La natura essenzialmente improvvisativa della musica
jazz ha da sempre portato a identificare la figura del jazzista
principalmente come autore di composizioni di tipo estemporaneo. Il
fatto che l’improvvisazione abbia costituito e costituisca
ancora oggi il principale veicolo di trasmissione in una cultura
musicale essenzialmente legata ad una tradizione di tipo orale, ha
infatti portato a considerare la ‘composizione
istantanea’ come l’unico, distintivo prodotto di tale
cultura.
Questo assunto appare decisamente riduttivo,
soprattutto se si considera che esiste un repertorio basato
sull’ideazione di temi originali impostati su sequenze
armoniche predeterminate (come accade per il giro armonico di un
blues o di un rhythm change) o circoscritti a forme
standardizzate (come la song form). Ancor di più, se si
pone lo sguardo sulla produzione di alcuni dei più grandi
maestri della storia del jazz, caratterizzata dall’abbandono
delle consuete forme jazzistiche o dalla sintesi di queste con
moduli o metodi ricavati dalla tradizione della musica d’arte
europea.
La quasi totalità di questo repertorio
originalmente composto e a volte difficilmente etichettabile
– dalla ‘preistoria’, all’avanguardia
sperimentale e oltre – ha subito, dichiaratamente o meno,
l’evidente incidenza della musica cosiddetta
‘colta’.
Compositori come Joplin, Gershwin, Morton, Ellington,
Mingus hanno adottato tecniche e modelli formali di derivazione
europea, integrando perfettamente elementi afroamericani
all’interno della composizione totale.[1]
Allo stesso modo John Lewis, con l’essenziale
collaborazione del Modern Jazz Quartet, è riuscito a
raggiungere un alto livello di sintesi tra le due culture,
attraverso l’interazione ininterrotta tra composizione
‘programmata ed estemporanea’.
***
John Aaron Lewis è stato per più di
quarant’anni la mente creativa e organizzativa del Modern
Jazz Quartet, uno dei più longevi ensembles della
storia del jazz.
L’attività pluridecennale del quartetto e
l’eccellente qualità degli strumentisti che lo hanno
costituito hanno portato il gruppo a toccare i più alti
livelli stilistici di ogni tendenza assunta dalla musica jazz
durante la sua rapida evoluzione, sviluppando e mantenendo sempre
intatto quel tipo di linguaggio che lo ha reso unico e
inconfondibile.
L’interesse di Lewis verso la musica colta di
tradizione europea, iniziata nel periodo di studi alla Manhattan
School of Music, e il suo successivo avvicinamento alla Third
Stream, ha portato la produzione del quartetto ad inserirsi nel
contesto di un genere musicale dalle sfumature inconsuete.[2]
Eppure, l’impronta estremamente personale che
ha caratterizzato lo stile del Modern Jazz Quartet per decenni
è la naturale conseguenza di una molteplicità di fattori,
primo fra tutti lo straordinario interplay fra gli
strumentisti, certamente rafforzato dalla grande varietà di
esperienze dei singoli e del gruppo stesso – che aveva
costituito per anni, ad eccezione del batterista Connie Kay, la
sezione ritmica dell’orchestra di Gillespie.
In secondo luogo, a incidere sul linguaggio è
stata la concezione polifonica delle improvvisazioni.
Se si ascolta un po’ della vecchia musica di
New Orleans, si sentiranno diverse linee indipendenti muoversi
contemporaneamente. E funziona così bene perché ognuno di
quegli strumenti ha un carattere completamente differente
dall’altro. Questo è stato molto utilizzato nel Modern
Jazz Quartet, perché gli strumenti melodici erano vibrafono,
piano e contrabbasso. Se si ascoltano le registrazioni è
possibile scomporre il brano e ascoltare una linea per volta e
sentire tre voci indipendenti. Io provo a incorporare il blues in
tutto quello che suono, per trovare il modo per far parlare il
blues e cerco di farlo in un modo polifonico.[3]
La stessa idea dell’improvvisazione come
discorso giocato tra più voci individuali e indipendenti viene
applicata da Lewis anche alla composizione. Grazie all’intesa
quasi telepatica tra i musicisti, la singola linea può
spostarsi dalle parti improvvisate a quelle composte integrandosi
perfettamente e creando nell’ascoltatore un senso di
continuità temporale – caso molto comune negli
accompagnamenti di Lewis ai temi e ai soli di Jackson. Il sistema
generativo di base risulta quindi seguire un principio che non
distingue la pratica esecutiva dal processo compositivo, in modo
tale che ogni azione, sia essa premeditata o meno, si rivela come
la sistematica conseguenza della precedente, seguendo una serie di
procedure logiche che passa dalle sezioni preordinate a quelle
create estemporaneamente senza soluzione di continuità.
Il più alto raggiungimento in una composizione
è quello di creare un pezzo che incorpora
l’improvvisazione al suo interno, senza mostrarne i punti di
congiunzione il più possibile, in modo tale da non poter
distinguere ciò che è improvvisato da ciò che non lo
è.[4]
Proprio questa singolare organizzazione del processo
compositivo in aggiunta all’uso di tecniche, metodi di
scrittura e strutture formali di derivazione europea ha contribuito
a creare uno stile tanto originale.[5]
La Ronde Suite. Il concerto solistico come
modello
La Ronde Suite (Prestige LP 7057,
1955)[6] è la rielaborazione di un pezzo
composto da Lewis nel 1947 per l’orchestra di Dizzy
Gillespie, intitolato Two Bass Hit (Victor LJM109,
1947).
Tale brano aveva come strumento solista un
contrabbasso e prevedeva l’esecuzione da parte
dell’orchestra di brevi episodi alternati a lunghe pause
destinate all’improvvisazione.
Two Bass Hit fu chiaramente ispirato –
nelle modalità d’esecuzione e più palesemente nel
titolo – da una composizione dello stesso Gillespie
dell’anno precedente, One Bass Hit (Musicraft 404,
1946), anch’esso concepito come alternanza di improvvisazione
e accompagnamento ‘a riff’.[7]
La stessa idea progettuale si ritrova in La Ronde
Suite, in cui Lewis espande il medesimo giro armonico di Two
Bass Hit a una serie di quattro pezzi, ognuno riservato
all’improvvisazione di un singolo componente del quartetto,
nel seguente ordine: pianoforte, basso, vibrafono, batteria. Il
ruolo di ripieno dell’orchestra è ovviamente affidata
alla restante porzione di gruppo, che fornisce la base
armonico/ritmica al solista di turno e viene rielaborato
melodicamente e ritmicamente da un movimento all’altro,
secondo un processo di variazione che crea di volta in volta un
nuovo brano su una equivalente successione armonica.
La Ronde Suite è una struttura formata da
più sezioni di uguale importanza e pensata primariamente per
ospitare un unico discorso, giocato, come si è visto, tra
solo e tutti. L’idea di base è chiaramente
quella del concerto classico/romantico in cui il ruolo del solista
è affidato all’improvvisatore. Non solo. La costruzione
formale del brano (Tavola 1) presenta
un’architettura piuttosto singolare.
Le uniche forme riconducibili a strutture
standardizzate sono il cosiddetto ‘Tema’ che segue una
delle song form (ABAC) e
l’episodio blues centrale; le restanti parti, oltre a
introduzione e coda, sono passaggi di raccordo e transizione.
Tavola 1. La Ronde
Suite. Grafico formale. Le caratteristiche song form e
blues form sono inserite in un contesto strutturale assai
più complesso.
Eppure l’essenza particolarmente descrittiva
del titolo potrebbe suggerire, a mio avviso, una decodificazione
corretta della struttura. Il termine ‘suite’ –
nell’accezione novecentesca di libero insieme di pezzi
strumentali – è certamente riferito al livello più
esterno della costruzione. L’espressione ‘ronde’
potrebbe invece indicare una successione di brevi composizioni di
eguale tonalità, con un ritorno ciclico della stessa sequenza
armonica o, con maggiore probabilità, fare riferimento ad una
minimale forma di rondeau nascosta nella microstruttura del
brano e interrotta da un episodio blues (A, B, A, C +
A).
Django. Un insolito Jazz Standard
Django (Prestige LP 7057, 1955) è stato
scritto nel 1954, in memoria del chitarrista belga Django Reinhard,
scomparso l’anno precedente. Sicuramente il brano più
celebre del Modern Jazz Quartet, è l’unico tra i lavori
di Lewis ad essere entrato a far parte della tradizione degli
standard jazz. La semplice forma, basata su un tema e una
successione di chorus, permette una maggiore concentrazione
sulla parte improvvisativa durante l’esecuzione e lo accomuna
senza dubbio ad un tipico standard.
Tuttavia la macrostruttura del brano, così come
l’ossatura interna, rivela una divisione formale piuttosto
anomala.[8]
L’organizzazione delle varie sezioni segue un
andamento speculare: un interludio al centro del pezzo (una
diminuzione della seconda parte del tema iniziale) divide le due
parti improvvisate, delimitate a loro volta dalla doppia
esposizione del tema. Anche il livello formale intermedio dei
chorus presenta una disposizione tripartita a specchio
(12+8+12), ma con una divisione interna atipica: 6, 4 e 8
battute.
Tavola 2. La singolare disposizione ‘a specchio’
delle sezioni in Django.
Proprio questa forma insolita rivela una concezione
compositiva da parte di Lewis molto lontana dalle comuni pratiche
jazzistiche. L’accostamento a un tema in ottavi reali
(even eights) di una parte quasi totalmente improvvisata in
swing tempo,[9] peraltro di struttura armonica differente,
dovrebbe comportare una sgradevole cesura ‘di stile’
tra le parti, che in realtà non avviene. Il materiale armonico
presente nelle improvvisazioni è infatti una sorta di sviluppo
di parte del tema, giocato su un insolito accostamento di brevi
episodi che vanno a scomporre ulteriormente i moduli dei
chorus, creando una ricca varietà armonica.
Tavola 3. Lo schema armonico mostra come il modulo
A sia una sintesi della prima parte del tema
(X) e il modulo A1 una
trasposizione alla quarta delle quattro misure d’apertura di
A.
Il materiale melodico utilizzato da Lewis durante le
sezioni improvvisate non fa che accrescere questo senso di
unitarietà, mantenuto all’interno del brano attraverso
continue connessioni motiviche.
Ad esempio le prime misure d’accompagnamento
del pianoforte al primo chorus ripropongono un frammento del
disegno melodico esposto in apertura del tema
(X).
Così come una variazione ritmica della seconda
parte del tema (Y), con inversione delle prime
quattro battute.
Analogamente, il caratteristico charleston
rhythm mantenuto dal pianoforte nei moduli B e la
ripetizione di una cellula basata su una terza minore discendente,
reiterata nelle parti d’accompagnamento e
d’improvvisazione (come nella terza e quarta apparizione di
B), fanno da collante tra tema e chorus. Gli
stessi moduli che ricalcano in estensione la doppia suddivisione
del tema, così come la riproposizione di parte di esso
esattamente a metà del brano, conferiscono al tutto una salda
continuità temporale.
Interazione tra programmazione e creazione
estemporanea: Fontessa
Fontessa (Atlantic 1231, 1956) è uno dei
primi lavori estesi di Lewis per il Modern Jazz Quartet. È un
brano composto da quattro scene musicali, tematicamente relazionate
fra loro, che formano una piccola suite dichiaratamente ispirata
alla Commedia dell’Arte. Questo stesso soggetto sarà poi
ripreso da Lewis in The Comedy (Atlantic 1390, 1962), un
balletto composto tra il 1957 e il 1959.
L’idea programmatica comune a Fontessa e
The Comedy è appunto la rappresentazione delle maschere
della tradizionale Commedia dell’Arte (in The Comedy
esplicitata anche nei titoli dei singoli movimenti), attraverso una
differente caratterizzazione stilistica delle varie sezioni del
brano.
Questa suite consiste in un breve preludio per aprire
il sipario e avviare il tema. Il brano dopo il preludio si ispira
al vecchio jazz e la parte improvvisata è affidata al
vibrafono. Potrebbe essere in carattere con Arlecchino. Il secondo
tema ha aspetti più moderni e la parte improvvisata è
affidata al pianoforte. Potrebbe essere in carattere con Pierrot.
La terza parte è impostata a formule ancora più recenti e
sviluppa il motivo principale. La parte improvvisata è
affidata alla batteria. Potrebbe essere in carattere con
Pantaleone.[10]
Significativamente, in Fontessa è
presente un dualismo del tutto analogo a quello che nella Commedia
dell’Arte contrappone le parti scritte alle parti recitate
estemporaneamente dagli attori sulla base di un
‘canovaccio’: il brano è infatti interamente
giocato sull’alternanza e la combinazione di interventi
prestabiliti e interventi improvvisati.
Lo schema di base del pezzo presenta tre movimenti in
swing tempo, ognuno costituito da tema e improvvisazione, e
da un preludio in ottavi reali, in apertura e chiusura del brano.
La struttura delle tre sezioni è basata su complessi modulari
di trentadue battute che vengono abbreviati (con
l’eliminazione di moduli), variati (tramite
l’accostamento di moduli appartenenti a sezioni diverse) e a
cui vengono interpolati micro-episodi di stacco e raccordo.
Tavola 4.
Fontessa. Grafico formale.
Ad ogni movimento è stata conferita
un’impronta caratteriale contrastante come può accadere
in un concerto o in una sonata classica:
Tavola 5. La
differenziazione di carattere delle varie scene musicali elaborata
da Lewis in base a mutamenti di andamento, ritmo, modo e
forma.
Nonostante le varie sezioni del pezzo subiscano via
via un’elaborazione sempre differente, il materiale motivico
impiegato è di dimensioni alquanto ristrette. I temi rivelano
una stretta affinità tra loro, tanto da apparire ognuno come
la derivazione del precedente.
La continuità stilistica tra un tema in ottavi
reali e una successione di movimenti in swing tempo, basati
su una diversa griglia armonica, è mantenuta attraverso lo
sviluppo di parte della progressione iniziale e rafforzata dai
continui richiami motivici che percorrono l’intera
composizione (più di undici minuti di musica!).
Quelle che seguono sono solo alcune delle varianti
della cellula tematica principale del preludio (esempio 5), del
secondo tema (esempio 6) e delle cadenze obbligate in chiusura di
ogni modulo del secondo movimento (esempio 7).
Come si può osservare da quanto riportato
sin’ora, il trattamento del materiale da parte di Lewis
possiede un’impronta chiaramente ‘accademica’:
processi di variazione, rielaborazione tematica e armonica, ritorno
e sviluppo di frammenti melodico/ritmici.
Straordinariamente, gran parte di queste tecniche
vengono adottate estemporaneamente: frequenti richiami preordinati
vengono ripresi dagli esecutori durante le improvvisazioni, creando
un discorso unitario anche fra tema e relativo chorus.
Analogamente, alcune delle parti riservate alla sola esposizione,
subiscono un processo di variazione occasionale che crea un
inaspettato assortimento tematico (è il caso della
riesposizione dei temi del secondo e terzo movimento).
***
Certamente la sintesi effettuata da Lewis ha
contribuito alla realizzazione del personalissimo linguaggio del
gruppo. La coesione di impianti armonico/formali, modelli di
scrittura e di organizzazione del materiale derivati dalle due
tradizioni, nonché l’assorbimento
dell’improvvisazione all’interno della composizione
totale, si sono dimostrati fattori dominanti.
Tuttavia, l’ingrediente essenziale che ha
permesso l’attuazione di questo processo logistico si è
rivelato essere la scrupolosa attenzione di Lewis ai metodi di
ricezione dei suoi strumentisti: ogni struttura compositiva è
pensata non per un quartetto jazz, ma per il Modern Jazz
Quartet ed esiste unicamente in funzione di questa precisa
‘formazione umana’.
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