano
di certo consolidato un modello o più di uno, derivanti da
altri precedenti con modifiche più o meno consistenti, anche
in relazione alle esigenze dei musicisti.
Il fatto che siano trascorsi
alcuni secoli e che moltissime informazioni relative non solo alla
costruzione, ma anche alla prassi esecutiva siano state perdute per
sempre può indurre ad assumere un atteggiamento piuttosto
rigido di fronte all’originale, a fare cioè di ogni
singolo esemplare un modello.
Naturalmente, all’epoca c’era molta
variabilità, anche nell’ambito della produzione di uno
stesso costruttore, causata non di rado dalla non controllabile
qualità del legno. Premesso che è indispensabile studiare
il maggior numero possibile di originali per acquisire
informazioni, capire i metodi di lavorazione e individuare i
modelli, due sono gli atteggiamenti che è possibile assumere:
mirare alla riproduzione più fedele possibile di un
particolare originale, che magari non può più essere
suonato, oppure far proprie le caratteristiche fondamentali di uno
strumento – come la cameratura, la posizione e il diametro
dei fori – e costruire strumenti dotati di vita propria, che
si discostano dall’originale in particolari più sfumati
e aggiornati alle esigenze dei musicisti. Di fatto, anche se in
rari casi può capitare che l’originale prescelto
presenti già di per sé caratteristiche compatibili con la
nostra pratica musicale – soprattutto relativamente
all’intonazione e al diapason – di norma accade che le
richieste dei committenti impongano notevoli forzature.
Personalmente, ritengo sia corretto fare in modo che
la copia somigli il più possibile all’originale, ma
credo sia altrettanto sensato costruire strumenti adattati alle
nuove esigenze. Un ruolo fondamentale, in questo senso, è
rivestito dai suggerimenti dei musicisti, che spesso richiedono
aggiustamenti imposti dalla viva pratica del loro strumento. Nel
caso di strumenti dal modello ben consolidato come quelli di fine
Settecento, queste modifiche sono piuttosto ridotte.
Oggi la prospettiva del
costruttore è diversa perché può contare sulla
visione sinottica di una grande quantità di modelli, dei quali
può astrarre le caratteristiche locali; è poi possibile
preparare un catalogo con vari tipi di strumenti da proporre ai
possibili acquirenti. All’epoca, invece, ogni artigiano aveva
il suo concetto di strumento, il suo strumento.
Anche all’epoca c’era notorietà,
commercio, scambio. Tanto più che in merito alla costruzione
degli strumenti a fiato non c’erano molti segreti da
custodire gelosamente come accadeva invece nel caso dei liutai, che
dovevano seguire un procedimento costruttivo molto più
articolato.
Via via che si conoscono strumenti nuovi, che li si
studia e li si misura, emergono caratteristiche che si ripetono e
ci si rende conto che, con il passare del tempo e in modo molto
chiaro verso la fine del Settecento, i modelli si erano
consolidati. Tralasciando le differenze regionali, insomma, si
può affermare che il procedimento avviatosi all’inizio
del Settecento, o anche prima con il flauto conico barocco, era
arrivato a maturazione completa nel giro di un centinaio
d’anni e che le forme si erano consolidate molto nettamente.
Nel caso di alcuni costruttori particolarmente precisi, si può
addirittura notare che il modello è sempre lo stesso.
Con quale criterio sceglie
il materiale per costruire la copia?
All’inizio della mia attività, vale a dire
circa venticinque anni fa, usavo del bosso locale. Il problema
posto dalla varietà nostrana, il Buxus sempervirens,
non riguarda tanto la qualità del legno in sé, quanto
piuttosto il fatto che da noi, normalmente, il bosso è potato
a siepe e si trova quindi solo in pezzatura corta e contorta. In
seguito ho usato anche varietà non nostrane di bosso, come il
Buxus balearica, proveniente dai Pirenei e molto conosciuto
anche in epoca antica.
Normalmente, in Italia si possono trovare pezzi di
tronco del diametro di circa 10 centimetri, o di poco più
grossi. Bisogna tenere presente che, per raggiungere dimensioni
modeste come queste, il bosso impiega moltissimo tempo, circa
settant’anni e anche di più. Il Buxus balearica,
invece si può trovare con facilità in pezzature
decisamente maggiori (figura 13).
In commercio si trova già squadrellato oppure in
tronco e, generalmente, è piuttosto fresco e bisogna quindi
provvedere alla stagionatura. Ovviamente, si tratta di una fase
molto delicata.
Pare che, un tempo, fosse
abbastanza diffusa l’usanza di seppellire il legno sotto il
letame per venti o anche venticinque anni. Naturalmente si tratta
di un metodo improponibile oggi…
Anch’io ho letto di quest’usanza di
seppellire il legno o addirittura di esporlo nelle stalle ai
liquami degli animali. Il vantaggio di questa pratica,
probabilmente, derivava dal fatto che alcune sostanze, come
l’ammoniaca, avevano il potere di evitare la formazione di
muffe e, dunque, il deterioramento del legno. Bisogna tenere
presente, infatti, che se è vero che nella prima fase di
stagionatura è necessario conservare il legno in un ambiente
piuttosto umido per evitare che si secchi troppo rapidamente,
è vero anche che, nel caso di un tronco appena tagliato e
contenente moltissima acqua, succhi e sostanze zuccherine, ciò
significa esporlo al rischio di muffa. Non è escluso, poi, che
l’esposizione del legno ad un simile ambiente chimico
conferisse alcune particolari caratteristiche come, ad esempio,
l’apprezzato color miele. All’epoca era ben noto anche
il procedimento con l’acido nitrico, responsabile della
stessa colorazione miele, anche più scura ed ambrata.
Ad ogni modo, come è facile intuire, si tratta
di un procedimento che oggi nessuno usa più. Personalmente,
ritengo necessario lasciar passare un congruo numero di anni dal
momento di acquisto del legno, circa cinque o sei. C’è
una prima fase, che copre i primi due anni circa, in cui il legno
contrae notevolmente le proprie dimensioni, in modo assai diverso a
seconda che la direzione sia radiale o longitudinale. Se si
iniziasse a lavorarlo prima che essa sia trascorsa, quasi
sicuramente lo si spaccherebbe.
La stagionatura è un procedimento sulla cui
durata non è possibile intervenire: oltre
all’evaporazione dell’acqua, deve verificarsi un vero e
proprio mutamento chimico legato al filtraggio dell’ossigeno,
la cui lentezza è proporzionale allo spessore del legno. Se
è possibile intervenire sulla diminuzione dell’acqua,
non lo è invece sul reale procedimento di stagionatura, che
non può quindi essere indotto artificialmente.
L’equilibrio è molto delicato, ma il procedimento è
semplice: all’inizio bisogna tenere il legno in ambiente
piuttosto umido, facendo sempre molta attenzione alle muffe; poi,
man mano che procede la stagionatura, lo si sposta in ambienti
più secchi. Il freddo non rappresenta un problema per il
legno, ma bisogna aver cura di tenerlo lontano dalle correnti
d’aria.
Le alterazioni che si
manifestano anche molto tempo dopo la realizzazione dello
strumento, come ad esempio l’incurvarsi del legno, si possono
ricondurre al processo di stagionatura o vi sono altri fattori da
considerare?
La tendenza a piegarsi, tipica del bosso, dipende sia
dal legno in sé, sia dalla direzione della venatura nel pezzo,
che dovrebbe essere il più dritta possibile. La scelta ideale
è quella fatta a partire da pezzi di quarto, ovvero tagliati
radialmente, in seguito lavorati cercando di escludere il centro;
quest’ultima accortezza, nel caso in cui il pezzo da eseguire
sia particolarmente grande, come una campana di oboe o di
clarinetto, non è sempre traducibile in pratica. Osservando
gli originali, comunque, si può constatare che questo criterio
di scelta era assunto anche dai costruttori antichi: la maggior
parte degli strumenti conservati, infatti, è stata costruita a
partire da un pezzo di quarto orientato sempre nello stesso modo,
come rivela l’angolo formato dagli anelli.
Anche le vicissitudini subite dagli alberi prima del
taglio e della stagionatura possono influire sul comportamento
successivo dello strumento. Determinante in questo senso è la
stagione in cui l’albero è stato tagliato: la stagione
preferita di norma è l’inverno, perché in quel
periodo l’albero non è in vegetazione e contiene una
minor quantità di liquidi e sostanze zuccherine.
Qual è il fattore
prevalente che orienta la scelta del tipo di legno da parte del
costruttore moderno?
Salvo eccezioni, la tendenza prevalente è quella
di riprodurre gli originali con il legno in cui sono stati
costruiti. Per buona parte del Settecento l’essenza preferita
è stata il bosso; solo in un secondo momento, soprattutto
all’epoca di Quantz, l’ebano ha goduto di maggior
fortuna.
La scelta di adottare lo stesso legno del modello non
è di secondaria importanza dato che i risultati sono
sensibilmente differenti. Poiché la tendenza comune dei
costruttori antichi era quella di mantenere il più possibile
costante la massa degli strumenti e poiché materiali diversi
hanno pesi specifici diversi, gli spessori venivano modificati, pur
mantenendo inalterate la struttura interna e le distanze. Tutto
questo aveva un senso e dovrebbe indurre un costruttore
coscienzioso ad introdurre modifiche nella realizzazione di una
copia commissionata con un legno diverso da quello
dell’originale.
Quali sono le prime
operazioni da compiere sul legno pronto per la
lavorazione?
Normalmente un tronco grosso viene aperto a metà
per essere lasciato libero di assestarsi. Non è detto che
debba essere subito ridotto a quadrelli, anzi. In genere ciò
non è conveniente perché in questo modo il legno è
maggiormente esposto alle deformazioni e quindi è meglio
suddividerlo dopo un certo periodo di stagionatura.
Un’accortezza da adottare è quella di paraffinare le
estremità del quadrello per evitare un’evaporazione
troppo veloce attraverso i tubi tagliati. Una squadratura regolare
può essere fatta con una sega a nastro, oppure con una sega a
mano, probabilmente usata anche dai costruttori dell’epoca,
con la quale possono essere praticati anche dei tagli prismatici.
Secondo alcuni, l’impiego di una sega a nastro o circolare
potrebbe non essere senza conseguenze a causa della notevole
velocità, ma si tratta di affermazioni difficilmente
verificabili.
In diverse fonti l’uso
dell’accetta è nettamente preferito, nonostante i suoi
rischi, a quello della sega. Cosa ne pensa?
Non ho mai usato l’accetta, anche se può
avere il considerevole vantaggio di seguire senza tagli la
linearità delle fibre del legno, evitando così che
l’evaporazione avvenga in maniera non omogenea, con
velocità diverse in parti diverse. In realtà si tratta di
un accorgimento comunemente adottato dai carpentieri, ai quali
è ben noto che il legno segato dura molto meno di quello
spaccato: ciò dipende dal fatto che, in corrispondenza del
taglio, l’evaporazione dell’acqua è molto rapida e
si apre anche una via d’accesso ai parassiti. Nonostante
questo vantaggio, comunque, si tratta di una tecnica per nulla
diffusa fra i costruttori moderni, anche perché,
probabilmente, i colpi inferti con l’accetta inducono traumi
meccanici notevoli e microfratture che si possono manifestare in un
secondo momento. Va detto, poi, che un legno come il bosso, non
presentando una venatura regolare, non si può fendere con
facilità. In conclusione, insomma, si può quantomeno
restare in dubbio che i vantaggi derivanti dal ricorso alla
spaccatura pareggino i rischi.
Abbiamo detto che la
lavorazione ha inizio quasi sempre da un quadrello (figura
14). Come si procede?
Il quadrello viene stondato con una pialla o un
coltello, ma si può usare anche il tornio (figura 15).
Alla sgrossatura cilindrica può eventualmente seguire un altro
periodo di riposo, trascorso il quale si pratica un foro pilota di
circa 8-9 millimetri di diametro, tenendo presente che i tratti
più stretti nella cameratura di un flauto barocco presentano
un diametro di circa 11-13 mm. Non è detto che il foro venga
subito centrato con l’esterno: molto dipende dalla tecnica
impiegata. L’esecuzione di questo passaggio è
particolarmente delicata, soprattutto nel caso delle traverse
rinascimentali, dato che è praticamente impossibile realizzare
un unico foro perfettamente centrato di ben 60 cm.
L’accorgimento da adottare in ogni caso è quello di
mantenere uno spessore sufficiente per correggere il foro in un
secondo momento.
Si possono usare punte di diverso tipo. Io ho sempre
impiegato delle normali punte elicoidali, da trapano, ma ci sono
anche le punte a cucchiaio, che scavano e raccolgono il truciolo in
modo che, quando le si estrae, quest’ultimo possa uscire
tutto in una volta. Ricorrendo a sistemi più sofisticati e
facendo uso del tornio, si può procedere forando da entrambe
le parti sino al centro, dove i due tratti si riuniscono.
Fino a questo punto, il
procedimento non è molto diverso rispetto a quello dei
costruttori antichi. Secondo Bergeron, giunti a questo stadio,
occorre lasciar stagionare il pezzo e, quando è pronto, si
può procedere con l’alesatura e la rifinitura
dell’interno. A tal fine, prescrive l’uso di ben
quattro alesatori – uno per ogni pezzo dello strumento
– e di un quinto per la rifinitura, tronco-conico e di
lunghezza pari a quella del flauto montato.
Io ho usato più tecniche diverse. Per le
alesature coniche ho seguito un procedimento diverso da quello che
indica Bergeron. In realtà, anche se realizzabile,
l’idea di ricorrere a un alesatore lungo quanto tutto lo
strumento è piuttosto poco pratica. Personalmente, ho sempre
usato degli alesatori conici leggermente più lunghi del pezzo,
dotati di uno o più taglienti (figura 16) e il
risultato che permettono di ottenere potrebbe già essere
considerato definitivo. Si tratta di coni in acciaio cui vengono
asportati uno o più spicchi in modo da ottenere dei taglienti;
questi ultimi non funzionano come un fresa, quanto piuttosto
secondo il principio della rasiera, una lamina in acciaio in grado
di tagliare sugli spigoli: la lama viene affilata e poi, con un
acciarino, viene schiacciata in modo che il bordo sporga un
po’ in fuori. Per poter compiere quest’operazione,
l’acciaio per gli alesatori non deve essere troppo duro e
ciò rende necessarie frequenti riaffilature, ogni due o tre
lavorazioni circa.
Ci sono due modi di usare un alesatore: è
possibile mantenerlo fermo e far ruotare il pezzo in lavorazione,
oppure fissarlo al mandrino e tenere il pezzo in mano.
In che modo si ottiene
l’alesatore giusto per ogni flauto?
A questo punto bisogna accennare a una questione un
po’ delicata, ossia al fatto che le camerature degli
strumenti originali non sono quasi mai un cono preciso, ma possono
presentare conicità irregolare o giustapposizione di tratti
conici differenti. In molti casi, probabilmente, i costruttori
intervenivano successivamente con alesatori più corti per
apportare le necessarie correzioni in alcuni punti.
In generale, quando ho scelto un originale da
riprodurre, procedo alla misurazione della cameratura interna nel
modo più accurato possibile, vale a dire con una tolleranza
dell’ordine di grandezza di mezzo decimo di millimetro.
Esistono svariati metodi: quello cui ricorro di solito è
piuttosto intuitivo e consiste nell’introduzione di calibrini
campione in plexiglass (figura 17) a
diametri distanziati di un decimo di millimetro, che si fermano
quando incontrano la stessa misura nel diametro della cameratura.
Si misura la lunghezza di quest’ultima in corrispondenza di
ogni diametro e si costruisce un diagramma. Confrontando diagrammi
di strumenti diversi, è possibile risalire al modello seguito
da un certo costruttore e apprezzare il grado di precisione con cui
lavorava. Gli strumenti del primo Settecento sono in genere
più irregolari e ciò fa supporre che i costruttori
intervenissero di frequente in un secondo momento con altri
alesatori per rimediare ad alcuni problemi di intonazione.
Oltre a questo semplice metodo di misurazione e senza
considerare metodi estremamente sofisticati ma difficilmente
accessibili come radiografie, fotogrammetrie, eccetera, esiste un
altro sistema meccanico, non invasivo, che prevede l’uso di
un comparatore: misurando lo spessore da un lato, dal lato opposto
e il diametro esterno è possibile ricavare per differenza una
misura molto accurata del diametro interno. Questo procedimento
è efficace anche nel caso di camerature a botte e, dato che
può essere ripetuto con qualsivoglia angolo di rotazione,
permette anche di verificare quanto un pezzo sia ovalizzato.
Ricapitolando, per mettersi nelle condizioni di poter
eseguire una copia con un grado accettabile di fedeltà sono
indispensabili: una misurazione della cameratura, corredata da una
tabella che riporti i diametri per ogni decimo di millimetro; una
misurazione accurata dell’esterno, realizzata con un calibro;
un’osservazione attenta, preferibilmente con uno specchietto,
della forma dei fori compreso quello d’insufflazione, per il
quale sarebbe molto utile un calco.
Durante la costruzione delle copie, applico un metodo
di controllo della cameratura interna, al computer. Una curva
rappresenta il rilievo dello strumento originale mentre una o
più curve sono relative allo strumento o agli strumenti in
fase di costruzione. In questo modo è possibile verificare se
la lavorazione procede nella maniera corretta: è un controllo
molto accurato che, nel contempo, offre anche informazioni sullo
stato degli utensili. Di solito rilevo i dati ogni volta che un mio
strumento torna nel laboratorio e li conservo. È utile, ad
esempio, per stabilire se uno strumento ha bisogno di essere
nuovamente alesato.
Ha accennato al caso delle
camerature a botte: come le realizza?
Inizialmente usavo un metodo piuttosto semplice:
prima praticavo un’alesatura cilindrica e poi intervenivo con
carte vetrate via via sempre più fini per scavare
l’interno, controllando con una specie di sonda. Attualmente,
invece, quando c’è un buon rapporto fra la lunghezza e
il diametro del pezzo, che consenta cioè di entrare con una
certa facilità, ricorro ad un sistema di alesatura più
sofisticato, messo a punto da me e che probabilmente non è
molto diffuso fra i costruttori. Si tratta di una sorta di
tornitura interna: il pezzo, con il foro primario già
praticato, viene fissato sulla lunetta e fatto girare mentre si
procede alla tornitura dell’interno con un utensile molto
lungo che ho costruito io stesso, agendo per metà da un lato e
per metà dall’altro. Si potrebbe definire una tornitura
a controllo numerico eseguita manualmente poiché
c’è una tabella che prescrive il diametro corretto per
ogni punto. È un metodo che consente di realizzare qualunque
tipo di alesatura e che presenta i due importanti vantaggi di non
rendere necessaria la costruzione di un alesatore per ogni pezzo e
di indurre sul legno un trauma assai minore rispetto al
procedimento tradizionale. Va detto che un metodo come questo non
era di certo alla portata dei costruttori antichi poiché, per
ottenere un buon risultato, è indispensabile poter disporre di
un tornio dalla meccanica perfettamente funzionante.
Bergeron si limita a dire di
fissare l’alesatore a una morsa e di girare a mano,
lentamente.
Molti costruttori lasciano a questo grado di
rifinitura e, del resto, molti originali sono stati rifiniti
così. Sono però necessari accorgimenti particolari e
grande attenzione, perché con l’alesatura a mano è
facile influire sulla centratura del pezzo. Dopo l’alesatura
è necessario controllare per cercare di avvicinarsi il
più possibile ai valori della tabella, intervenendo anche con
carte vetrate, con olio o a secco, sino al raggiungimento di un
risultato soddisfacente. A questo punto si taglia il pezzo nel
punto giusto – il pezzo va sempre mantenuto leggermente
più lungo del necessario – e la finitura interna è
ultimata. Si può quindi procedere con la finitura esterna del
flauto.
E l’alesatura
cilindrica?
Solitamente procedo come per l’alesatura
conica, seguendo il metodo che ho messo a punto e di cui abbiamo
discusso poco fa. In alternativa, si adopera un utensile con vari
terminali di ricambio a seconda del diametro (figura 18).
Ogni passaggio richiede interventi correttivi sulla centratura
perché capita di scavare più da una parte che
dall’altra. È probabile che utensili simili a questi
fossero usati dai costruttori antichi anche per realizzare
alesature coniche, dato che è molto più semplice agire su
tratti corti. Questa ipotesi appare confermata dal fatto che, negli
originali, si riscontrano talvolta tratti giustapposti, lunghi fino
una decina di centimetri, realizzati con coni diversi.
Anch’io all’inizio ho usato una tecnica simile, ma
quando ho cominciato a costruire gli alesatori ho preferito dar
loro direttamente la forma irregolare del pezzo.
Come si realizzano le
mortase e i tenoni?
Interessano l’ultima fase della lavorazione,
quando è stata individuata l’intestazione definitiva del
pezzo ed esso è stato tagliato longitudinalmente, alesato
all’interno e lucidato all’esterno. Il pezzo viene
montato sul tornio con la lunetta e l’utensile per il taglio
viene fissato sul carrello con una leggera inclinazione,
dell’ordine di un grado. Finita la lavorazione, che
verrà in forma leggermente conica, si procede incollando
l’anello già predisposto, anch’esso con sagoma
interna leggermente conica. La mortasa si fa con lo stesso
utensile, ma operando dall’interno: una volta decisa la
profondità, si regola il tornio in modo che l’utensile
avanzi per la misura desiderata, sino a terminare in battuta sul
pezzo.
A questo punto, si può
passare alla finitura dell’esterno.
Esattamente. Si fissa il pezzo al tornio
dall’interno, con uno spinotto, in modo che la superficie
resti libera per la lavorazione. Le parti cilindriche e
pseudo-cilindriche sono più semplici e rapide da realizzare,
mentre nel caso di quelle curve intervengo manualmente sgrossando
dapprima la sagoma esterna in modo da produrre dei gradini ed
eseguendo poi il raccordo a mano. La tornitura esterna è
un’operazione piuttosto laboriosa, ma non eccessivamente
complessa.
Infine, si praticano i fori
e si applicano le chiavi.
Si tratta proprio dell’ultimo passaggio nella
costruzione dello strumento. Inizialmente si praticano dei fori di
circa mezzo millimetro più piccoli rispetto al loro diametro
definitivo e poi si procede allargandone l’interno per mezzo
di vari utensili, come coltellini o raschietti. Per forare si usa
il trapano a colonna: il pezzo viene fissato orizzontalmente fra
due supporti laterali con due tappi protettivi, usando una punta di
dimensioni adeguate; nel caso dei flauti non capita mai di dover
praticare dei fori in diagonale. Per svasare si ricorre ad utensili
piuttosto semplici, come limette o cilindretti metallici ricoperti
di carta vetrata e si procede controllando l’interno con una
guida di luce in plexiglass e uno specchietto.
Naturalmente, i fori hanno una disposizione ben
definita a seconda dal modello: in genere, negli strumenti la cui
produzione è ormai consolidata, la posizione e le dimensioni
sono ben definite, ma a volte è bene fare delle prove e
intervenire se sono necessari dei ritocchi. Altre volte, nel caso
di committenti esperti, tengo conto delle esigenze e dei desideri
dei musicisti, per cui si può affermare che alcuni di loro
contribuiscano al consolidarsi di un modello. A parte ciò,
comunque, cerco sempre di riprodurre con la massima fedeltà la
svasatura degli originali.
E per quanto riguarda i
trattamenti esterni?
Il bosso, di solito, viene verniciato per motivi
estetici. Esiste poi la possibilità di eseguire il trattamento
con acido nitrico, che tendo ad applicare anche a flauti i cui
originali sono in bosso naturale. Ritengo, infatti, che la finitura
influisca sul timbro dello strumento, migliorandolo
sensibilmente.
Alcune riflessioni
conclusive
Dal confronto fra procedimento antico e procedimento
moderno emergono senza dubbio alcune differenze ma, di fatto,
sembrano prevalere le somiglianze. All’origine delle prime si
colloca in modo più o meno diretto l’evoluzione
tecnologica subita dal tornio, che ha interessato sia lo schema del
suo funzionamento – con il passaggio dall’azione
discontinua del pedale alla rotazione continua impressa dal motore
elettrico – sia il grado di affidabilità e di
precisione, sia, infine, la potenza esercitata. In virtù di
tale profonda trasformazione, alcuni passaggi che un tempo erano
eseguiti a mano o con altri utensili, oggi possono essere eseguiti
a macchina, con particolare riferimento alle fasi di foratura
iniziale e di alesatura. È in operazioni come queste, dunque,
che le innovazioni tecnologiche apportate nel secolo scorso
potrebbero aver influito nel modo più consistente: tutto
dipende dagli intenti che guidano la lavorazione e dal modo in cui
si ricorre ai mezzi disponibili.
Nel caso del procedimento illustrato da Michele
Losappio, una scelta che ha segnato un consapevole scostamento
dalla prassi probabilmente diffusa fra gli altri costruttori è
stata quella di adottare un metodo originale di tornitura interna,
che ha sostituito la tradizionale alesatura a mano. La messa a
punto di questo sistema ha richiesto anni e un lungo studio degli
strumenti, dei materiali e delle tecniche, arricchito dalla
considerazione delle valutazioni e dei suggerimenti degli
esecutori. Tutto ciò nel contesto di un ricorso limitato a
risorse tecnologiche sofisticate, su cui si pone in risalto
l’iniziativa di produrre in proprio e su misura gli utensili
necessari.
Avendo consapevolezza di semplificare, si potrebbe
affermare che vi sono due modi possibili di sfruttare le moderne
tecnologie, corrispondenti ad altrettanti progetti di costruzione
della copia: ve n’è un primo che tende a riconoscere
nell’elevato livello di precisione consentito
dall’applicazione dei metodi più sofisticati una via di
legittimazione della copia, che appare così quasi come
l’originale ritornato in vita, e ve n’è un secondo
che tiene conto delle innovazioni e spesso si serve di esse come
base per attuare una sperimentazione mirante a dare nuova vita allo
strumento. Si tratta dei due diversi atteggiamenti che erano stati
individuati ancora all’inizio di questo breve studio e ai
quali, in linea con quanto appena affermato, era stata associata
una connotazione rispettivamente passiva e attiva del ruolo del
costruttore. Vale la pena di precisare, forse, che un’opera
di ricostruzione come quella coinvolta nel secondo caso non
può avvenire senza una profonda conoscenza storica da parte
del costruttore, né senza l’onesta dichiarazione della
natura e della quantità degli interventi eseguiti.
Dal punto di vista di coloro che sono animati da un
intento documentario, il poter disporre di tecniche radiografiche,
ultrasonografiche e di risonanza magnetica, la possibilità di
realizzare disegni digitali, di servirsi di tecniche non invasive
per il riconoscimento delle essenze, delle leghe metalliche e degli
adesivi organici è, prima di ogni altra cosa, ciò che
mette nella possibilità di produrre copie di elevata
fedeltà. Sarebbe forse il caso di chiedersi, tuttavia, quale
legittimazione potrebbe avere la pretesa di realizzare una copia
praticamente identica all’originale nel caso in cui si sia
poi costretti ad introdurre modifiche imposte da esigenze pratiche.
Fermo restando che il ricorso a ogni innovazione che consenta la
più esatta acquisizione dei dati e la più fedele
riproduzione dell’originale è senz’altro legittimo
e auspicabile nel caso in cui l’intento sia puramente
documentario, si potrebbe dubitare di poter affermare altrettanto
qualora la copia sia destinata all’esecuzione, dato che il
contrasto fra la minuziosità della riproduzione e la
consistenza delle modifiche imposte sarebbe davvero troppo
stridente. Un aspetto più prezioso della lezione degli
antichi, forse, è il ripristino della dimensione sperimentale
e creativa, tanto a livello costruttivo quanto a livello esecutivo,
e ciò è come dire che l’oggettività del
recupero, tanto cara ai contemporanei, non comporta automaticamente
l’autenticità del risultato, la quale potrebbe invece
essere avvicinata in virtù del contributo non controllabile,
ma assai fecondo, del singolo costruttore.
In questo senso, si potrebbe addirittura affermare
che la differenza fra i due atteggiamenti sopra individuati sia da
ricercare piuttosto sul piano delle intenzioni che su quello del
risultato. Forse si può estendere anche al nostro caso quanto
fa osservare Cesare Brandi in merito alla copia la quale, a
prescindere dallo scopo che ne anima l’esecuzione, proviene
sempre da una cultura storicamente determinata e, di conseguenza,
è inevitabilmente orientata a documentare «quello che le
predilezioni o la moda del momento soprattutto apprezzano e
ricercano nell’opera, che non sarà mai l’opera
nella sua totale fenomenologia, ma questo o
quell’aspetto». Da tutto ciò, conclude Brandi,
discende che «anche le copie hanno una data, rivelano di
appartenere ad un periodo storico, a meno che non siano state
ottenute con procedimenti meccanici, e anche in questo caso
sarà difficile, ma non sempre impossibile distinguerle
dall’originale».[8]
In fin dei conti, come Losappio ha osservato, è
vero che il rapporto del costruttore di oggi con lo strumento
d’epoca non è dissimile nella sostanza da quello che
c’era un tempo fra costruttore e strumento: in entrambi i
casi l’opera dell’artigiano è ed era soggetta a
vincoli, solo che nel primo caso essi si impongono in virtù di
un’autorità mentre, nel secondo, il rispetto del modello
aveva giustificazione eminentemente pratica. Nulla doveva essere
preservato in forza di una necessità intrinseca, ma tutto era
soggetto a miglioramento: nel modello, infatti, si stratificavano
le esperienze e le soluzioni più efficaci ai problemi via via
posti dalla viva pratica musicale, per cui esso era, di fatto, un
concentrato instabile delle migliori innovazioni raggiunte a una
certa data, in un certo luogo. Per questo motivo possiamo
ipotizzare che gli antichi forse faticherebbero a comprendere le
ragioni del nostro interessamento minuzioso per dettagli destinati
a essere aggiornati, a volte anche in breve tempo, in funzione
delle innovazioni tecniche e dei mutamenti del gusto. Una
manifestazione dell’atteggiamento decisamente non astratto
che li differenziava da noi, del resto, era l’assenza di
scrupoli che caratterizzò per secoli l’abitudine di
intervenire su strumenti di epoche precedenti con modifiche anche
irreversibili, determinate dalle esigenze del momento. Abitudine
che, d’altra parte, è apparsa particolarmente urtante
solo negli ultimi decenni.
Questo stato di cose vige anche in altre arti, non
solo nella musica. Con la stessa noncuranza per l’oggetto in
sé, ad esempio, le pale d’altare venivano decurtate
quando le loro dimensioni non erano più adeguate alla nuova
collocazione e i rigattieri di Parigi mettevano in vendita sul
marciapiede, tra un vecchio ferro da stiro e un passeggino senza
ruote, le tele di Utrillo, del Doganiere e di Picasso. Oggi, tutti
questi oggetti sono gelosamente conservati, strappati ai loro
contesti originari e contemplati come testimonianze di una passata
grandezza, con una rigidità che espone al rischio di
cristallizzare il rapporto con l’oggetto antico.
Paradossalmente, a mio avviso, una connotazione
attiva dell’operare del costruttore di oggi, sia a livello
dei dettagli morfologici dello strumento, sia a livello di messa a
punto di nuove tecniche costruttive, avvicina nella sua essenza il
lavoro del costruttore antico più di quanto una copia
idealmente perfetta avvicini il suo modello, dato che
quest’ultima non sarà mai in grado di restituire un
suono il cui inscindibile correlato di gusto, sensibilità e
tecnica esecutiva non può essere autenticamente recuperato.
Accostarsi alle vestigia di ciò che un tempo partecipava di
un’attività rigogliosa, vivace e in costante mutamento
con uno sguardo freddo e oggettivo non potrà che moltiplicare
la distanza che intende abolire, mentre la ricerca di una sintesi
con il gusto, la sensibilità e la tecnica esecutiva di oggi
potrà, forse, permettere di preservare il più prezioso
aspetto di continuità con il passato, una musica non
antiquaria, ma viva.
È plausibile, oltretutto, che se per ipotesi
fosse possibile ascoltare un’esecuzione antica, essa
riscuoterebbe assai meno consensi di quanto ci si potrebbe
aspettare, anche in considerazione del fatto che già le prime
testimonianze sonore tardo ottocentesche di esecutori apprezzati
all’epoca lasciano piuttosto perplesso l’ascoltatore di
oggi. Molti, dunque, sarebbero d’accordo con
l’ammonimento di Robert Donington: «The effectiveness of
an authentic instrumentation cannot altogether be judged or
enjoyed, we must always remember, until the performance is of
the same professional excellence as would be expected on modern
instruments».[9]
Questa posizione, credo condivisibile, sbarra la
strada del ritorno al ‘suono degli antichi’, senza che
ciò comporti l’insinuazione – del tutto
ingiustificata, del resto – che la nostra tecnica esecutiva
sia superiore a quella del passato. Se si vuole far rivivere la
musica, in modo che possa avere un senso per noi oggi, essa
dovrà pur portare in sé qualche traccia di ciò che
siamo, altrimenti rimarrà di fronte a noi come un oggetto
senza vita, con cui non si può interagire e che può solo
essere copiato con precisione sempre maggiore, nel tentativo di
eliminare la distanza piuttosto che in quello di avvicinarsi
mantenendola. La creatività dell’esecutore di oggi non
può essere oppressa da alcun «obbligo morale» di
fedeltà a qualunque costo, ma deve forse lasciarsi guidare
solo da un senso di «compatibilità
artistica».[10]
A mo’ di conclusione, mi sia concesso citare le
parole di un filosofo che ha saputo guardare con particolare
profondità alla condizione dell’uomo nel Novecento:
«La fretta di sopprimere ogni distanza non realizza una
vicinanza; la vicinanza non consiste infatti nella ridotta misura
della distanza. […] Una piccola distanza non è ancora
una vicinanza. Una grande distanza non è ancora una
lontananza».[11]
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