Il seminario si propone di approfondire il rapporto
tra musica e immagine nella determinazione del senso nei prodotti
intermediali. Per prodotti intermediali si intendono le forme di
creazione artistica in cui intervengono due o più mezzi che
collaborano nell’espressione di un senso unitario. Nonostante
la centralità e la diffusione della pratica di integrare suono
e immagine nella cultura e nelle forme di comunicazione
contemporanee (pubblicità, cinema, video, televisione), la
teoria estetica non ha ancora sviluppato una riflessione adeguata a
partire dalla concreta analisi degli esempi.
L’istituzionalizzazione delle ricerche intermediali, che si
concreta non soltanto come disciplina nell’ambito più
vasto della teoria della comunicazione, ma anche in riviste
specializzate (per esempio la rivista canadese
«Intermédialités») e in centri specializzati
come il Zentrum für Kunst und Medienthechnologien di
Karlsruhe, ha portato ad un amplissimo ventaglio di analisi e
proposte interpretative.
L’obiettivo di questo seminario è di analizzare il
rapporto tra suono e immagine in alcuni esempi paradigmatici e di
mettere in relazione le analisi con alcune questioni aperte
dell’estetica contemporanea, quali la natura del senso
musicale, la nozione di autorialità multipla, la natura
dell’opera d’arte. Fra i partecipanti, Nicholas Cook
è autore del volume Analyzing Musical Multimedia.
: :
Michela Garda
(Università degli Studi di Pavia-Cremona)
Introduzione
La giornata di studi organizzata presso la
Facoltà di Musicologia di Cremona e dedicata alla disamina
delle relazioni tra Musica e Immagine nelle produzioni
multimediali (videoclip, film, spot pubblicitari) è stata
introdotta da un intervento di Michela Garda volto a ripercorrere i
momenti cruciali della riflessione estetica otto-novecentesca sulle
opere musicali frutto della collaborazione tra diversi linguaggi
(sonoro, visivo, poetico, gestuale).
Il mito dell’unione delle arti, risalente alla
mousiké greca e al quale, nel corso dei secoli, è
stata spesso contrapposta una visione gerarchica delle discipline
artistiche, riemerse prepotentemente durante l’Ottocento e
acquistò, in particolare in Herder e Hegel, una connotazione
peculiare (in grado, per taluni aspetti, di anticipare riflessioni
proprie dell’estetica multimediale). Attraverso il ricorso
alle nozioni di sensorium commune (Herder) e muta
ricezione del nostro animo (Hegel), i due filosofi
individuarono infatti nella ricezione da parte dei fruitori (e non
nella gerarchia tra i livelli testuali) il momento in cui si
sarebbe concretizzata l’integrazione tra le diverse
componenti di un’opera.
Un momento decisivo che condusse alle riflessioni
estetiche novecentesche fu rappresentato dalla concezione
wagneriana del Gesamtkunstwerk: imprescindibile in ogni
discussione sulla multimedialità, nonostante le differenze
rispetto alla progettualità novecentesca dell’opera in
musica (emblematica la visione wagneriana del singolo autore
ritenuto unico responsabile dell’assetto gerarchico
dell’opera), il pensiero di Wagner non mancò di
influenzare artisti quali Skrjabin, Kandinskij, Schönberg.
Durante i primi anni del secolo scorso iniziò ad
affermarsi (soprattutto in Schönberg) la convinzione che lo
sviluppo dell’arte avrebbe implicato non solo un
potenziamento dei mezzi artistici, ma soprattutto
un’evoluzione della sensibilità umana: un concetto,
questo, che riemergerà in piena era digitale, quando gli
artefici del perfezionamento delle tecnologie si riterranno
responsabili anche del miglioramento delle capacità percettive
e creative dell’uomo.
Si dovranno attendere gli anni Cinquanta-Sessanta per
assistere ad una completa neutralizzazione dei confini tra le arti,
facilitata dal riconoscimento del comune manifestarsi nel tempo
della musica e dell’immagine: nel processo che ha condotto
all’interazione tra componente sonora e visiva, possibile
anche in virtù dell’intercambiabilità dei
rispettivi principi, temporale e spaziale (teorizzata soprattutto
da Adorno), un ruolo decisivo è spettato alle sperimentazioni
artistiche del movimento statunitense denominato Fluxus.
A conclusione del suo intervento, Michela Garda ha
evidenziato il ruolo fondamentale svolto dallo sviluppo delle
tecnologie nel determinare un nuovo rapporto tra componente sonora
e visiva. In particolare, il progresso tecnico
- ha agevolato la trasformazione della relazione tra musica e
immagine che, da momento effimero della fase performativa, è
divenuta parte immanente e stabile dell’opera;
- ha reso possibile neutralizzare le barriere all’interno
dei generi musicali (‘colti’ e popolari) e tra esigenze
estetiche e meramente comunicative (ad esempio quelle
pubblicitarie);
- ha indotto l’artista ad avvalersi delle innovazioni
tecnologiche per potenziare la propria creatività, ed ha
quindi favorito, attraverso un continuo scambio di ruoli,
l’abolizione della concezione autoriale unica ed
egemonica.
[a cura di Angela Carone]
: :
Nicholas Cook
(Holloway University of London)
«Song into video into film: from
Bohemian Rhapsody to Wayne’s World»
Due spot commerciali, uno inglese realizzato per la
Renault Espace, l’altro americano per la Mountain Dude,
devono il loro successo all’uso della Bohemian
Rhapsody (1975) dei Queen, mediata attraverso una sequenza del
film Wayne’s World del 1991.
Il video dei Queen, girato nel novembre 1975 per
sostituire il gruppo impossibilitato a partecipare a un programma
della BBC, è considerato il primo video musicale. Sulla sua
genesi esistono voci discordanti, sia per il tempo impiegato per
realizzarlo (due giorni o poche ore), sia per la cifra richiesta.
Rimane, comunque, la sua importanza, perché vi sono già
presenti tutti gli elementi della grammatica visiva propri del
nuovo genere. Alcuni di questi sono veramente innovativi, mostrano
cioè aspetti high tech, altri vanno letti in
prospettiva storica. È interessante notare come una delle
fonti per la costruzione del video sia la stessa copertina del
secondo album dei Queen, idea ripresa anche per lo spot della
Mountain: l’immagine viene trasposta in una sequenza in
movimento, che diventa il materiale per la parte centrale, ispirata
all’opera, del video. Altro elemento da considerare è il
modo con il quale le sequenze visive sono state direttamente
elaborate su principi musicali, in una costante corrispondenza fra
l’aspetto visivo, la sua costruzione, il suo montaggio e la
struttura musicale. Si prenda ad esempio l’immagine multipla
ottenuta con l’utilizzo della lente prismatica, che
rispecchia direttamente l’impiego del multitracking per la
realizzazione del coro partendo dalla voce del solista. Il taglio
delle sequenze filmiche è poi, nella stessa parte centrale,
sempre regolato dal susseguirsi delle linee musicali. Si può
quindi affermare che la struttura della canzone sia stata riversata
nella parte visiva del video. Un legame ancora più profondo
è dato dalla tecnica usata sia per la musica sia per le
immagini, cioè quella dell’utilizzo di registrazioni
multiple della stessa performance e del multitracking per il brano
musicale nell’album. L’eccessiva regolarità con la
quale le immagini seguivano l’andamento della struttura
musicale dava al video un che del cartone animato, contribuendo a
renderlo in qualche modo datato. Nel giro di qualche settimana la
BBC produsse un secondo edit, introducendo una certa sfasatura fra
la musica e il taglio delle immagini. Nella stessa versione si
tentò anche di cambiare o aggiungere elementi, come le fiamme
durante l’introduzione, o il cambio di angolazione per le due
camere di ripresa, che venne invertito.
Se si passa a considerare l’impiego di
Bohemian Rhapsody nel film Wayne’s World si
potrebbe pensare che il regista abbia aggiustato la dimensione
musicale per adattarsi alla narrazione visiva. Invece accade il
contrario: la sequenza della macchina è montata secondo schemi
musicali, di ripetizione. Si possono distinguere cinque tipi di
riprese, che ritornano e vengono combinati insieme, proprio come
gli elementi musicali della canzone. Più in generale si
può dire che la musica nel film sia usata per esprimere il
contatto fra un microuniverso e la cultura dominante che se ne
appropria, per delineare i margini fra fantasie e realtà.
Esiste poi una molteplicità di prodotti
multimediali basati sulla canzone e sul video: cartoni di amatori,
specialmente nordamericani, che dimostrano come si debba parlare di
una catena sintagmatica, basata su un elemento, la canzone, che
diventa canonico, proprietà comune. Ciò si spiega con la
tendenza tipica della pop-art ad una partecipazione amatoriale,
diffusa, svincolata dal concetto di rielaborazione
professionale.
[a cura di Massimiliano Guido]
: :
Roberto Calabretto
(Università di Udine)
«La musica di Bach nel film:
Pasolini, Tarkovskij, Kubrick»
Al fine di cogliere la specificità
dell’uso della musica di Bach in Pier Paolo Pasolini e Andrej
Tarkovskij, argomento centrale del terzo intervento della giornata,
Roberto Calabretto ha introdotto la sua relazione tratteggiando le
differenti soluzioni impiegate dai registi intenti ad affrontare la
problematica del commento sonoro nel film.
Mossi da finalità di ordine differente
(ricercare una musica funzionale all’immagine o creare una
dialettica tra contesto del suono e dell’immagine,
tralasciando ogni preoccupazione audiovisiva), i registi, nel corso
della storia del cinema, hanno optato per il ricorso ad un
compositore di fiducia – sorta di alter ego musicale
– o hanno utilizzato composizioni tratte dal repertorio
classico. In questo secondo caso, è possibile individuare un
triplice impiego dei brani composti da Johann Sebastian Bach,
tramutati in soggetto cinematografico (si pensi a Cronaca di
Anna Magdalena Bach di Straub e Huillet), musica in grado di
condizionare la struttura del racconto o commento sonoro
(scarsamente utilizzato nel cinema muto perché, a differenza
ad esempio di quella wagneriana, la musica di Bach era ritenuta
inadatta a ‘comunicare’ lo scorrimento del tempo).
All’interno dell’uso della colonna sonora bachiana
è possibile individuare un’ulteriore sottoproblematica:
quella della citazione, finalizzata a introdurre nel racconto un
fattore estraniante (ad esempio ne La dolce vita di Fellini)
o resa dal regista strumento per meglio esplicitare la propria
poetica, come avviene in N. U. di Antonioni, e, soprattutto,
in Accattone di Pasolini.
L’impiego dei brani della Passione secondo
Matteo per esplicitare quella ‘sacralità’
appartenente anche alla vita degli uomini di borgata – ma
spesso oscurata dalle contingenze quotidiane – confermerebbe
emblematicamente come Pasolini si sia servito delle composizioni di
Bach per esprimere in modo profondo le proprie esigenze e
convinzioni poetiche. Pasolini ha sfruttato l’elemento sonoro
non per accentuare il realismo dell’immagine, ma per
conferire ad essa un senso diverso: la musica bachiana, con la sua
sedimentazione di significati, è divenuta un mezzo per
allontanare la scena dalla realtà e trasferirla in una
dimensione epica.
Calabretto non ha trascurato di illustrare le due
fondamentali applicazioni musicali, orizzontale e verticale,
descritte dal regista bolognese: se nel primo caso la colonna
sonora scorre in superficie, sovrapponendosi alle immagini al fine
di accrescerne l’espressività, attraverso
l’applicazione verticale la musica ‘sfonda’
l’immagine, neutralizza i ritmi audiovisivi e si impone come
unico fattore rilevante.
Il relatore ha quindi descritto la poetica di
Tarkovskij, sottolineandone la distanza da quella pasoliniana.
Condividendo le proposte innovative della Nouvelle Vague, il
regista russo, in modo quasi affine a Robert Bresson,
‘incriminò’ la colonna sonora, rea di condizionare
lo spettatore e alterare la sua personale visione delle immagini.
Nel corso della propria attività, Tarkovskij intravide due
possibilità per far fronte al carattere ‘oppiaceo’
della musica da film: l’impiego, grazie alla collaborazione
con il tecnico del suono Edward Artemiev, della musica elettronica
(ininfluente al livello di organizzazione del racconto e funzionale
allo scorrimento delle immagini) e il ricorso al repertorio
classico.
Calabretto è ricorso a Solaris per
esemplificare l’impiego della musica bachiana da parte di
Tarkovskij, illustrando come il registra si sia servito del corale
Ich ruf zu Dir, Herr Jesu Christ (BWV 639) nelle fasi
cruciali del film, ad esempio durante lo scorrimento dei titoli di
testa (che, dal punto di vista musicale, rappresenta un ideale
riassunto della colonna sonora stessa) o in conclusione, quando
l’abbraccio tra il protagonista e suo padre si pone in
perfetta sintonia con l’immagine evocata dal brano: il
rifiuto dell’uso tradizionale della colonna sonora indusse
Tarkovskij a tramutare la musica di Bach in ‘ritornello
poetico’, in commento didascalico e, soprattutto, in fattore
determinante nella strutturazione del racconto.
[a cura di Angela Carone]
: : Gianmario
Borio (Università degli Studi di
Pavia-Cremona)
«L’Andante con moto
del Trio op.100 di Schubert nella scena 26 di Barry Lyndon
Il rapporto tra struttura e significato
nell’ambito della musica strumentale è una delle vecchie
questioni dibattute dalla musicologia. I saggi di Nicholas Cook e
di Lawrence Kramer si soffermano su tale questione e sottolineano
come la sfera multimediale sia un campo privilegiato per
l’osservazione della costituzione del senso. Un possibile
oggetto di indagine, relativamente a questo problema, è
l’opera di Stanley Kubrick, non solo perché il regista
praticava la musica, ma soprattutto perché è stato in
grado di realizzare un prodotto ‘intermediale’, nel
quale le tre dimensioni di immagine, testo e musica si intrecciano
profondamente e il cui significato non è più separabile
da questa fusione. Per illustrare queste circostanze, sarà qui
indagato il modo in cui Kubrick ha impiegato l’Andante con
moto del Trio op. 100 di Schubert nella scena 26 di Barry
Lyndon.
Il punto di partenza è duplice. In primo luogo
è necessario considerare che la musica strumentale, nella
catena ricettiva, non porta in sé solo la prospettiva
dell’organizzazione strutturale, ma anche residui semantici.
Ad esempio l’Andante con moto del Trio op. 100 ha un
contesto preliminare in una canzone popolare svedese che Schubert
aveva ascoltato prima di comporre il pezzo. Naturalmente la
conoscenza del testo letterario della canzone ha una grande
importanza per individuare il significato veicolato dal brano
schubertiano. Il secondo punto riguarda la distinzione tra
significati musicali intrinseci ed estrinseci, cioè tra
l’organizzazione sintattica, il senso logico-linguistico che
cogliamo nell’ascoltare una musica strumentale, e il
significato, il rimando a qualcosa che non è notato in
partitura, a qualcosa di esterno.
L’idea è che la struttura del brano possa
pilotare la comunicazione, non solo della musica, ma della
creazione intermediale, consentendoci di accedere a un orizzonte di
significato che trova espressione nel lavoro di Kubrick.
Fondamentale in questo processo è la conoscenza preventiva
della musica da parte del regista, in modo che lo strato semantico
residuo della musica stessa sia ridefinito in un’operazione
ermeneutica e venga convogliato nel campo che Kramer chiama
image-text.
Il brano di Schubert è in forma bipartita:
l’esposizione è seguita da una sorta di ripetizione
elaborativa. Il primo decorso, l’unica parte utilizzata da
Kubrick, procede da battuta 1 a battuta 109, ed è formato da
due versioni del tema principale (TP1 e TP2), che si distinguono
tra loro perché il ruolo di archi e pianoforte si inverte nel
passaggio dall’una all’altra, e dal tema secondario,
anch’esso in due versioni (TS1 e TS2). La composizione
procede poi con una transizione (TR) che porta alla ripetizione
variata di TP2 (TP3), con la quale si conclude la prima parte. Il
tema principale segue solo in parte la tipica forma periodica,
strutturata in gruppi di 4+4 battute o di 8+8 battute. Schubert
inserisce infatti in questo modello alcune
‘distorsioni’, come le due battute introduttive basate
sul ritmo del Wanderer – evidente rimando semantico
– o il momento di ‘sospensione’ realizzato
tramite la ripetizione del Sol alle battute 15-16, momento che
diventerà il perno strutturale della scena 26 di Barry
Lyndon.
Il film ha molto in comune con l’orizzonte
mentale schubertiano, poiché narra l’ascesa del giovane
eroe e la sua successiva rapida decadenza. Il culmine del percorso
del protagonista è segnato dall’entrata
dell’Andante con moto (che tornerà anche al
termine della pellicola). Kubrick sembra avere progettato e montato
le sequenze che compongono la scena 26 a partire dalla musica di
Schubert. La scena è quadripartita secondo il seguente
schema:
1. Giardino |
TP1, TP2 |
narratore |
no suoni ambientali |
2. Sala da gioco |
continuazione TP2, TS1, TS2,
TP1, TP1 (al posto di TR) |
no narratore |
suoni ambientali |
3. Terrazza |
continuazione TP1, TP2, TS1 |
no narratore |
no suoni ambientali[1] |
4. Giardino |
continuazione TS1,
TP3 (cambio di scena) |
narratore |
no suoni ambientali |
L’importanza strutturale della musica di
Schubert è testimoniata, ad esempio, dalla funzione svolta dal
momento di ‘sospensione’ in TP. Verso la fine del punto
3 dello schema assistiamo al bacio tra Barry e Lady Lyndon; è
il momento centrale del film, che si svolge mentre ascoltiamo le
battute di ‘sospensione’ di TP2. Le inquadrature
precedenti e successive, la loro lunghezza e i tempi della loro
successione stanno in stretto rapporto con le strutture formali del
brano di Schubert. Sullo stesso inciso, ma questa volta di TP3, si
situa anche il cambio di scena. Per Kubrick i diversi elementi
strutturali del brano di Schubert sono, dunque, materiali che
vengono formalizzati, ed è proprio grazie a questa
formalizzazione che diventa possibile accedere ad un nuovo contesto
di significato derivante dall’interazione di immagine, testo
e musica.
[a cura di Federico Fornoni]
: : Sara
Gennaro (Università degli Studi di
Pavia-Cremona)
«Opera, evento, multimedia: a
proposito di Untitled Event a Black Mountain College,
1952»
Il cosiddetto Untitled Event di Black
Mountain, organizzato da John Cage nel 1952 in un college in North
Carolina, può essere visto come il primo esempio di
‘multimedialità’ moderna. Pittori, poeti,
musicisti, danzatori (tra i quali Robert Rauschenberg, David Tudor,
Merce Cunningham) si esibirono contemporaneamente, ciascuno nella
propria disciplina, in un libero intreccio di arti diverse.
L’Untitled Event presenta alcune delle caratteristiche
tipiche di eventi multimediali che comprendono una
molteplicità di discipline artistiche diverse: l’assenza
di una partitura, o di un testo (a parte alcuni appunti
sull’intervallo temporale da assegnare all’esibizione
di ciascun partecipante); l’autorialità collettiva; la
conseguente difficoltà a caratterizzarlo come opera
d’arte: viene chiamato «event»,
«happening», ma anche «piece».
L’assenza di un testo deriva anche dalla difficoltà di
individuare un codice comune alle diverse discipline. Oggi la
tecnologia digitale è vista da alcuni come un meta-codice che
rende possibile l’unione di diversi linguaggi artistici in
lavori multimediali. D’altra parte la tecnologia ha sempre
avuto un ruolo importante nel processo di avvicinamento tra le
arti: basti pensare al Padiglione Philips di Bruxelles a cui
collaborarono Le Corbusier, Varèse e Xenakis nel 1958, ma
anche a Variations V (1965), organizzato da Cage,
Cunningham, Gordon Mumma e altri, in cui immagini proiettate si
sommavano a suoni – registrati e live – connessi
ai movimenti dei danzatori grazie ad un complesso sistema di
fotocellule sul palco.
L’evento di Black Mountain ha avuto una
notevole importanza storica nell’ambito dei processi di
sconfinamento tra le arti e di avvicinamento tra musica e arti
visive: è stato a posteriori considerato il primo
happening, ed è stato preso ad esempio dagli artisti
fluxus, alcuni dei quali furono allievi di Cage alla New School for
Social Research alla fine degli anni ’50. Negli events
musicali fluxus l’aspetto visivo della performance
acquista un valore pari o maggiore di quello acustico: suono e
immagine vengono accostati con intento provocatorio o di messa in
discussione delle situazioni istituzionali della musica e di
frustrazione delle aspettative musicali del pubblico, o di
enfatizzazione dell’aspetto rituale del momento esecutivo,
come in Composition 1960 n. 2 di La Monte Young, in cui
pubblico e performer osservano e allo stesso tempo ascoltano
il suono di un fuoco acceso sul palco. Questa carica provocatoria e
sperimentale sembra oggi essersi esaurita: suoni e immagini si
intrecciano in esperienze multimediali che sono entrate a far parte
della pratica artistica contemporanea.
Bibliografia di riferimento
Fetterman, William, John Cage’s Theater
Pieces: Notation and Performances, Harwood Academic Publishers,
Routledge, 1996.
[a cura dell’autrice]
: :
Elena Mosconi
(Università degli Studi di Pavia-Cremona)
«Per un’archeologia
dell’audiovisivo: il cinema italiano degli anni
Dieci»
In Italia il processo di istituzionalizzazione del
cinematografo si compie a partire dal secondo decennio del XX
secolo con modalità, forme e caratteri peculiari. Dal punto di
vista produttivo, infatti, la lavorazione dei lungometraggi inizia
nel 1911, sulla scia di alcune cinematografie europee (come ad
esempio la danese Nordisk) e grazie all’immissione di
capitali freschi ad opera di esponenti di classi nobiliari e
altoborghesi che offrono un contributo alla promozione e
divulgazione della cultura letteraria e, in generale, umanistica.
Non a caso, il primo lungometraggio italiano iscritto al registro
delle opere tutelate dal diritto d’autore, Inferno
della Milano Film (1911, Adolfo Padovan e Francesco Bertolini),
è tratto dal poema dantesco.
Con il lungometraggio si modificano i modi e i luoghi
dell’esperienza filmica: l’attenzione dello spettatore
deve mantenersi desta per tempi più lunghi, mentre le
proiezioni si susseguono a intervalli temporali stabiliti (in
sequenza lineare, non più per accumulo) e in sale più
ampie e accoglienti. Ma il concetto di istituzionalizzazione si
riferisce a un sistema di regole che guidano sia la ricezione sia
la produzione dei testi a un insieme di pratiche codificate e
normalizzate. Bisogna, quindi, verificare quando il cinema
abbandona stilemi appartenenti ad altri campi espressivi per
assumere una connotazione più squisitamente cinematografica.
Pertanto, il cinema si istituzionalizza quando esce dalla serie
culturale ‘pittorica, ‘scenica’,
‘letteraria’, o ancora ‘fotografica’ per
raggiungere una dimensione pienamente filmica, caratterizzata dal
primato dell’integrazione narrativa.
Il parere di Elena Mosconi è che il cinema
italiano si sia istituzionalizzato negli anni Dieci più in
quanto linguaggio audio-visivo, pluricodico, che, come avviene nel
cinema americano, come forma narrativa. Le ragioni di questa
‘resistenza’ alla forma cinematografica sono forse da
ricercarsi nelle pieghe dell’identità socio-culturale
italiana, che ha ampiamente accreditato arti e pratiche espressive
diverse (dalla letteratura alla arti plastiche/visive, al teatro,
alla musica), e che preme per ricondurre a queste forme espressive
anche il cinema, oppure nell’influenza della grande forma di
spettacolo teatrale e melodrammatico (la cui scomposizione per
unità discorsive, le scene o i quadri, è più netta
che nel cinema) o ancora in un diverso e più rilevante peso
attribuito alla componente musicale, piuttosto che in una prudente
rielaborazione della modernità nelle sue forme più
destabilizzanti.
Se da un lato il letterato viene coinvolto in
produzioni cinematografiche per far presa sul pubblico potenziale e
calamitarne interessi e attese (quasi una griffe, una firma
più che un artefice), dall’altro al musicista viene
richiesto un intervento diretto, un incontro materiale con il film
in fase di lavorazione o di montaggio. I primi esempi di
composizioni musicali d’autore accertate testimoniano proprio
il modo in cui avviene quest’incontro tra musicisti e
direttori di scena: Ballo Excelsior (1913) di Luca Comerio,
che realizza una trasposizione cinematografica della pantomima di
Luigi Manzotti, musicata da Romualdo Marenco; Histoire
d’un Pierrot (1914) di Baldassarre Negroni, con musiche
di Pasquale Mario Costa; Cabiria (1914) di Giovanni
Pastrone, con la collaborazione di Gabriele D’Annunzio e la
celebre Sinfonia del fuoco di Ildebrando Pizzetti;
Rapsodia satanica (1915) di Nino Oxilia e con musiche di
Pietro Mascagni; Christus (1916) di Giulio Antamoro e su
musica di Giocondo Fino; Frate Sole (1918) di Ugo Falena e
Mario Corsi, musicato da Luigi Mancinelli.
[a cura di Marco Gurrieri]
: :
Roberto Agostini
(Università degli Studi di Pisa)
«In missione per la Nike: musica e
immagine nella pubblicità»
L’intervento di Roberto Agostini, frutto di un
suo lavoro condotto presso l’Università degli Studi di
Pisa assieme a studenti di cinema, mira ad analizzare il ruolo
della musica ed il funzionamento del suo peculiare linguaggio nei
processi multimediali, in particolare nello spot pubblicitario. I
caratteri propri di questa forma di comunicazione sono la
brevità e la concentrazione, che derivano dall’evidente
necessità di comunicare un messaggio in pochi secondi e che
fanno sì che uno spot pubblicitario risulti difficilmente
segmentabile.
Agostini ha presentato l’analisi di un video
del 2000, che pubblicizzava un sito creato dalla Nike
nell’ambito di una più estesa operazione commerciale
legata ai campionati europei di calcio; lo spot in questione,
prodotto da specialisti del settore, dura 90 secondi ed è
stato diffuso prevalentemente tramite internet. Fin dalla prima
visione risulta evidente che il linguaggio audio-visivo utilizzato
richiama da vicino quello dei videoclip e dei videogiochi, e questa
caratteristica è confermata dal fatto che dallo spot fu tratto
effettivamente un videogioco.
L’azione presentata dal video consiste in una
partita-combattimento tra alcuni famosi calciatori, incaricati di
recuperare un pallone custodito nell’EUR, e dei
guerrieri-robot rispondenti all’immagine che un occidentale
moderno può avere dei ninja. La musica riveste ovviamente un
ruolo importante ed ha fondamentalmente tre caratteri: retorico,
emotivo-affettivo e narrativo. Gli elementi sonori del video sono
un trascinante groove che dà continuità alla struttura
musicale, diverse parti contrastanti che regolano la tensione delle
scene e vari suoni e rumori, oltre ad un breve dialogo iniziale. Il
relatore, per classificare tali elementi sonori, ha usato nella sua
analisi le categorie di Philip Tagg «indicatori di stile
musicale» ed «effetti di messa in scena sonora».
Gli effetti sonori non propriamente musicali, che
Tagg chiama «anafonie soniche», sono sempre legati ad
azioni rappresentate, come un movimento di un attore o di un
oggetto, e spesso non sono realistici, ma simili a quelli –
ancora una volta – dei videogiochi, ed in quanto tali
costituiscono associazioni di suono ed immagine a cui tutti gli
spettatori sono abituati.
Agostini ha inoltre diviso lo spot in diverse
micro-sequenze visive e narrative, soffermandosi soprattutto sui
«giochi di sincronizzazione» fra azione e musica; ha
notato in proposito tre possibilità basilari:
- l’azione e la musica sono sincronizzate, cioè mutano
nello stesso momento; ciò avviene in punti nodali con funzione
di cesura;
- nell’ambito della stessa azione si ha un cambiamento
della musica, per suscitare nello spettatore un diverso stato
d’animo;
- in corrispondenza di un cambio di azione, la musica non subisce
un mutamento notevole.
È interessante notare come spesso ci sia un
piccolo sfasamento della sincronizzazione, in quanto la musica e
l’azione possono cambiare non proprio contemporaneamente, ma
con un leggero gioco di anticipo di una delle due componenti
rispetto all’altra.
L’analisi di Agostini dimostra chiaramente che
il linguaggio musicale utilizzato negli spot pubblicitari è
peculiare e, per essere analizzato, ha bisogno di una visione
d’insieme della musica e dell’immagine, che sono
intimamente legate. Inoltre, come per la maggior parte delle
musiche popolari contemporanee, chi si accinge ad analizzare questo
tipo di linguaggio non può disporre di un testo scritto, ma
deve limitarsi a guardare ed ascoltare il documento sonoro e, al
massimo, a tentare di trascriverne alcune parti.
[a cura di Luisa Anzolin]
: :
Alessandro Cecchi
(Università degli Studi di Pavia-Cremona)
«Sovrabbondanza dello stereotipo e
articolazione del senso nel videoclip Toxic di Britney
Spears, regia di Joseph Kahn»
L’intervento – nato all’interno del
seminario per dottorandi su «Musicologia e popular
music», coordinato da Gianmario Borio e Serena Facci –
ha preso in considerazione un prodotto multimediale tipicamente
mainstream, il videoclip Toxic di Britney Spears,
regia di Joseph Kahn (2005). È stata proposta un’analisi
del rapporto tra testo, musica e immagine, sulla base di uno schema
analitico proiettato in sala.
La struttura del brano risulta convenzionale:
introduzione; strofa 1, strofa 2, ponte, ritornello; strofa 3,
ponte, ritornello; interludio; ritornello (due volte), coda.
Musicalmente si nota la particolare insistenza di un musema
(strumentale) di due battute, caratterizzato dalla presenza degli
archi in un figurazione ritmica veloce (prima battuta) e poi del
«violino indiano», che compie una breve linea melodica
caratterizzata dalla presenza di una seconda eccedente (seconda
battuta). Tra la strofa 3 e il ponte il musema del violino compare
per moto retrogrado. L’atmosfera ‘indiana’ viene
ripresa nell’interludio, una parentesi musicale sospesa tra
evocazione di melismi vagamente ‘indiani’ e techno
music. Altrettanto caratteristica e ricorrente (alla fine dei
ritornelli, poi soprattutto nella coda) la sonorità del banjo,
che costituisce un musema secondario (su un accordo di settima
minore). Decorso armonico, batteria e basso tipicamente
pop-dance.
Il video si articola in tre momenti. 1)
All’introduzione e alla prima sezione corrisponde una
carrellata dall’esterno all’interno della fusoliera, e
qui dalla cabina di pilotaggio alla performer: Britney Spears
bionda hostess in minigonna, che beve dello champagne e poi
ballando accudisce i passeggeri; seduce uno stereotipo di uomo
‘grasso, brutto, impacciato’ e lo smaschera nella scena
della toilette dell’aereo (poco prima del bacio...)
rivelandolo come stereotipo opposto, ‘magro, biondo, sicuro
di sé’, al quale la hostess sottrae un non precisato
oggetto. 2) Veniamo immediatamente proiettati a Parigi (si scorge
la Tour Eiffel) di cui è messo in evidenza il lato
‘notturno’. Dopo una cavalcata su una moto guidata da
un uomo ancora stereotipato (nero, muscoloso, a torso nudo) la
performer (totalmente trasformata: capigliatura rosso schocking,
trucco pesante nero e rosso, abbigliamento in pelle da
‘dominatrice’), con un salto mortale elaborato grazie
alla computer graphic, passa all’azione: il misterioso
oggetto diventa chiave d’accesso – ambientazione
tipicamente videogame in cui la Spears veste i panni
dell’eroina – a un laboratorio (compare la scritta
«Toxic») evidentemente segreto dove viene prodotta la
sostanza misteriosa evidentemente tossica (come indica il colore
stereotipato: verde fosforescente). L’uscita dal laboratorio
(tra i raggi ultrarossi da film d’azione) è una sorta di
danza vagamente ispirata alle arti marziali (corrisponde
all’interludio). 3) Segue l’assalto della performer
(nuovamente trasformata: capelli neri, trucco scuro, vestita in
pelle, ma coperta di veli) verso l’antagonista maschile,
inaugurata dalla salita (con ventose) sulla parete di un
grattacielo di Londra. È l’ultimo atto di quella che
sembra una ‘seduzione’: in realtà la performer
inscena la ‘vendetta’ per il tradimento che
intravediamo nel taglio rapidissimo del montaggio, intossicando
l’uomo (mentre lui cede alla tentazione amorosa, come anche
alla forza fisica dimostrata dalla assalitrice) con la sostanza
mortale. L’intossicazione è seguita da un balzo giù
dal grattacielo che riconduce la protagonista – circolarmente
– all’identità iniziale della hostess e lo
spettatore all’interno dell’aereo, in un contesto
normale. Rivolgendosi allo spettatore, la hostess strizza
l’occhio, alludendo alla complicità nel mantenimento del
segreto (qui termina il brano musicale). Una nuova carrellata
conduce all’esterno dell’aereo, dove cinque volatili
neri (intravisti all’inizio del video) seguono in schiera
l’aereo. Tutto il video è inframmezzato da una scena in
cui la performer è da sola e nuda (rivestita di una
scintillante e trasparente calzamaglia attraverso
un’elaborazione grafica) e danza in un alone bianco etereo
(il labiale è costantemente in sincrono con la musica). è
una scena ‘epifanica’, e un fondamentale hook
del video. Uno schema a colori indica la particolare ricorrenza di
questa sequenza dall’inizio alla fine del video.
Il gioco degli stereotipi investe tutte le dimensioni
del videoclip e del brano musicale. In questo è facile
intravedere le finalità ‘di mercato’ del prodotto:
l’evocazione musicale dell’India (il musema citato)
nonché la presenza della danza, di melismi orientaleggianti
rimanda al vasto mercato legato al cinema e al pop indiano (la
produzione ‘Bolliwood’); i teenager di entrambi i sessi
trovano più di un motivo di identificazione, dal momento che
gli stereotipi presentati coprono una vasta gamma tipologica; la
provocazione sessuale esplicita, nel testo e nelle immagini, la
presentazione stessa riservata a questo video da parte dei
produttori, allude alla ricerca di un pubblico più adulto, che
si affianca a quello dei teenager, caratteristico di Britney
Spears. Questo tipo di prodotto multimediale rimanda chiaramente
più alla figura del produttore, che appronta uno staff per
finalità di mercato, costruendo il personaggio, che a quella
dell’autore: in primo piano è la performer,
l’icona pop, che non coincide con l’autore (o gli
autori) in nessun senso.
Per quanto riguarda il problema
dell’articolazione del senso nel prodotto multimediale,
valgono le considerazioni svolte da Nicholas Cook in Analysing
Musical Multimedia (1998) sul videoclip Material girl di
Madonna. Come in questo, anche in Toxic il senso articola
per antitesi. Mentre il testo fa riferimento a una
‘intossicazione’ amorosa subita dalla protagonista, il
video inscena – ironicamente – la situazione opposta:
è la protagonista a intossicare il traditore.
Ci si riallaccia infine alle considerazioni
introduttive di Michela Garda, con un salto al Romanticismo
tedesco. Friedrich Schlegel avanzava la proposta di una convergenza
tra le arti unitamente al rifiuto del concetto razionalistico di
espressione, ancorato al primato della comunicazione di concetti
determinati: per lui «Un’idea è un concetto
compiuto sino all’ironia, una sintesi assoluta di antitesi
assolute, l’alternanza continuamente autogenerantesi di due
pensieri in conflitto».[2] Quel
particolare tipo di idealismo filosofico, còlto nelle sue
origini storiche, sembra permeare l’ideologia del prodotto
multimediale, che al momento di articolare il senso su piani
diversi – il testo, le immagini, la musica – deve in
qualche modo articolarlo per antitesi, diciamo pure
‘disarticolarlo’, ai fini di un arricchimento del
livello ‘estetico’. Il prodotto multimediale – in
conclusione – è dunque cifra dell’esplosione del
senso, dell’anti-realismo che sembra pervadere ogni aspetto
della società contemporanea?
[a cura dell’autore]
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