Inni in canto fratto in un codice liturgico della Biblioteca del Convento di San Bernardino di Verona
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Anticamente[1] la Biblioteca Conventuale di San Bernardino di Verona doveva essere un fondo ricchissimo di manoscritti di opere teologiche, in particolare di autori francescani; essa si trovava nella cosiddetta «Sala Morone», dal nome dell’artista, Domenico Morone,[2] che ne affrescò le pareti su commissione del conte Lionello di Donato Sagramoso, il quale lasciò i propri beni per la costruzione della biblioteca e per fornirla di volumi. Oggi di questo meraviglioso patrimonio resta il bellissimo ciclo di affreschi: sulla parete di fondo il committente e la moglie inginocchiati davanti ad una Madonna con Bambino, s. Francesco e s. Chiara, sulle pareti laterali i dottori ed i cardinali francescani, sotto cui dovevano essere collocati i rispettivi libri, secondo una segnatura ‘iconografica’. Le soppressioni (napoleoniche, 1796 e 1810, austroungarica, 1848, ed italiana, 1866 – quest’ultima relativa alla sola biblioteca), le guerre, i furti e l’incuria ci hanno definitivamente privato del «fondo teologico», di cui restano pochissimi esemplari sparsi in varie biblioteche europee. Non tutto, però, è andato disperso: la Biblioteca Conventuale di San Bernardino conserva tuttora un fondo di manoscritti liturgici poco noto: si tratta di quindici libri corali di vario contenuto e datazione, ma tutti sicuramente destinati alle celebrazioni liturgiche del chiostro francescano; quasi sicuramente salvatisi perché continuamente usati (come dimostra anche la loro composizione interna: in quasi tutti i casi infatti sono presenti fascicoli seriori o rimaneggiamenti successivi) e – soprattutto – perché conservati fuori dalla biblioteca stessa (infatti in essi non è presente nessuna indicazione che rivendichi la proprietà della Biblioteca di San Bernardino: non note di possesso, non timbri, né segnature). La maggior parte dei manoscritti liturgici appartiene al primo secolo di vita del convento, fondato nel 1452: ben tredici sui quindici totali. Di questi tredici, ben otto sono da riportare alla stessa ‘bottega’ (in particolare sei sono dello stesso copista) o, se si preferisce, alla medesima commissione, che è coeva alla costruzione della biblioteca stessa: siamo tra gli ultimi anni del Quattrocento ed i primi del secolo successivo, la librarìa (come citata nelle fonti antiche) voluta dal conte Sagramoso verrà inaugurata nel 1503, mentre nelle filigrane dell’ultima carta di un salterio-innario possiamo leggere: 1502 | Finis. Non possiamo, però, riportare con certezza la commissione direttamente al conte Sagramoso: il testamento prevede sì la costruzione della librarìa e la dotazione di libri, ma non specifica per che utilizzo; del resto, all’interno dei codici non v’è nessun elemento che possa far pensare ad una donazione del Sagramoso: né testuale, né decorativo. Nessuno dei manoscritti è completamente dedicato a brani liturgici scritti nello ‘stile’ del canto fratto: esso nella maggior parte dei casi compare come ‘ospite’, come aggiunta, omogenea o meno (dal punto di vista della tipologia liturgica), logica o pressoché casuale, prevista o posticcia; una sola volta si presenta come (piccola) parte integrante, come protagonista mai. Sono quattro i codici del fondo che contengono composizioni in canto fratto,[3] per un totale di dieci brani, ma vorrei soffermarmi su uno di essi in particolare: il supplemento all’antifonario ed al graduale MP05 (la segnatura è del tutto personale, in attesa di una collocazione definitiva e dell’adozione da parte della Direzione della Biblioteca di una segnatura ufficiale, finora mai realizzata). Prima di soffermarmi sulle composizioni in canto fratto, descriverò il manoscritto tanto nel suo aspetto materiale che contenutistico. Il codice MP05 è un manoscritto cartaceo composito, complessivamente di 132 carte; in realtà si tratta di una miscellanea di elementi diversi, non rilegati ed inseriti in una coppia di piatti preesistente; pare esserci stata una precisa volontà nel raccogliere insieme gli elementi che lo compongono, nell’ordine: α) SUPPLEMENTO (cc. 1r-116v) con paginazione coeva, al centro del margine superiore, in numeri arabi e in inchiostro rosso, parte da 1 per arrivare a 238, e cartulazione moderna, in cifre arabe, a matita, nell’angolo inferiore esterno, da 1 a 116. β) SERIE DI SUPPLEMENTI (β1: cc. 117r-124v; β2: c. 125r-v; β3: cc. 126r-129v; β4: cc. 130r-131r; β5: c. 132r) con cartulazione moderna, a matita, nell’angolo inferiore esterno; da 117 a 132. Essendo questi differenti per contenuto, datazione, mani, decorazione, etc. – oltre che ininfluenti ai fini della presente indagine – da ora in poi utilizzando la segnatura MP05 in realtà considererò solo l’unità codicologica indicata dalla lettera α. La datazione è espressa nella rubrìca che chiude l’Ufficio di San Zeno a c. 35r: hoc officium sancti Zenonis […] compositum fuit, quo ad in […], a Reverendo Patre Constantino Cordans Veneto nostri ordinis, et in conventu nostro Sancti Francisci Magni Paduae chori moderatore actuali. 1738. Per la localizzazione, in mancanza di espliciti riferimenti, pare logico indicare un convento della Provincia Veneta di Sant’Antonio, più probabilmente quello di San Francesco in Padova (cui farebbe pensare l’annotazione della rubrìca) o lo stesso San Bernardino in Verona. È composto unicamente di binioni, privi di richiami di fascicolazione; il testo e la notazione musicale sono stati vergati da un’unica mano che disegna una gotica tarda in inchiostro nero. Lo specchio rigato misura mm 273 x 365; il testo è disposto a piena pagina, su sei righe sormontate da altrettanti tetragrammi di mm 35. La rigatura è stata eseguita a piombo. I neumi sono scritti in notazione quadrata; sono spesso presenti bemolli, bequadri e diesis, talora illuminati da tocchi di giallo e/o di modulo molto grande. (Per la notazione di canto fratto, si veda infra). La decorazione consiste di capolettera in inchiostro rosso su fondo giallo riquadrato da un filetto in rosso e di iniziali semplici, in inchiostro rosso toccate di giallo; alcuni capolettera hanno delle estremità fitomorfe in verde; nel complesso la decorazione è poco appariscente e di qualità molto modesta. Della legatura, ora non più in opera, sono presenti i due piatti, probabilmente del sec. XVI: quindi il pacco di fogli non è conservato tra i piatti della sua legatura originale, ma tra una coppia di piatti preesistente e precedente alla confezione del manoscritto. La legatura è in pelle marrone su assi in legno; la pelle ha una decorazione a secco raffinata e complessa: fasci di filetti descrivono due riquadri, una corona centrale, una cornice attorno ai cantonali e, all’interno della corona, un profilo che segue l’orlo ottagonale della placchetta centrale. La cornice esterna dentro i riquadri di fasci di filetti è realizzata con una rotella a motivo rinascimentale di vasi e volute; la cornice della corona è realizzata con un ferro a motivo di corda intrecciata. La corona centrale è abbracciata da una fascia a piccoli ferri che disegnano squame; altri ferri a corolle di due moduli diversi sono sparsi. Sul piatto anteriore restano: i due cantonali (persi gli umboni) ed il marginale esterni, la placchetta centrale con umbone d’ottone; del marginale inferiore si è conservata la metà più vicina al cantonale. Un fascione di cuoio allumato fu applicato come rinforzo del dorso, è ora tenuto sul piatto anteriore solo da un grosso chiodo di ferro vicino al margine interno, quasi speculare è una bindella di cuoio tenuta da due chiodi di ferro, con a metà circa una cucitura nel senso della larghezza. Sul contropiatto anteriore è ben visibile la struttura di fissaggio della cucitura all’asse. Restano attaccati al pacco di fogli frammenti di 6 nervi doppi in fibra vegetale. La legatura versa in uno stato decisamente pessimo: è andata perduta molta della pelle che copriva il piatto anteriore: in particolare tutto l’angolo superiore interno (fino quasi alla placchetta centrale) e l’angolo inferiore interno, del dorso restano brandelli ancorati al margine interno dei piatti; persa parte dell’asse lignea nella zona dell’angolo superiore interno; sono visibili fessurazioni, tarlature, abrasioni e numerose e pesanti lacerazioni. La legatura misura circa mm 628 x 424 x 100. Lo stato di conservazione del pacco di fogli è pessimo: in quasi tutte le pagine la scrittura, perlopiù posta alla stessa altezza su entrambe le facciate, è affiorata divenendo illeggibile; lo stesso dicasi per la notazione. Il manoscritto è lievemente lacunoso e mutilo. Ha subìto l’asportazione delle iniziali di p. 68 (illeggibile) e 170 S(anctus).
Descrizione interna: α 1-238 1r-116v Supplemento all’antifonario ed al graduale: formulari o singoli pezzi del Proprium del santorale
Il canto fratto contenuto nel codice MP05 consiste di tre inni, uno dei quali ripetuto con un nuovo testo ed una piccola diversità sul piano musicale: l’Amen finale è intonato in modo differente. Questi quattro brani in canto fratto sono gli unici di tutto il fondo non solo ad essere sicuramente coevi al codice cui appartengono, ma anche ad essere previsti come unica soluzione per intonare quei determinati testi. Essi cioè non sono inseriti come variante facoltativa o aggiunta in un fascicolo posteriore,[7] bensì sono copiati tra una mèsse di brani in canto piano; anzi, tutti e quattro questi inni si trovano all’interno di formulari in canto piano, vergati di seguito agli altri brani senza smagliature, proprio ad indicare che l’unica intonazione possibile è quella in canto fratto. Il primo inno si trova a c. 11v (o p. 22 della paginazione stesa dal copista stesso): Dum tuos omnes canimus triumphos, previsto per i secondi vespri del formulario della beata Colette di Corbie;
segue poi a c. 32v (p. 64) Praesulis sancti redeunt colenda per i primi vespri di s. Zenone vescovo, patrono di Verona; a c. 45r (p. 89) troviamo Leta devote celebret minorum, per i primi vespri di s. Pasquale Baylon. Infine, alla c. 87r (p. 173) è vergato Petre sol terris oriens iberis, per i primi vespri di s. Pietro di Alcàntara. Elenchiamo i tratti salienti relativi ai testi ed alle intonazioni musicali di queste composizioni. 1. Tutti i testi intonati, ad eccezione di Dum tuos omnes, sono presenti in almeno un altro codice del fondo; in particolare, in un fascicolo membranaceo seriore rilegato al termine del codice MP03 (databile all’ultimo decennio del sec. XVII[8] – quindi relativamente vicino alla data di realizzazione di MP05), possiamo trovare insieme gli inni Praesulis sancti redeunt, Petre sol terris e Leta devote celebret, corredati dell’intonazione musicale in canto piano. 2. Dal punto di vista metrico sono tutti composti di strofe saffiche, ovvero di strofe formate da tre endecasillabi e chiuse da un adonio (5 piedi); una differenza consiste nel fatto che due inni hanno 6 strofe (Leta devote celebret e Dum tuos omnes), mentre gli altri due ne hanno 7 (Praesulis sancti redeunt e Petre sol terris). 3. Tutti gli inni sono chiusi da un Amen finale, in quattro intonazioni diverse (come già accennato, infatti, benché l’inno Petre sol terris ripeta la musica prevista per Leta devote celebret, l’Amen conclusivo è dotato di una intonazione propria); queste intonazioni dell’Amen sono semplicissime, eccetto quella di Praesulis sancte redeunt, che presenta maggiore articolazione e lunghezza, ma soprattutto è l’unica a prevedere una precisa scansione ritmica, mentre le altre sono formate da sole note (o ligature) di valore ritmico lungo. 4. Dal punto di vista dell’impianto musicale, gli inni hanno tutti finalis re e un ambitus che abbraccia perfettamente l’ottava (utilizzano tutte le note comprese tra le litterae D e d, ovvero tra le altezze re2 e re3); ma possiamo distinguere tra due intonazioni chiaramente in re minore (Dum tuos omnes e Praesulis sancte) ed una (Leta devote celebret, ripetuta per Petre sol terris) che presenta salendo il si bequadro, scendendo il si bemolle ed il do sempre naturale, restando così più vicina al primo modo dell’octoechos. 5. Il copista riscrive sempre l’intonazione musicale ad ogni strofa; fa eccezione l’inno Petre sol terris, in cui il testo musicale è riportato solo nelle strofe dispari (ovvero, la notazione musicale è presente per le strofe prima, terza, quinta e settima, ma manca sulle strofe seconda, quarta e sesta). Ciò potrebbe suggerire un’alternanza tra canto piano e canto fratto, come avviene esplicitamente in un altro brano in canto fratto presente nel fondo;[9] in ogni caso le strofe pari sono semplicemente prive di notazione e non compaiono rubrìche a segnalare alternanza di sorta. 6. Dal punto di vista notazionale, sono tutti brani in canto fratto alla brevis[10] in tempo binario, eccetto Praesulis sancte redeunt che è un brano in canto fratto alla semibrevis[11] ed esplicitamente in tempo ternario (presenta un grande 3 vicino alla chiave), e inoltre è l’unico a fare uso di pausa (è presente una sola pausa del valore di semibrevis). 7. La notazione utilizza le forme grafiche di: brevis caudata, semibrevis, legature di articolazione, bemolli, bequadri e diesis; le note iniziali e finali sono vergate con forme decorative; solo la notazione dell’inno Praesulis sancte redeunt utilizza la minima, punti di valore, corona, pausa di semibrevis, e dà come indicazione ritmica di tempo ternario un grande 3 vicino alla chiave. La notazione degli inni Petre sol terris e Leta devote celebret prevede anche le ligature di due brevis ascendenti o discendenti, vergate con normali pes e clivis. Tutte le intonazioni sono notate in chiave di basso. 8. Per concludere, tutti gli inni utilizzano la stanghetta semplice per gli emistichi e quella doppia alla fine delle strofe, eccetto Praesulis sancte redeunt che utilizza la stanghetta di battuta in modo moderno. Dopo questa sintetica analisi vorrei aggiungere un paio di annotazioni: di tutti i brani in canto fratto rinvenuti nella Biblioteca Conventuale di San Bernardino, che – lo ricordo – ammontano ad una decina, questi sono gli unici ad appartenere alla forma dell’inno. Infine, ho confrontato la linea melodica delle intonazioni in canto fratto con le rispettive melodie in canto piano (in particolare quelle presenti nel fascicolo seriore al termine di MP03) ed ho riscontrato che non sussistono somiglianze o reminiscenze di alcun genere: l’intonazione musicale in canto fratto è stata composta senza tenere minimamente presente la precedente intonazione in canto piano, elemento che conferma, in attesa di altri confronti, l’autonomia del canto fratto come tradizione musicale propria. |
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