L’idea che l’Italia sia
un paese con un ingente patrimonio di beni culturali è
un’opinione da secoli ben radicata. Che questo patrimonio non
sia solo un simpatico accidente di natura semifolkloristica, ma che
possa anche essere una rilevante risorsa economica, oltre che
culturale, è una convinzione che invece si è fatta strada
in tempi molto più recenti. Naturalmente questa percezione non
è ancora stata compiutamente assimilata, come tale, dal
sentire collettivo e si è affermata «in una parte
più e meno altrove». Per fare degli esempi: a nessuno
sfugge l’importanza dell’arte figurativa italiana (e
chiunque, anche all’estero, ha almeno sentito parlare degli
Uffizi o dei Musei Vaticani e immagina cosa aspettarsi in essi),
dei paesaggi e dei luoghi turistici (e chiunque sa comprendere
pregi e peculiarità di un paesaggio toscano o di una
città come Venezia), persino delle tante tradizioni
gastronomiche locali (e quanti si vantano della conoscenza di
piatti o di vini molto speciali?). Meno ovvio, invece, che anche i
tesori documentari musicali italiani siano avvertiti come un bene
culturale e debbano essere considerati una risorsa di tutto
rispetto della nostra storia civile (e possano anche diventare in
qualche modo una risorsa economica): come è noto, ciò
dipende soprattutto dal fatto che la musica viene vissuta troppo
spesso esclusivamente nelle sue manifestazioni esteriori e come
merce di consumo leggero, non come motivo di orgoglio e di studio
culturale.
È forse solo nella cerchia degli
addetti ai lavori che si avverte il notevole sforzo in corso da
oltre un ventennio per tentare di assumere il controllo
dell’immenso patrimonio di beni musicali presente
capillarmente in tutto il paese. Ché, anzi, l’Italia
gode di una eredità culturale molto più ampia di altri
paesi del Vecchio Continente: nonostante le guerre susseguitesi sul
suo suolo, nonostante le scorribande predatorie dei vari dominatori
stranieri, nonostante le catastrofi naturali che periodicamente
mettono a dura prova le nostre memorie storiche, l’Italia, in
virtù di un atteggiamento molto conservativo di biblioteche e
archivi, ha custodito un’impressionante quantità di
materiali della sua storia musicale recente e più remota, che
però, proprio per la loro mole (oltre che per la loro natura e
per una certa trascuratezza nazionale nel trattare i documenti
musicali), sono in buona parte ignoti o solo superficialmente
inventariati.
La valorizzazione di un bene
culturale musicale richiede una serie di passaggi che qui ci piace
rammentare, avendo in mente – come la pubblicazione oggetto
del nostro esame – in particolare il patrimonio di partiture,
spartiti, parti e libretti, e tralasciando in questa sede strumenti
e altro materiale di pertinenza musicale:
1. l’identificazione dei fondi musicali,
e quindi la consapevolezza della loro esistenza;
2. la catalogazione puntuale dei fondi
identificati;
3. la disponibilità dei fondi, con la
verifica dell’effettiva accessibilità e la promozione di
riproduzioni parziali, sotto forma di ristampe anastatiche, di
campagne di microfilmatura o di digitalizzazione ed eventuale messa
in rete;
4. dopo adeguata cernita, l’edizione dei
materiali ritenuti più interessanti e riproponibili
all’interesse dei fruitori moderni;
5. ed infine l’esecuzione concreta delle
musiche conservate nei fondi presi in esame.
Orbene, il volume curato da
Rostirolla (Cabimus, dall’acronimo del titolo latino)
si muove all’interno del primo dei punti sopra considerati,
ossia il primo anello della catena di un qualsiasi progetto di
valorizzazione del nostro repertorio di documenti musicali storici.
Rostirolla profonde in questa pubblicazione un’esperienza
pluridecennale di indagini e di raccolta di informazioni,
realizzatesi in buona parte attraverso l’iniziativa
dell’Ibimus (Istituto di bibliografia musicale, da lui
fondato) e i costanti contatti con la sede centrale del RISM ed i
centri di documentazione sparsi sul suolo italiano, oltre che con
la collaborazione di singoli studiosi (efficacemente, seppure
parzialmente, rappresentati da oltre cinque pagine fitte di nomi
nei ringraziamenti). Il Cabimus ha avuto una serie di
predecessori, a partire da un contributo di Claudio Sartori, che
nel 1971 richiamava l’attenzione su 372 biblioteche musicali,
immediatamente seguito da Rita Benton, che per la serie C del RISM
nel 1972 elencava 440 istituzioni; lo stesso Rostirolla pubblicava
nel 1989 un censimento più ampio dei precedenti (1047
segnalazioni), per addivenire nel 1993 ad un repertorio di circa
1500 sedi depositarie di documentazione rilevante.[1] A distanza di oltre dieci anni, il
Cabimus è l’evoluzione di quella mappa e aumenta
il numero delle sedi censite a 1918, divenendo così il
repertorio più ampio finora realizzato e messo a disposizione
degli studiosi.
Il Cabimus si apre con
un’ampia introduzione. Essa muove dall’esame della
complessa situazione in cui versano le numerose biblioteche
italiane, la cui tipologia è molto variegata così come lo
è la dipendenza amministrativa dai più svariati enti.
Rostirolla riassume successivamente il percorso svolto dai
precedenti censimenti fino al presente ed illustra a grandi linee i
movimenti di riscoperta e di rivalutazione dei fondi musicali
italiani, dalle iniziative di Guido Gasperini nella prima metà
del Novecento, a seguire con l’opera essenziale di Claudio
Sartori, per passare poi al fiorire di iniziative a partire dagli
anni Ottanta del secolo appena concluso. Rostirolla si sofferma poi
sulla ricchezza e l’importanza dei fondi conservati nei
conservatori di musica, nelle principali biblioteche
‘generali’ e su altri fondi di particolare importanza,
concludendo con la constatazione che il patrimonio musicale
italiano è rappresentativo di un intero millennio di storia.
Nell’ultima parte dell’introduzione Rostirolla richiama
il dibattito in corso sui problemi ancora irrisolti per una buona
gestione di questi ‘giacimenti culturali’, dalla
catalogazione alla loro valorizzazione. Quasi ad alleggerire la
complessità del quadro tracciato fino a questo punto e per far
toccare con mano al lettore le minute difficoltà occorse nella
redazione del Cabimus, l’introduzione è seguita
dalla narrazione di una mezza dozzina di episodi semi-tragicomici
avvenuti durante la raccolta dei dati: episodi che contribuiscono a
dare un’idea delle molteplici reazioni che si possono
incontrare lavorando in un settore di fatto ancora molto
trascurato.
Esaurita la parte introduttiva, il
censimento dei fondi musicali si apre con alcune sezioni
accessorie: dapprima un indice generale degli archivi menzionati
nel Cabimus (ordinato alfabeticamente per località,
consente un rapido sguardo sul contenuto dell’imponente
volume e l’immediata verifica della presenza di una
località o una biblioteca nel censimento), quindi
l’elenco delle abbreviazioni generali, delle abbreviazioni
bibliografiche e delle sigle dei periodici citati.
Siamo giunti al cuore del repertorio,
con le singole schede informative dedicate di volta in volta ad una
biblioteca o archivio o centro di raccolta di manoscritti ed
edizioni. La scheda tipo fornisce una serie di notizie preliminari
sull’istituzione: nome ufficiale, indirizzo postale, recapito
telefonico, indirizzi elettronici, la sigla RISM (integrata da
sigle provvisorie per quegli enti che ancora non ne siano
provvisti), ente di appartenenza e data di fondazione, orari di
apertura e servizi offerti. Alcune di queste informazioni sono
tanto preziose, quanto caduche: recapiti telefonici, indirizzi
elettronici e tipologia di servizi sono infatti molto utili per
pianificare ricerche, ma sono anche elementi che facilmente
cambiano nel tempo, rendendo inefficaci in futuro molte indicazioni
di questo vasto repertorio. Il secondo gruppo di informazioni
è quello che riguarda la natura e la consistenza dei fondi
musicali posseduti dall’istituzione: è forse questa la
parte che più interessa lo studioso e ogniqualvolta la scheda
si dilunga nell’elencazione dettagliata (pur nella sintesi)
del posseduto della biblioteca si avverte tutta la ricchezza di
questo repertorio, che permette di avvicinare il lettore alla
fisionomia dell’archivio pur stando distante dalla sua sede.
Certamente le schede sono molto discontinue, poiché si va da
quelle che sintetizzano il posseduto in poche laconiche righe a
quelle che offrono un computo esatto dei documenti depositati e ne
elencano dettagliatamente gli autori. È evidente che la
difformità di questa parte delle schede non è da
considerare un demerito dei curatori del repertorio, quanto un
riflesso della diversa disponibilità delle biblioteche nel
diffondere notizie sulla consistenza dei propri fondi (spesso nelle
singole voci si segnala il nome di colui che ha fornito le
informazioni): il fatto che il Cabimus somigli proprio alla
somma di tanti appunti raccolti in maniera difforme nel corso del
tempo è testimonianza da un lato del caparbio lavoro condotto
da Rostirolla e dal suo staff di collaboratori, dall’altro
dell’oggettiva difficoltà che si incontra tuttora nel
tentare di documentare una realtà così frammentata ed
eterogenea. A conclusione della scheda c’è una
bibliografia relativa sia alla città sede
dell’istituzione che detiene i fondi, sia
all’istituzione in sé, sia ai principali testimoni
ospitati nei suoi archivi. Questa bibliografia, di
un’ampiezza che talora desta vera impressione, segue la
falsariga di quanto a suo tempo prodotto dalla Benton, ma si impone
come strumento di lavoro di primaria importanza per approfondire la
conoscenza dei depositi archivistici e librari italiani.
La sequenza principale delle schede,
che occupa la porzione di gran lunga prevalente del repertorio (pp.
1-871), è seguita da una proporzionatamente corposa sezione di
addenda (pp. 875-1026), risultato dell’ulteriore raccolta dei
dati effettuata dopo la prima chiusura del lavoro (1999). Bisogna
dire che usualmente nei repertori bibliografici gli addenda sono
confinati nelle ultime pagine della pubblicazione e rimangono
così spesso trascurati dal lettore, causando un danno che
– per questo tipo di letteratura – è assai
più grave che in un saggio di altro genere: in questo caso,
invece, il sistema di segnalazioni che rinvia dalla sezione
principale agli addenda è presente in ogni scheda interessata,
garantendo al lettore un sicuro richiamo al completamento della
notizia.
Il Cabimus si chiude con gli
indici: quello delle sigle RISM utilizzate (e quindi un riassunto
delle istituzioni presenti nel repertorio) e un imponente indice
dei nomi (pp. 1051-1139), prevalentemente dedicato ai nomi dei
compositori le cui musiche sono censite nel repertorio
(limitatamente ai nomi che compaiono nelle schede ricche di
dettagli in tal senso).
Una pubblicazione così imponente
non sfugge ad alcuni problemi redazionali; in particolare si
riscontrano con una certa frequenza errori di varia natura, alcuni
macroscopici (come il doppio elenco delle abbreviazioni
bibliografiche, ripetuto accidentalmente alle pp. lxxxvii-xci e alle pp.
cix-cxiii), altri
meno palesi (ad es. nella scheda 376: nella citazione del
Catalogo tematico delle opere a cura di Inzaghi e Bianchi
manca il nome del compositore interessato, Alessandro Rolla).
Errori e refusi sono assolutamente comprensibili in un lavoro di
tanta mole, e non sarà certo lo scrivente a biasimarli,
consapevole come è della difficoltà di debellarli del
tutto: tuttavia non si può tacere il fatto che simili refusi
ingenerano nel lettore il dubbio che possano annidarsi errori
importanti anche laddove egli non sia in grado di riconoscerli
autonomamente.
Avanzando una considerazione più
generale, su questo repertorio aleggia costante il problema della
completezza, in parte espresso più volte al suo stesso
interno, in parte come aspettativa del lettore. Si tratta di un
problema che ha parecchi risvolti e si presta ad alcune
riflessioni:
1. Modalità degli aggiornamenti.
Ogni repertorio cartaceo comincia a morire nell’istante
stesso in cui viene licenziato dallo stampatore. I curatori di
questo, consci della necessità di attualizzare i dati più
labili, di correggere gli errori, di integrare le lacune, di
proporre le novità, progettano la pubblicazione di
aggiornamenti biennali. Questa soluzione, come è noto, si
traduce nel tempo in una consultazione sempre più macchinosa
che induce più facilmente in errore il lettore e, dopo un
certo tempo, invita ad una riedizione integrale del repertorio.
Sarebbe comodo, in questo caso, invocare un’edizione
elettronica del Cabimus, il cui aggiornamento potrebbe
essere condotto in tempi rapidi e a costi ridottissimi. Ma lo
scrivente, che pure è un fervido fautore delle risorse
elettroniche, è anche un fervido e affezionato cultore dei
libri cartacei: e la consultazione del Cabimus in tale
formato è fonte di soddisfazione, anche per le frequenti
illustrazioni e i frequenti capilettera ornati sparsi fra le varie
schede.
2. Possibilità di ampliamenti.
Nella prefazione il curatore sembra quasi scusarsi se non tutte le
schede riportano la completezza dei nomi dei compositori presenti
nel fondo di volta in volta esaminato, ripromettendosi di puntare a
questa completezza con i fascicoli di aggiornamento. Questo
obiettivo sembra francamente eccessivo e forse addirittura
velleitario, giacché il Cabimus andrebbe a ricalcare in
parte un catalogo collettivo nazionale della musica (SBN, con la
sua diramazione specializzata per il materiale musicale) che,
già in corso, ha ben altra mole (e ben altri problemi).
3. Opportunità di ampliamenti.
Vorrei qui sottolineare come un repertorio di fondi musicali non
possa (materialmente) e non debba (disciplinarmente) ambire a
collimare con un mega-catalogo. Il suo gran pregio, che il
mega-catalogo non ha, è proprio quello di far risaltare la
natura, l’estensione, la storia, il valore culturale di ogni
fondo o di ogni biblioteca, cosa che il catalogo – nella sua
puntuale descrizione di ogni singolo documento – tende
inevitabilmente a perdere. Si tratta di due facce diverse della
stessa medaglia, ed è opportuno che ognuno svolga il suo ruolo
a vantaggio dello studioso-utente: il catalogo (ho in mente
ovviamente un sistema elettronico di amplissimo respiro) scova per
l’utente ogni singola manifestazione a stampa o manoscritta,
il repertorio di archivi e biblioteche instrada a comprendere il
valore storico-culturale di quella manifestazione nel contesto in
cui essa fisicamente si trova.
4. Orizzonte degli ampliamenti.
Più volte il curatore avverte il lettore della
provvisorietà di questo repertorio, che dichiara trattarsi
«un tentativo, ancora relativamente provvisorio»: la
cautela molto appropriata che trapela da queste parole ci dà
la misura di quanto ancora sia lontano l’obiettivo di una
consapevolezza attendibile del patrimonio musicale italiano. (Anche
il fatto che in soli quattro anni il repertorio sia lievitato,
negli addenda, di circa il 15%, sia per il numero di schede
descrittive, sia per il numero di pagine della pubblicazione,
è un ulteriore indizio della mole di dati ancora da recuperare
ed elaborare). Tuttavia questo sforzo di completezza rischia di
arenarsi per via della tendenza a dilatare a dismisura il concetto
di «fondo musicale». Il problema è ampiamente
richiamato nelle pagine introduttive al lavoro: nel Cabimus
sono stati presi in considerazione i più tradizionali
documenti musicali, ossia spartiti e partiture musicali, a stampa e
manoscritte. Ma l’orizzonte degli studi musicali e
musicologici ora più che mai avverte l’esigenza di
inglobare anche altri tipi di manifestazioni, come i libretti, le
audioregistrazioni, i carteggi epistolari, la musica contemporanea,
il repertorio di musica leggera e quant’altro:
l’espansione del concetto di fondo musicale anche a questi
materiali, tuttavia, costringerebbe il Cabimus ad una
espansione dimensionale di difficile gestione.
In conclusione, siamo di fronte al
migliore dei censimenti in circolazione per la percezione della
situazione dei fondi musicali in Italia. E tanto basta non solo per
salutare con estremo favore la comparsa del Cabimus qui
commentato, ma per attendere con curiosità e impazienza
l’arrivo delle promesse integrazioni biennali. Una maggiore
consapevolezza dei fondi posseduti sul territorio italiano non
può che influire positivamente sulla loro preservazione e
sulla loro valorizzazione, nonché fungere da stimolo per gli
studiosi. Non ultimo, essa potrà contribuire a risvegliare
anche le coscienze intorpidite di coloro che sono estranei ai
fenomeni musicali al riconoscimento dell’importanza paritaria
che hanno la musica e la sua tradizione documentaria nel patrimonio
dei beni culturali del nostro paese.
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