La collana «Constellatio
musica», che dedica maneggevoli e autonomi volumi monografici
a personaggi rappresentativi della musica ‘antica’
senza seguire un piano preordinato in senso cronologico o
geografico (come del resto l’immagine di un ‘insieme di
stelle’ evocata dal titolo preannuncia e giustifica),
inaugura con Francesco Landini la sezione dedicata al medioevo.
Il libro si articola in tre parti,
rispettivamente dedicate alla biografia, alla produzione musicale e
alla fortuna, cui fa seguito il catalogo delle opere; le appendici
conclusive di bibliografia e discografia non hanno aspirazioni di
completezza rinviando per questo al volume miscellaneo Col dolce
suon che da te piove. Studi su Francesco Landini e la musica del
suo tempo, curato da Maria Teresa Rosa Barezzani e Antonio
Delfino e pubblicato per i tipi della fiorentina SISMEL-Edizioni
del Galluzzo nel 1999. L’articolazione del testo è
già di per sé rappresentativa degli intenti divulgativi
perseguiti nella collana, che rivolgendosi a un pubblico di
appassionati richiede una prosa scorrevole e seducente che sia il
meno possibile frammentata e appesantita da un apparato di note
esplicative a piè di pagina. Nulla vi è di più
difficile che combinare armonicamente queste richieste con il
rigore scientifico, soprattutto quando si voglia parlare di un
compositore come Landini, per il quale è necessario mostrare
gli spunti di riflessione che animano a tutt’oggi il
dibattito musicologico e le acquisizioni largamente condivise.
Per quanto riguarda la biografia di
Francesco Landini, cui è dedicata la prima parte, essa si
dipana, attraverso una narrazione piana e sintetica, dalla nascita
alla morte dell’autore, coagulandosi intorno a quattro
momenti salienti: 1) la cecità, che, sopraggiunta in tenera
età, favorisce l’accostamento del giovane Francesco alla
musica, all’apprendimento del canto e alla pratica
strumentale; 2) l’attività di organista, organaro e
compositore svolta dapprima presso il monastero di Santa Trinita e
in seguito presso il capitolo di San Lorenzo, dove Landini lavora a
fianco di Lorenzo Masini e, alla morte di questi (1372), ne diviene
ufficialmente il successore; 3) il controverso conferimento della
corona d’alloro a Venezia e la questione
dell’attribuzione all’arte landiniana dei quattro
mottetti trasmessi adespoti nei frammenti Padova, Bibl.
Universitaria, 1106 e Montefiore dell’Aso, Bibl. Francesco
Egidi. Nel tratteggiare i termini della questione, che pone in
disaccordo diversi studiosi, Alessandra Fiori non tiene conto della
nuova posizione assunta da Gabriele Bonomo in La tradizione
storica dei mottetti celebrativi già attribuiti a Francesco
Landini (in Col dolce suon che da te piove, cit., pp.
367-87), che pure cita in bibliografia, secondo cui sono da
attribuire a Landini certamente Principum nobilissime e
plausibilmente gli altri tre mottetti, che con quello condividono
la dimensione celebrativa e ritraggono scenari socio-politici non
in contraddizione con la biografia del compositore; 4)
l’attitudine speculativa di Landini esaltata da Giovanni
Gherardi da Prato nel Paradiso degli Alberti e messa a
frutto nel poemetto in esametri latini in difesa di Guglielmo
d’Ockham, a rappresentare la cultura del compositore
fiorentino e l’ampio ventaglio delle sue competenze.
Fanno da cappello a questa
esposizione testimonianze coeve sulla notorietà goduta dal
compositore quando era ancora in vita e sul riconoscimento della
sua straordinarietà che lo faceva, per dirla con Cino
Rinuccini, «cieco del corpo ma dell’anima
illuminato».
La terza parte, dedicata a una
panoramica sulla diffusione dell’opera landiniana –
nella sua veste originaria, attraverso l’analisi della
tradizione manoscritta e l’accenno alla testimonianza
letteraria del Sollazzo di Simone Prudenzani, e nella sua
veste contraffatta del travestimento spirituale cui furono soggette
alcune composizioni profane –, non può che risolversi,
all’interno di un volume monografico di questo tipo, in una
sintesi articolata degli studi preesistenti, in particolar modo di
John Nádas.
La produzione musicale del
compositore fiorentino, cui è riservata la seconda parte, si
focalizza soprattutto sulla ballata polifonica, forma
poetico-musicale che lo stesso Landini portò alla piena
affermazione: l’intento dichiarato dall’autrice,
indubbiamente difficoltoso, è di mettere a fuoco le
caratteristiche principali dello stile del musicista, esibendone
affinità e differenze rispetto alla tradizione trecentesca
italiana. Il modo con il quale sono affrontate le tematiche,
però, rende lo svolgimento della trattazione un giustapporsi
di argomenti di cui si fatica a cogliere il piano organizzativo e
il nesso logico a questo sotteso: ad esempio per i suoni
caratteristici del modo viene usato sin da p. 45 un lessico che
attinge all’armonia classica (in virtù del quale
finalis e repercussa vengono rispettivamente dette
tonica e dominante), ma è solo a p. 71 che la corrispondenza
tra i due ambiti è esplicitata. Forse il filo conduttore che
lega la rassegna delle caratteristiche dello stile compositivo di
Landini si potrebbe intravedere nell’ideale estetico di
unitarietà ed equilibrio più volte evocato dalla Fiori,
sebbene esso non costituisca l’ordito visibile del tessuto
espositivo. Sono infatti considerazioni sul bilanciamento e la
simmetria delle due parti melodiche con cui s’intona la
ballata (A per la ripresa e la volta e B per le mutazioni) a
introdurre il tema delle relazioni tra ripresa e mutazioni.
Interessante, a questo proposito, la valutazione qualitativa che la
Fiori offre del materiale testuale e musicale della ripresa e delle
mutazioni, in base alla quale la bipartizione della forma musicale
della ballata non ha carattere avversativo, come nelle forme
bipartite barocche e classiche, bensì si connota
all’interno di una prospettiva coerente in cui la ripresa
asserisce, la stanza approfondisce e la volta (musicalmente
identica alla ripresa) riepiloga: spiace che tale spunto non trovi
poi sviluppo né chiara esemplificazione musicale. In questa
prospettiva, comunque, l’autrice riconosce che le melodie A e
B si distinguono per l’ambitus (con B vocalmente
più esteso di A), per l’ornamentazione e per
l’assetto modale, quest’ultimo ritenuto terreno in cui
si possono individuare le differenze più significative. Tale
affermazione sembra preludere a una discussione sulla modalità
della musica landiniana e alla relativa dimostrazione delle tesi
sostenute: in verità queste aspettative vengono disattese da
una trattazione riduttiva che, nel mancato affresco del dibattito
tuttora acceso sull’effettiva applicabilità del sistema
modale al repertorio polifonico del Trecento, disperde le opinioni
della studiosa e non mette a fuoco il suo apporto personale alla
questione. La teoria trecentesca, infatti, poco dice sulla
modalità nella polifonia: uniche testimonianze ci vengono da
Amerus, che nel suo trattato Practica artis musicae del 1271
afferma l’adozione dei modi nel conductus e nella
cantilena e l’utilizzazione del modo misto nelle
cantilenae organicae, probabilmente sollevando – come
sostiene Sarah Fuller – la reazione di Johannes de Grocheo,
che intorno al 1300 nel suo De musica nega che il
tonus possa essere applicato al cantus
mensuratus, velando, però, di dubbio tale negazione con
un «forse» («cantus autem iste per toni regulas
forte non vadit nec per eas mensuratus») e lanciando agli
altri la sfida di dimostrare il contrario («Et adhuc, si per
eas mensuratur, non dicunt modum per quem nec de eo faciunt
mentionem»). Più tardi, nel 1375, l’Anonimo di
Berkeley offrirà una serie di regole necessarie
all’identificazione del modo di un brano polifonico che,
escludendo l’ambitus a causa dell’estensione
raggiunta dalle voci nel loro insieme, si concentrano sulla sola
finalis; infine Nicola da Capua (Compendium
musicale) all’inizio del XV sec. sosterrà
l’uso di due modi nel contrappunto, il primo costruito su
Г (dorico trasposto) e l’altro su C (ricordo che i due
modi per Gilbert Reaney sarebbero stati in origine riservati alla
sola musica profana e per questo a lungo esclusi dalla teoria
modale). È proprio l’assenza di teoria che ha indotto
molti studiosi (ad es. Richard L. Crocker, Oliver Ellsworth, Nino
Pirrotta) a ritenere che i pochi riferimenti dei trattatisti alla
modalità siano da ricondurre a un concetto di modo come
criterio di classificazione utile all’analisi di brani
polifonici e non come aprioristica regola compositiva. Di fatto la
remora ad affrontare un tema così spinoso ha determinato
l’esiguità della specifica letteratura
sull’argomento: se si escludono alcuni lavori su Machaut
(come quelli di Reaney, principale assertore
dell’applicazione della modalità nella musica polifonica
trecentesca), la maggior parte degli studi e delle analisi si
riferiscono al repertorio dei secoli XV-XVI, epoca in cui la
modalità entra a pieno diritto nella teoria della musica
misurata. Ciò si traduce nella mancata formulazione e
sperimentazione di un metodo analitico unico, universalmente
accettato, e conforme alla logica compositiva trecentesca, italiana
nella fattispecie. Nell’esposizione della Fiori non vi è
richiamo alcuno a un panorama di studi così controverso e
complesso, e le informazioni circa il riconoscimento del modo nella
polifonia profana di Landini vengono offerte come conoscenza
assodata e ampiamente condivisa dalla letteratura specialistica. Se
dunque l’autrice è convinta che si possa parlare di
modo, o comunque di strutture modali nella polifonia trecentesca
italiana (convinzione che peraltro in buona parte personalmente
condivido), perché non esplicitare il metodo di analisi
utilizzato e i criteri che lo informano? Interrogando il testo
della Fiori sembrerebbe che gli elementi valutati per il
riconoscimento del modo siano le altezze su cui risolve la cadenza
(in particolare al termine di sezione) e la delimitazione
dell’ambitus delle singole voci. Questi non sono
però considerati in toto né in relazione al
trattamento che la coeva teoria modale (sebbene ancora confinata ai
trattati di canto piano) destinava loro: non si contemplano, ad
esempio, l’associazione della teoria esacordale con la teoria
modale e la composizione strutturale dell’ambitus in
tetracordo e pentacordo quali estensioni-base su cui costruire le
varie frasi della melodia (il che permette di individuare i
principali punti di svolta melodici e i toni di cadenza,
generalmente corrispondenti agli estremi più bassi del
pentacordo e del tetracordo, rispettivamente finale e cofinale);
non si fa riferimento alcuno a tutta una serie di fattori utili
all’analisi modale, ovvero alle sonorità più
ricorrenti che articolano la sintassi di un brano musicale
(interessate dalle procedure compositive del prolungamento, della
reiterazione o trattate come punto di arrivo e di risoluzione di
successioni orientate), alla valutazione delle cadenze (forti o
deboli in base al grado di tensione della prima sonorità e al
grado di risoluzione e chiusura della seconda, nel rispetto delle
norme coeve di contrappunto), all’analisi delle relazioni
melodiche funzionali (ad es. sul modello proposto da Joseph Smits
van Waesberghe).
Merita qualche considerazione
aggiuntiva anche la questione del ritmo e della notazione, alla
luce anche delle nuove problematiche sollevate per l’Ars Nova
dagli studi di Marco Gozzi (cfr. New Light on Italian Trecento
Notation. Part 1: sections I-IV.1, «Recercare», 13,
2001, pp. 5-78). Poiché le scelte e le particolarità
notazionali riconoscibili nelle composizioni di Landini non possono
essere a lui tributate con certezza, data la sua cecità,
l’unica valutazione che se ne può fare è ovviamente
in rapporto al contenuto musicale che esprimono e alle
possibilità raffigurative che il sistema italiano coevo
offriva. Le opere di Landini sono scritte nella cosiddetta
‘notazione mista’, ovvero una notazione tarda che si
basa essenzialmente sul sistema francese (impostato
sull’equivalenza della minima e
sull’organizzazione dei rapporti tra i valori di durata di
longa, brevis, semibrevis e minima
rispettivamente in modus, tempus e prolatio,
perfetti o imperfetti, diversamente combinabili) pur conservando
particolarità della notazione italiana (ad es. alcune figure
di note). Ciò non impedisce, come sottolinea la Fiori, di
riconoscere come prediletti quegli schemi facilmente identificabili
con le divisiones italiche che assecondano un andamento
fiorito della melodia del Cantus (nella fattispecie quaternaria,
ottonaria e duodenaria). Non risulta invece chiaro come Landini
sfrutti le potenzialità del sistema francese offertegli dalla
‘notazione mista’: non si può infatti risolvere la
questione affermando genericamente che «tale sistema mensurale
consentirà una condotta melodica assai duttile e la
costruzione di periodi musicali più estesi»,
soffermandosi poi, a titolo esemplificativo ma in più
occasioni, sull’opportunità di dilatare le sincopi oltre
la singola battuta – effetto che peraltro Bartolino da Padova
otteneva usando sapientemente la notazione italiana attraverso le
ligaturae di parigrado (cfr. Tiziana Sucato, La
tradizione notazionale delle opere di Bartolino da Padova e il
codice Mancini, in Problemi e metodi della filologia
musicale, tre tavole rotonde, a cura di Stefano Campagnolo,
Lucca, LIM-Una cosa rara, 2000, pp. 29-37). È piuttosto il
frequente ricorso all’alternanza e/o alla sovrapposizione
della senaria perfetta e dell’imperfetta a trovare
giustificazione nel sistema francese in virtù
dell’equivalenza della minima, dal momento che le
breves, rispettivamente ternaria e binaria, delle due
divisiones italiche non si equivalevano affatto, come
Marchetto da Padova ribadisce in più passi nel suo
Pomerium. Nel sistema marchettiano, infatti,
l’equivalenza della brevis non è da intendersi in senso
assoluto ma all’interno di ogni singolo ramo in cui si
bipartisce il sistema italiano a livello di divisio prima:
si equivalgono dunque le breves (e le semibreves)
delle divisiones binaria, quaternaria, senaria imperfetta e
ottonaria, consentendo così l’esatta sovrapposizione
delle quartine di minimae dell’ottonaria con le
terzine della senaria imperfetta; analogamente si equivalgono tra
loro le breves (e le semibreves) della ternaria,
della senaria perfetta, della novenaria e della duodenaria. Ora, la
troppo sintetica descrizione della notazione italiana offerta dalla
Fiori, ridotta com’è al solo concetto di
invariabilità della brevis («La notazione
italiana, grazie al principio di invariabilità della
brevis – sua unità di base –, consentiva di
comprimere in un tempo ad essa equivalente valori piccolissimi
(fino a 1/12)»), che sottintende la possibilità di
sovrapporre qualsiasi divisio, non mette in luce questo
aspetto, responsabile in verità della problematica
individuazione del tactus qualora si passi da una
divisio che rimanda alla brevis binaria a
un’altra che rimanda alla brevis ternaria. Inoltre,
gli esempi musicali addotti a corredo esplicativo di questa parte
non assolvono adeguatamente alla loro funzione: l’esempio n.
2, infatti, vorrebbe mostrare il ricorso alla colorazione e a
«simboli notazionali assai rari» per ottenere il
cambiamento di ritmo da binario a ternario in Nessun ponga
speranza, ma i passaggi soggetti a questi artifici vengono
proposti esclusivamente in notazione moderna, oltretutto
depauperata di tutti quei segni editoriali atti a contrassegnare
particolarità della notazione antica. Il problema
dell’insufficienza di esempi musicali si estende peraltro
all’intero studio: la lettura del volume e la sua piena
comprensione esige infatti la consultazione contestuale
dell’edizione di Leo Schrade (The Works of Francesco
Landini, in Polyphonic Music of the Fourteenth Century,
vol. IV), cui l’autrice rinvia continuamente attraverso
l’indicazione del numero che lì contrassegna le
composizioni, per poter valutare e verificare le affermazioni fatte
o le peculiarità segnalate.
La ricerca della sintesi e dello snellimento della
trattazione va dunque a scapito della qualità di questo lavoro
e al contempo non soddisfa appieno i canoni della trattazione
divulgativa. Il libro tuttavia è ricco di spunti interessanti,
benché troppe volte esauriti nel semplice accenno. Tra questi
meritano di essere sottolineati due nuovi argomenti: il primo
concerne il rilevamento che «solo le ballate in senaria
imperfetta e in novenaria, a due e a tre voci, paiono rifiutare
abbastanza sistematicamente il testo alle voci inferiori» che
si suppongono, sulla base della testimonianza di Filippo Villani,
comunque intonate vocalmente a imitazione degli strumenti musicali.
La Fiori mette in relazione questa pratica esecutiva (definita dal
Villani «tertia specie musicae») con l’onomatopea
della musica francese a cavallo tra Trecento e Quattrocento, che in
almeno due composizioni conservate nel codice Ivrea, Bibl.
Capitolare, 115, consiste nella riproduzione del suono di strumenti
musicali. Ciò la induce a profilare due ipotesi:
un’adesione di Landini alla musica francese o
un’innovazione del compositore fiorentino poi emulata da
altri. Vorrei fare a questo proposito alcune considerazioni:
dall’ampio studio di Karl Kügle sul codice Ivrea (The
Manuscript Ivrea, Biblioteca Capitolare 115. Studies in the
Transmission of Ars Nova Polyphony, Ottawa, The Institute of
Mediæval Music, 1997) sappiamo che il manoscritto fu compilato
nella cittadina piemontese, probabilmente da due chierici savoiardi
(Jehan Pellicier e Jacometus de ecclesia), nel decennio 1380-1390,
sebbene il repertorio ivi conservato sia essenzialmente precedente
al 1360. Ciò significa che le eventuali aggiunte a questo
repertorio non possono che risalire al ventennio 1360-1380
(probabilmente, ipotizza Kügle, potrebbero essere state
acquisite da Pellicier durante il suo viaggio alla volta della
corte pontificia romana di Urbano V nel 1368-1369, oppure con
l’intensificarsi dei rapporti del capitolo di Ivrea con
Avignone in seguito all’elezione del papa scismatico Clemente
VII); d’altra parte il fatto che nessuna composizione
dell’Ars Subtilior sia penetrata nel codice suggerisce a
Kügle un atteggiamento cautelativo nell’affermare la
presenza nel manoscritto di composizioni successive al 1360. Sulla
base di queste osservazioni, i due brani del codice citati dalla
Fiori, ovvero il virelai di attestazione plurima Or sus
vous dormes trop e la caccia in unicum Tres dous
compains, potrebbero anticipare significativamente l’uso
francese dell’imitazione vocale degli strumenti favorendo
l’ipotesi di un avvicinamento di Landini a consuetudini
francesi già in atto. Potrebbe dunque non essere un caso che
le composizioni landiniane interessate da tale fenomeno siano in
buona parte concepite in senaria imperfetta, che corrisponde alla
mensura più ricorrente nella musica francese (tempus
imperfectum cum prolatione maiore).
L’altro nuovo argomento
introdotto dalla Fiori, disseminato in brevi accenni lungo tutta la
trattazione dedicata alla produzione musicale di Francesco Landini
e poi concentrato in un apposito paragrafo, riguarda la funzione
descrittiva della musica: in verità tale paragrafo, troppo
breve per esaurire la questione, non valorizza adeguatamente
l’ipotesi proposta dall’autrice anche perché privo
di esempi musicali puntuali – benché sia ampia la
casistica descritta nel testo – che possano sostenere una
visione ancora controversa nell’ambito della musicologia
medievistica. Anche in questo caso l’argomento, così
spinoso, meritava di essere introdotto adeguatamente e inquadrato
nella polemica che a tutt’oggi divide gli studiosi. È
evidente che la Fiori si schiera tra i sostenitori del rilievo
retorico dello stile landiniano, ravvisabile nella sottolineatura
musicale di alcune parole significative del testo poetico (tra cui
i senhals che celano il nome della persona a cui i versi
sono rivolti) attraverso non solo movimenti melodici che ne
assecondano il significato ma anche espedienti contrappuntistici
(soprattutto per i senhals) quali la successione di quinte
e/o ottave parallele: tali espedienti non rappresenterebbero tratti
di arcaicità come sosteneva Kurt von Fischer o tracce di una
prassi improvvisativa (avallata, ad es., da Jehoash Hirshberg,
Aspects of Individual Style, Local Style, and Period Style in
Landini’s Music, in Col dolce suon che da te
piove, cit., pp. 197-221), bensì scelte mature e
consapevoli del compositore che nell’assottigliamento del
tessuto contrappuntistico e nell’effetto prodotto dalla
successione di consonanze perfette, generalmente aborrite dalla
teoria, richiama l’attenzione dell’ascoltatore (una
tesi a sostegno della quale l’autrice avrebbe potuto giovarsi
anche delle osservazioni in tema di sonorità prevalenti e
tonal orientation avanzate da Daniele Sabaino nel suo saggio
Per un’analisi delle strutture compositive nella musica di
Francesco Landini: il caso della ballata "Contemplar le gran cose
(31)", in Col dolce suon che da te piove,
cit., pp. 259-321).
La sezione dedicata alle musiche contempla
altresì uno studio sui testi poetici intonati, che la Fiori
ritiene plausibilmente opere dello stesso Landini:
all’analisi delle forme poetico-musicali frequentate dal
compositore (madrigale caccia e ballata, presentate
all’inizio della seconda parte), si aggiunge una panoramica
sulle tematiche affrontate e sulle fonti da cui Landini sembra
mutuare, attraverso esplicite citazioni o richiami più velati,
il proprio materiale poetico. Poiché i testi poetici
potrebbero essere di Landini, sarebbe stata buona cosa estendere
l’analisi alla versificazione e alle rime (in maniera un
po’ più approfondita rispetto alle poche considerazioni
sull’uso dell’enjambement, della rima al mezzo e
della rima omonima, comunque limitate al piano poetico e non estese
a quello dell’intonazione musicale), sia in rapporto alla
tradizione manoscritta del testo poetico in quanto tale (per
valutare se eventuali escursioni sillabiche potessero essere frutto
o meno di innovazioni arbitrarie oppure se potessero giustificarsi
in relazione alla pronuncia o alle soluzioni grafiche adottate dai
copisti), sia in relazione all'intonazione melodica. È pur
vero, d’altra parte, che tale tipo di analisi richiede
competenze linguistiche specifiche che raramente si assommano nella
persona di un unico studioso e ancora troppo faticosamente stentano
a organizzarsi in una collaborazione interdisciplinare
proficua.
Libri di questo tipo possono
rivolgersi non solo a un pubblico di semplici appassionati di
musica antica (peraltro sempre più frequenti), ma anche agli
specialisti del settore (che possono trarre vantaggio nel disporre
di sintesi agili su argomenti molto studiati) a patto che
rispondano alle esigenze minime di entrambi. Quando infatti lo
studio della Fiori compiace i lettori ‘non
professionisti’ nel presentare un testo sintetico e
scorrevole, non appesantito da troppi riferimenti bibliografici,
dispiace allo specialista, che negli stessi riferimenti
bibliografici troverebbe i termini per circoscrivere lo stato
attuale degli studi intorno a questioni ancora controverse e per
contestualizzare le nuove idee proposte; quando, al contrario, esso
contenta il lettore specialista sorvolando sui concetti generali
per lui scontati e adottando essenzialmente la terminologia tecnica
a lui familiare, scontenta l’appassionato di musica antica
che non si vede facilitata la comprensione di certe tematiche.
Non si può d’altra parte
non tener presente, in conclusione, che rinchiudere in un volume
tascabile un autore come Landini (ancora oggetto di vivi e
irrisolti dibattiti), raccontarne l’attività compositiva
cercando di spiegare le peculiarità che gli hanno fatto
conquistare un ruolo dominante nella cultura musicale trecentesca
è certamente impresa improba, e per questo certamente
meritoria di encomio per chi, nonostante tutto, se ne è
accollato l’onere.
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