Home > Indice annate > Annata 2007 > Comunicazione audiovisiva
Elena Mosconi
La nuova vita delle antiche cose: l’opera
sullo schermo e il «Don Giovanni» di Peter
Sellars
Abstract
Opera on film and opera on video are
terms more and more recurrent in recent debate. In this regard,
some scholars have stressed the inter-textual and inter-medial
relationship between opera and cinema (or video), whereas others
have pointed out the transition of opera from high to middle and
low culture. But only a few scholars (Citron, Cook) have asserted
the necessity to consider opera on screen as an independent
genre with its own characteristics, or a genre that allows a
particular kind of aesthetic experience.
If we consider the visionary and postmodern mise
en scène of Don Giovanni carried out by director
Peter Sellars, we might ask if it has lost its connection with the
Mozart well-known opera. Sellars maintains Italian language and
original music, but he sets the drama in 20th
century’s American Bronx. In doing this, he exasperates the
violence and struggle for life of the dramma giocoso,
shifting from the original meaning into a new significance that he
considers more suitable for modern times. According to Citron, I
suggest that it is better to consider Sellars’ work in terms
of stratification than of faithfulness. Focusing on the
ouverture, it is possible to understand the way Sellars
articulates his work.
In a more general sense, are we allowed to speak of
re-mediation, convergence or re-location? And do these paradigms
– often used in media theory – make us understand the
opera’s transition from theatre to new technologies and
cultures?
Nel dibattito recente ricorrono sempre più
spesso i termini di cine-opera, opera sullo schermo o
opera in video. A questo proposito, alcuni studiosi hanno
messo in luce le relazioni intertestuali o intermediali tra opera e
cinema (o video), mentre altri hanno sottolineato come
l’opera in video passi dai territori della cultura
‘alta’ a quella bassa e popolare. Solo pochi studiosi
(Citron, Cook) hanno sostenuto la necessità di considerare la
cine-opera come un genere indipendente con caratteristiche proprie,
o come una forma discorsiva che dà luogo a un particolare tipo
di esperienza estetica.
Se si prende in esame la messa in scena visionaria e
postmoderna del Don Giovanni realizzata da Peter Sellars, si
può persino dubitare di essere di fronte alla celebre opera
mozartiana. Sellars conserva la lingua italiana e la partitura
originale, ma ambienta la vicenda in America, nel Bronx, alla fine
del XX secolo. Nel far ciò, esaspera la violenza e la lotta
per la vita originariamente contenute nel ‘dramma
giocoso’ e riarticola il significato originale
dell’opera in una nuova direzione che egli pensa più
adatta ai tempi nostri. Nella direzione indicata da Citron, penso
sia meglio considerare il lavoro di Sellars in termini di
stratificazione piuttosto che di fedeltà. L’analisi
dell’ouverture esplicita il modo in cui Sellars opera sul
testo.
Ma, a livello più generale, è possibile
affrontare il rapporto tra cinema e opera in termini di
ri-mediazione, convergenza e ri-locazione? E questi paradigmi,
spesso usati nella teoria dei media contemporanea, ci consentono di
capire la transizione dell’opera dal teatro a nuovi ambienti
tecnologici e culturali?
***
1.
Al pari di molte altre esperienze, il modo in cui
entriamo in contatto con l’opera lirica è oggi sempre
più frequentemente mediato da tecnologie riproduttive, siano
esse DVD, trasmissioni televisive su canali tematici a pagamento o
brani diffusi dalle piattaforme virtuali come YouTube. Tutti questi
supporti, nell’atto stesso di dichiarare (e talvolta esibire)
la loro disponibilità verso un pubblico potenziale, offrono in
realtà un’esperienza surrogata della performance –
intesa come evento che si svolge in un contesto spazio-temporale
preciso – o più radicalmente, un’esperienza
diversa. Ciò ha spinto gli studiosi, soprattutto in passato, a
un cauto disinteresse nei confronti dell’opera riprodotta,
avvalorato dalla constatazione dei numerosi deficit che essa
presenta. Rispetto al teatro, a quest’ultima manca, oltre al
presupposto della compresenza tra cantanti, musicisti e spettatori
e dell’unicità della performance, la libertà dello
spettatore che, a partire dal proprio punto di vista nella sala,
può organizzare autonomamente l’esperienza di visione e
di ascolto. Anche la durata dello spettacolo è spesso
ridefinita nel passaggio dall’opera al video o al film: non
solo perché nel caso di registrazioni video lo spettatore
può sovvertire il flusso temporale a suo piacimento
(fermandosi a riascoltare un’aria, o saltando dei passaggi),
ma anche perché il tipo di supporto tende a condizionare il
tempo della rappresentazione: difficilmente un film raggiunge le
tre ore, o un palinsesto televisivo prevede spazi così ampi
nella programmazione. Tutto ciò fa dell’opera sullo
schermo una ‘riduzione’ rispetto a un progetto testuale
e artistico considerato più elevato, fedele o completo. Ma
anche il film o il video sembrano perdere qualcosa della propria
specificità linguistica e libertà creativa nel momento in
cui si prestano a fare da cassa di risonanza all’opera.
Spesso non basta il ricorso a primi piani, campi-controcampi,
soggettive o riprese all’aria aperta a vincere l’idea
che lo spettacolo non sia niente più che teatro filmato.
Tuttavia nella pratica didattica, come nelle forme di
consumo amatoriale, o più semplicemente nella trasmissione e
divulgazione del repertorio, il ruolo svolto dai supporti
audiovisivi è sempre maggiore e, in forza di ciò, tale da
mobilitare una nuova attenzione anche nella riflessione critica.
Prima di considerarne alcuni snodi, va posta una piccola
precisazione terminologica. La relazione tra opera e supporti
audiovisivi (che a livello generale si può denominare,
seguendo Marcia Citron, opera sullo schermo, intendendo una
varietà di supporti riproduttivi come il cinema, la
televisione e il computer) si articola secondo diverse
modalità, a seconda della tecnica di registrazione impiegata e
del progetto comunicativo sotteso. Dal punto di vista tecnologico,
vi è una differenza tra la ripresa in pellicola e in video: la
seconda – come è noto – è la più usata
dal momento che consente maggiori economie e agilità, sia in
sede di ripresa che di montaggio. Se un tempo la distinzione tra
pellicola e video era più marcata, oggi l’avvento del
digitale ha reso sempre più intrecciate le forme d’uso
dei supporti e la relativa terminologia, per cui si usano
indifferentemente i termini di film e video. Dal punto di vista
comunicativo, invece, vi può essere la ripresa filmata di
un’opera (opera filmata), ossia la registrazione di un
progetto registico teatrale; oppure – all’opposto
– il film-opera, vale a dire la realizzazione di un
film che ha come plot un’opera, dunque un progetto
registico esplicitamente concepito per lo schermo, che tende
solitamente a dilatare i confini della messa in scena teatrale; una
posizione intermedia è rappresentata invece dalle riprese
in studio (riprese della messa in scena di un’opera), che
tendono a mitigare tanto l’eccessiva teatralità della
ripresa filmata quanto l’eccessiva libertà del
film-opera. Nella prospettiva che qui interessa, si cercherà
di adottare un’ottica complessiva, per mettere a fuoco alcuni
problemi di ordine generale.
Gli interventi sul rapporto tra cinema e opera hanno
puntato tanto a una mappatura del territorio – ossia a
enumerare e classificare le riduzioni cinematografiche di opere,
oppure, in senso più vasto i ‘debiti’ contratti
dai testi audiovisivi nei confronti della tradizione del
melodramma[1] – quanto a una problematizzazione
degli elementi strutturali costitutivi dei due linguaggi.[2]
Alcune analisi hanno poi preso in considerazione aspetti peculiari
del loro rapporto: ad esempio Guglielmo Pescatore si è
soffermato, in una prospettiva semiotica, sul rapporto tra voce e
corpo; ha poi approfondito la difficoltà del cinema di passare
da una dimensione aurale a una corporea e
‘materiale’,[3] mentre in un
recente contributo Michel Grover Friedlander[4] ha sottolineato
come nel transito dal testo cantato al film riviva l’antico
dualismo incarnato da Orfeo tra un canto che è sorgente di
arte, di incantamento e di vita, e uno sguardo che – pur
aderendo a un desiderio, a una necessità umana profonda
– diventa causa ultima di morte. Questo tipo di indagine di
carattere estetico-culturale sta offrendo ricerche e studi sempre
più numerosi, sulla scia di un contributo comparativistico di
Jeremy Tambling[5] che ha rappresentato un punto di partenza
e di confronto per una generazione di studiosi.
Nell’impossibilità di sintetizzare qui un ricco
dibattito, vorrei evidenziarne due direttrici fondamentali: da una
parte un problema che fa capo al rapporto tra matrici testuali e
forme espressive diverse (intertestualità e
intermedialità); dall’altra la questione
dell’attraversamento tra spazi culturali eterogenei.
Su quest’ultimo, ambiguo, portato
dell’opera come espressione di un’élite culturale,
particolarmente per il pubblico americano, è in atto un
confronto serrato. Esso ha in primo luogo puntato a sgombrare il
campo dal pregiudizio che assegna una presupposta appartenenza
dell’opera a un’élite culturale come dato storico
di fondo.[6] Al contrario, gli studi di storia
culturale hanno voluto evidenziare come l’opera – nata
per un pubblico eterogeneo – sia divenuta nel tempo
patrimonio di una classe sociale elevata attraverso un processo di
creazione consapevole di ambienti, di rituali e di un linguaggio
specifici e specialistici, passando da forma di
entertainment a veicolo di alta cultura. Più che a
trovare una cronologia di questo processo (alcuni lo collocano a
metà Ottocento, altri all’inizio del Novecento o
addirittura negli anni Trenta) si tende a sottolineare come oggi
l’opera goda nuovamente di un favore popolare di cui sono
traccia le numerose presenze in film, video e pubblicità. Un
consenso che però tende a essere incanalato e mediato dalle
élite culturali: da qui un numero cospicuo di guide, manuali,
corsi di avvicinamento all’opera, tesi a sottolineare la
necessità di coltivare il gusto del pubblico affinché
possa fruire di quest’arte anche come semplice
divertimento, ma in realtà con il fine di mantenerne
inalterato il valore artistico. Il discorso, che a mio parere
andrebbe meglio precisato e articolato nelle specifiche situazioni
nazionali – per esempio l’Italia, che vanta una
differente e ben più diffusa cultura operistica –
evidenzia aspetti interessanti anche per il caso che verrà
più avanti proposto. Il portato dell’opera come cultura
o entertainment non può essere più affrontato nei
termini riduttivi secondo cui l’esperienza estetica sarebbe
possibile solo nello spazio deputato del teatro, ma andrebbe
riformulato tenuto conto delle pratiche sociali di consumo. In
altre parole, pur accordando una giusta importanza al luogo e alla
tipologia della fruizione, va ricordato che a determinare se sia
arte o entertainment vi sono pure il ‘come’ e il
‘chi’ ne fa esperienza. In questo senso, nota Storey,
«l’opera è oggi una forma culturale (che si
sostanzia di molti, diversi testi e pratiche) al tempo stesso
popolare e d’élite».[7]
L’altro approccio, più orientato ai testi,
è incentrato sull’intertestualità, coniugata
soprattutto come intermedialità, ossia come traduzione
intersemiotica tra forme espressive o media diversi. Nel solco di
un ricco dibattito teorico – declinatosi con specifica
attenzione alla musica e agli audiovisivi[8] a partire da
Bachtin, Genette, Kristeva – si tratta di analizzare la vita
e le trasformazioni di un testo nel passaggio da una regia a
un’altra, o nell’avvicendamento dalla letteratura,
all’opera, al cinema, nonché di verificare
l’incidenza di un mito, una tradizione culturale in
differenti contesti mediali, storici, estetici e sociali.[9]
Questi studi consentono di portare alla luce in primo luogo
una continua problematizzazione del testo, delle sue fonti, delle
modalità della sua scrittura e interpretazione; insieme,
offrono delle chiavi di lettura sulla rappresentazione o sullo
statuto del medium in un contesto spazio-temporale preciso. Basti
pensare al caso di Carmen, vero e proprio mito non solo
della scena, ma pure dello schermo, con le sue numerosissime
trasposizioni filmiche censite nel corso del Novecento.[10]
L’analisi dei film tratti dall’opera di Bizet porta in
luce, insieme al problema delle ‘scritture’ (e
riscritture), le vicende della bella gitana aggiornate ai tempi che
cambiano (e alle relative questioni che esse mettono in campo come
l’alterità, la razza, la sessualità ecc.), un
interrogativo circa le condizioni della rappresentazione e il
linguaggio del medium stesso in un tempo determinato. In questo
senso, nella Carmen della Film D’Art del 1910 è
in gioco la ricerca di uno spazio cinematografico che possa essere
diverso da quello teatrale, mentre in Carmen Jones di
Preminger (1954) è il colore che gioca un ruolo centrale, o
ancora nella Carmen di Rosi, Brook e Saura risulta centrale
l’estetica autoriale e postmoderna che informa le
pellicole.
A un livello più profondo, tuttavia, rimane
irrisolto l’interrogativo che riguarda la natura linguistica
dell’opera sullo schermo. È inequivocabile la
differenza che sussiste tra una performance che avviene dal vivo,
con attori che si muovono verso il pubblico, e uno spettacolo di
ombre dalle dimensioni colossali, proiettate sullo schermo in sale
cinematografiche buie, le quali incrementano la sensazione dello
spettatore di trovarsi in un mondo illusorio e affascinante.
Nell’inconciliabilità tra le diverse esperienze, Marcia
Citron ritiene che sia giunto il momento di considerare in
particolare il film-opera come genere autonomo rispetto sia
all’opera che allo stesso cinema: «Screen opera is an
independent genre with its own properties. It involves cinema,
television, and video, and creates its own ways of dealing with
narrative, discourse, and representation».[11] In questo
senso, continua la Citron, i vari adattamenti vanno analizzati
secondo il modo in cui fanno risaltare le potenzialità e le
caratteristiche di ciascuno dei mezzi espressivi che li
costituiscono: «Each format appeals to different aspects of
aesthetic experience. Moreover, their differences create tensions
that inject new life into the other and invigorate opera in the
lager sense».[12] Da qui la necessità di fare ricorso
a competenze analitiche pluridisciplinari, tra cui gli elementi
della grammatica e della sintassi audiovisiva (ambientazioni,
recitazione, posizioni e movimenti della macchina da presa, ritmo,
punto di vista spettatoriale, rapporto tra suono e immagine,
costruzioni di gender, cultura dei media ecc.) e, precipuamente,
gli aspetti musicologici e operistici.
Si spinge ancor più oltre Nicholas Cook,
parlando di musical multimedia per abbracciare tutte le
tipologie di testi che fanno assegnamento su più codici
comunicativi e nei quali la musica occupa una parte costitutiva. In
tal modo evita di istituire una distinzione tra opere mediate
tecnologicamente e performance dal vivo, tra prodotti di cultura
alta o popolare, antichi o moderni. Lo scopo è quello di
fornire un modello a un tempo teorico e di analisi adatto alle
diverse forme di interazione tra musica, immagini e parole; allo
spot pubblicitario come all’opera lirica. Tralasciando il pur
fondamentale problema della primogenitura tra le diverse componenti
espressive e dell’origine del senso nelle opere multimediali
– sul quale rimando al saggio di Gianmario Borio Riflessioni sul
rapporto tra struttura e significato nei testi
audiovisivi in questa rivista – si può
perlomeno richiamare qui il tipo di suddivisione tra i testi
multimediali proposto da Cook sulla base delle relazioni tra i
singoli media, e in particolare rispetto al rapporto di
similarità o differenza nella costruzione di metafore. I tre
modelli presentati da Cook sono quelli di conformance,
complementation e contest. Il modello della
‘conformanza’ prevede un rapporto di somiglianza tra i
diversi livelli multimediali (Cook parla a proposito di
‘consistenza’) ma senza che ciascuno prevarichi gli
altri, dunque al di fuori di una relazione gerarchica tra di essi:
in questo senso ciascun medium si sviluppa con un tipo di
elaborazione differente e secondo le proprie peculiarità, ma
il legame tra i media che costituiscono il testo multimediale
è conforme al risultato che si vuole ottenere. Nel caso
dell’audiovisivo, si può dire tanto che l’immagine
si proietta sulla musica, quanto il contrario (cioè che la
musica si proietta sulle immagini). Opposta alla relazione di
‘consistenza’ tra le diverse materie espressive è
quella di coerenza, che introduce la presenza di un medium
predominante, e che dà luogo ai modelli di
complementation e contest. Per stabilire
l’appartenenza a uno o all’altro modello occorre
sottoporre ciascuna forma espressiva di cui si sostanzia il medium
al test della differenza: «contrariety might be glossed as
undifferentiated difference: contradiction implies an element of
collision or confrontation between the opposed terms».[13]
Il modello ‘contestuale’ prevale laddove
si sia di fronte a un confronto aperto tra elementi costituenti
(contraddizione), o tra media in cui uno preesiste e quello
aggiunto opera autonomamente con una propria, indipendente,
sintassi (Cook fa l’esempio del clip della canzone di Madonna
Material Girl): è il loro contesto, l’ambiente in
cui appaiono che determina il loro reciproco significato. In questo
senso il modello contestuale si oppone a quello della conformanza
(«conformance tends towards the static and essentialized,
whereas contest is intrinsically dynamic and
contextual»).[14]
A metà strada tra questi due opposti si colloca
il modello della ‘complementarietà’ che può
essere spiegato in questi termini: alla base dei media che
costituiscono l’unità testuale vi è una differenza
riconosciuta, ma il conflitto tra di essi è evitato
perché ciascuno svolge un ruolo diverso (variante
essenzialista); oppure i differenti media occupano lo stesso
terreno (nella variante contestuale), ma il conflitto è
evitato attraverso dei ‘mutui dislivelli’. «In all
such cases, complementation results not from the properties of
words, pictures, or music per se, but from the way in which
they are manipulated within a specific context».[15]
Se il modello contestuale è quello più
diffuso nell’ambito della multimedialità – ed
è quello che si può applicare in termini generali al caso
dell’opera sullo schermo – per Cook non va
trascurato il fatto che i tre modelli possono anche coesistere,
benché con una diversa prevalenza, nell’ambito di
un’analisi particolareggiata dei ruoli giocati dalle diverse
componenti mediali di un testo multimediale.
Come si può evincere da questa rapida sintesi,
il dibattito sul rapporto tra opera e cinema si è notevolmente
espanso e ramificato, in modo particolare negli ultimi
anni:[16] l’iniziale questione della
fedeltà o meno dell’opera sullo schermo alla
matrice originaria del testo operistico ha lasciato il campo a una
pluralità di approcci e a una varietà di direzioni di
ricerca che appaiono particolarmente stimolanti nell’attuale
paesaggio audiovisivo, in cui gli incroci si sono moltiplicati e i
tradizionali confini tra arti e forme espressive risultano
allentati.
Per dare concretezza ad alcune delle questioni
accennate, desidero ora soffermarmi brevemente su un caso di
studio, vale a dire la regia (teatrale e video) del Don
Giovanni di Mozart da parte del drammaturgo americano Peter
Sellars, che ha suscitato pareri molto discordanti presso i
critici, alcuni dei quali si sono chiesti se l’opera potesse
ancora essere apparentata al teatro musicale mozartiano, o se non
appartenesse a un altro orizzonte discorsivo.[17] La messa in
scena di un Don Giovanni nero, ambientato negli anni Ottanta del
Novecento nei quartieri degradati di New York, tossicodipendente e
violento, così come la scelta di una condanna finale che, a
partire dal protagonista, si riversa sugli altri personaggi,
pongono numerosi interrogativi sulla fedeltà all’opera
mozartiana e al suo senso.
L’analisi del lavoro compiuto da Sellars sul
Don Giovanni, alla luce di alcune questioni che attraversano
l’attuale dibattito mediologico, mi consentirà infine di
vedere se e in quale misura queste possano apportare un contributo
fecondo agli studi interdisciplinari, e ad avvicinare due territori
che, nella pratica artistica, si trovano sempre più spesso
chiamati in causa nelle loro reciproche interrelazioni.
2.
Precocemente salito alla ribalta come regista
inventivo e coraggioso, al limite della spudoratezza, Peter
Sellars[18] ha diretto, in 25 anni di carriera,
festival, teatri ed eventi tra i più prestigiosi in America e
nel mondo: dalla Boston Shakespeare Company al Teatro nazionale
americano di Washington (1984-1986) e al Los Angeles Festival, fino
alla Biennale di Venezia (sezione teatro, 2003) e al New Crowned
Hope Festival a Vienna per il 250° anniversario mozartiano
(2006). Cosmopolita per formazione (oltre ad Harvard ha studiato in
Cina, Giappone, India), ha al suo attivo numerose regie teatrali e
operistiche che spaziano dai classici agli autori contemporanei,
interpretati sempre alla luce della funzione sociale e civile della
scena.[19]
All’incirca verso la metà degli anni
Ottanta, in seguito al fallimento del tentativo di dar vita a un
teatro civile nazionale,[20] Sellars si è
accostato più direttamente all’opera in musica, avendone
constatati gli elementi di maggior libertà rispetto al teatro
recitato: all’opera, egli sostiene, «è lecito fare
ciò che non è permesso in teatro, vale a dire esplorare
un mondo segreto».[21] In particolare,
il regista vede attivarsi nell’opera, in modo più chiaro
rispetto al teatro, quella sorta di sdoppiamento brechtiano che
consente una stratificazione di significati:
The beauty of music is
that it is a completely abstract formulation, people are singing
notes […] and you don’t confuse the person singing the
role with the role. […]. At the same time, the music is about
emotional identification. So you get both processes occurring
simultaneously: there is constant distancing and constant emotional
immediacy.[22]
Questa possibilità di agire a diversi livelli
si esercita pienamente – osserva sempre Sellars –
nell’attuale epoca postmoderna:
in an age in which the
interrelatedness of things is increasingly the issue, opera becomes
the medium of choice. Multilingual, multicultural, multimedia,
diachronic, dialogic, dialectical, and some how strangely
delectable, opera is the one form that seems to have a chance of
reproducing and invoking the simultaneities, confusions,
juxtapositions, bitter tragedy, and just plain malarkey that
constitute the texture of recent history.[23]
L’opera è in questo senso paradigmatica
della complessità sociale, e la sintesi cui perviene –
nella composizione dei conflitti, così come nel comune lavoro
di tutti coloro che vi prendono parte – è densa di
indicazioni per la vita degli spettatori.
Si comprende in questa chiave il lavoro di Peter
Sellars sui classici,[24] forzati e stravolti, in
alcuni aspetti, al punto da meritare al regista l’accusa di
aver fatto loro smarrire un rapporto sostanziale con
l’autore. A dispetto di una buona aderenza al testo (cantato
in italiano) e alla partitura, il regista opera con libertà
nella messa in scena. Questa non è mai per Sellars un semplice
aggiornamento (il termine è polemicamente rifiutato dal
regista), ma un terreno di scontro tra culture e mondi diversi, a
volte antitetici: essa significa
setting up a «visual
counterpoint» to the music, in order to stimulate the greatest
possible intensity and range of response. To recreate the novelty
and shock of the Mozart-Da Ponte operas at their premiere
performance, without obliging either modern actors or modern
audiences to imagine their way into another century, he recasts
them in the «image-language» or «systems of
reference» of contemporary America. In this way, he insists,
he is trying not to update great works of the past, but to
«test the present against them.[25]
L’obiettivo di Sellars è dunque quello di
suscitare nello spettatore contemporaneo una reazione emotivamente
e razionalmente forte, facendo leva su tutte le possibilità
espressive dell’opera. Da qui la scelta di conservare
l’italiano aulico e certamente incomprensibile per molti
spettatori americani, ma per il regista insostituibile perché
intimamente connesso alla musica; un linguaggio che può
però essere palesemente contraddetto (con riferimento ad
ambientazioni, oggetti, situazioni ecc.) dagli interpreti, oppure
aggiornato dalle didascalie con un drastico cambiamento di tono in
un lessico decisamente più colloquiale. Ciò che il
regista sembra soprattutto valorizzare è il dinamismo insito
in una doppia temporalità (il passato dell’opera e il
presente della sua messa in scena) che ri-problematizza
continuamente il senso del testo.
Le versioni della trilogia mozartiana sono state
registrate in studio nel 1990-1991, dopo le rappresentazioni
teatrali succedutesi per tutta la seconda metà degli anni
Ottanta – particolarmente al PepsiCo Summerfare di Purchase
(New York) –, quindi trasmesse in televisione nonché
edite in DVD.[26]
Benché la videoregistrazione abbia ristretto – come
è stato osservato – la forza visionaria delle regie
teatrali, essa presenta aspetti autoriali di notevole interesse,
come si vedrà più avanti, per l’indubbia competenza
di Sellars, autore (tra l’altro) di un film muto, The
Cabinet of Dr. Ramirez (1991), ispirato al celebre film di
Robert Wiene e interpretato da John Cusack, Peter Gallagher e
Mokhail Barnyshnikov.
L’aspetto che immediatamente colpisce lo
spettatore delle regie mozartiane di Sellars è – come
anticipato – la loro collocazione spazio-temporale: sullo
sfondo della New York dei tardi anni Ottanta, l’ambientazione
spazia dal Sud-Bronx (Don Giovanni), a un grattacielo (Le
nozze di Figaro) fino a un postribolo (Così fan
tutte). Nella scena americana contemporanea, il seduttore Don
Giovanni diviene così un cocainomane violentatore (con
preferenze – nota lo stesso Sellars – per ragazzine di
12-13 anni) che esercita nel quartiere la sua supremazia con
violenza, sostenuto dall’avido Leporello. I due, abbigliati
in modo identico (jeans, giubbotto di pelle e t-shirt nera) e
interpretati dai gemelli afroamericani Eugene e Herbert Perry,
rappresentano le facce di un unico universo di sopraffazione, volti
speculari di un rapporto di desiderio e disimpegno che viene
esplicitato nel cambiamento di ruolo del secondo atto. Accanto a
loro, gli altri personaggi che appartengono alla tradizione
dell’opera buffa, come Masetto e Zerlina, sono di origine
afroamericana o asiatica, mentre gli attori bianchi detengono i
ruoli dell’opera seria e godono in generale di una posizione
sociale più elevata. Tuttavia ciò non rispecchia un
possibile giudizio di valore da parte di Sellars, perché
tutti, bianchi e non, vittime o persecutori, evidenziano aspetti
problematici o apertamente negativi che ne rendono impossibile
l’identificazione da parte del pubblico. Così, per
esempio, Donna Anna si droga (e ciò giustifica la sua presenza
nei quartieri degradati), il suo fidanzato è un poliziotto, e
tuttavia pavido; Elvira è una punk e presumibilmente una
prostituta; il Commendatore, nel suo riapparire alla fine
dell’opera, non preserva nulla di sacrale, ma assomiglia
più a un personaggio da film dell’orrore, con il corpo
verde e coperto di pustole, che a una terrificante statua. La
stessa dolce Zerlina sottolinea con un compiacimento quasi
masochista nel celebre Batti, batti o bel Masetto
l’atteggiamento violento del fidanzato, e a sua volta lega
alla sedia Leporello, credendolo Don Giovanni, e lo minaccia con un
coltello affilato. Nessuno sembra potersi sottrarre a questa
dilatazione della violenza e del male. Perciò, nelle
intenzioni di Sellars, nessuno può essere risparmiato dal
giudizio finale: Don Giovanni è condannato «con
Proserpina e Pluton», ma i suoi oppositori (Masetto, Zerlina,
Donna Anna, Don Ottavio ed Elvira) si trovano a loro volta in una
sorta di purgatorio, immersi fino alla cinta in botole aperte nel
pavimento. Qui Sellars evidenzia la maggior distanza dal libretto
di Da Ponte, coinvolgendo in una punizione collettiva tutti i
personaggi. «Such an ending problematizes the entire ontology:
we are asked to see everyone as damned, if not into the Hell, at
least into the hell of urban barbarity».[27] Solo Leporello si sottrae
al giudizio finale, forse perché ha già avuto la sua
evidente punizione terrena (è stato infatti
‘battuto’ sonoramente). Oppure perché,
rappresentando fin dal suo primo ingresso in scena il possibile
punto di vista dello spettatore,[28] mantiene aperta per questo
una possibilità di salvezza. Ma il tono è volutamente
vago, aperto a possibili diverse interpretazioni. Attraverso alcune
scelte registiche, Sellars conferisce ai personaggi nuove
caratteristiche. Per esempio all’inizio dell’opera
Leporello pronuncia il suo sfogo nei confronti del padrone
brandendo un finto microfono, e schioccando le dita, in una parola
muovendosi come una rockstar: nel far ciò dà alla sua
interpretazione un tono ironico, quasi canzonatorio, che rende
più sfaccettata la gelosa sottomissione al padrone. La
gestualità messa in campo da Sellars – dovuta anche alla
necessità di ripensare i movimenti per renderli credibili
rispetto alla nuova ambientazione – ridefinisce anche i
rapporti tra i personaggi, come nota Citron.[29] Ciò accade, per
esempio, alla fine del primo atto, quando i diversi gruppi sociali
dei protagonisti sono richiamati (musicalmente) attraverso un
particolare tipo di danza: il minuetto per i nobili, la controdanza
per le classi medie, fino alla più popolare teitsch. A
Sellars non importa tanto la partizione sociale quanto la
possibilità di esprimere, attraverso il movimento, i diversi
gradi di frustrazione, di rabbia sociale e la relativa
capacità di controllo da parte dei personaggi. Così il
gruppo più elevato si muove con gesti ampi e cadenzati,
regolari; Don Giovanni sfoga la sua ansia libertaria letteralmente
spogliandosi e con movimenti sensuali rivolti a Zerlina, mentre
Masetto esprime la sua rabbia con gesti eccessivi e incontrollati,
che risultano fuori tempo rispetto alla musica.
Oltre ai gesti, anche gli oggetti scenici diventano
luoghi di addensamento semantico: si pensi all’uso frequente
di armi e coltelli o all’esibizione di sangue per indicare il
clima di violenza e di sopraffazione in cui tutta la vicenda è
ambientata; oppure alle frequenti sostituzioni (il registratore
portatile al posto dell’orchestra; il cibo da fast food
invece del fagiano ecc.) che suonano più familiari allo
spettatore contemporaneo, ma al tempo stesso fortemente stranianti
rispetto a Mozart; infine agli innesti, per esempio la droga, che
forgiano nuovi significati per il plot. Attraverso questi
«talismani della società moderna»,[30] Sellars non intende tanto
accentuare la verosimiglianza della rappresentazione, quanto
attingere a un patrimonio simbolico operante nella società
contemporanea.
Dal punto di vista spaziale, va sottolineato come le
diverse ambientazioni proposte da Mozart (palazzi, saloni,
giardini, sale da ballo, strade ecc.) siano riconfigurate a misura
dell’unico e omnicomprensivo spazio della strada. «La
rue est par essence l’espace du mouvement et de
l’anonymat: elle se fera boite de nuit, chambre, salle de
banquet, cimetière d’un monde sur le déclin,
où tous les signes du crime s’amasseront sur la
scène, impunément».[31] La strada è
il luogo in cui Don Giovanni esercita la sua violenta supremazia, e
dove consuma la sua avventura esistenziale; un ambiente che
ridisegna leggi e gerarchie sulla base del primato della forza, e
che espone alla pubblica attenzione quella fitta rete di trame,
seduzioni e manipolazioni solitamente consumati nella più
quieta e accomodante privacy di palazzi e salotti. A tale
conclusione giunge anche l’analisi cronotopica proposta da
Terry Donovan Smith. Nel libretto di Da Ponte, «while there is
considerable movement in the setting, the dominant chronotope is
that of the parlor. That is, most of the action is in places where
private, often sexual matters are engaged. […] Sellars has
taken this salon chronotope and transformed it into that of the
road».[32] Dei quattro cronotopi bachtiniani
individuati nel libretto dapontiano – la strada, il castello,
il salone (o, per estensione, il palazzo) e la soglia – la
studiosa mette in luce il modo in cui Sellars passa
sistematicamente da uno spazio privato nel quale si svolgono affari
pubblici (il salone), a un luogo ‘oggettivato’, ossia
la strada, dove si incontrano le diverse tipologie di personaggi
con le loro differenze di ceto, età, etnie, credenze,
religioni, stili di vita.[33]
Non sorprende allora che il Don Giovanni di
Peter Sellars spenga gli sprazzi di luminosità
dell’opera di Mozart-Da Ponte in funzione simbolica; un buio
perenne che corrisponde a un incupimento del sostrato valoriale,
illuminato soltanto da una luce livida, artificiale, postmoderna.
L’assenza di luce sembra espungere qualsiasi possibilità
di salvezza, e porsi come correlato simbolico
dell’ineluttabilità della strada, luogo della violenza e
del fatale incontrarsi di tutti i personaggi: un crocevia che non
lascia vie di scampo.[34]
Per quanto riguarda i procedimenti più
propriamente filmici, la scelta di Sellars in Don Giovanni,
così come nelle altre riprese delle opere mozartiane, è
ambivalente. Il set teatrale lascia pochi margini di manovra
all’immaginazione cinematografica, peraltro concentrati
nell’ouverture; ma ciò non significa statica
teatralità nei procedimenti di messa in quadro e montaggio. Le
inquadrature sono per lo più ravvicinate e angolate
nell’intento di cogliere non solo il canto degli interpreti,
ma pure i loro movimenti sul set, i gesti o gli oggetti emblematici
o ancora il riflesso emotivo di ciò che sta accadendo sui
volti dei protagonisti e dei testimoni. Il montaggio poi amplifica
dinamicamente questi continui transiti attraverso stacchi veloci,
concitati, che insistono sull’incessante movimento più
che gratificare le aspettative dello spettatore con visioni di
insieme o piani di ambientazione. Un linguaggio che tradisce
così l’appartenenza a un contesto stilistico
postmoderno,[35] e che evidenzia – come ha
sottolineato Marcia Citron – parentele con fenomeni mediali
contemporanei eterogenei che vanno da Mtv alla soap opera, fino al
cinema degli anni Settanta e Ottanta. Nel mondo di Sellars la
mancata saturazione visiva rinvia all’instabilità
psicologica dei personaggi e mantiene una elevata tensione emotiva
con la quale lo spettatore può facilmente immedesimarsi, come
nelle pratiche dello zapping televisivo. Persino il tempo soggiace
a questa logica, attraverso contrazioni evidenti ma anche pause
particolarmente sensibili: un tempo innaturale, apparentemente
soggetto ai fenomeni di accelerazione e mescolanza dei linguaggi
audiovisivi contemporanei, ma capace di prenderne pure le distanze,
per esempio attraverso queste stesse pause.
Per analizzare più da vicino i procedimenti
filmici adottati, e il livello di integrazione tra le immagini e la
musica, è utile prendere in esame l’ouverture,
descrivendone l’articolazione in inquadrature, per poi trarre
considerazioni di carattere più generale.
Schema formale dell'ouverture
del Don Giovanni
Da un punto di vista registico, l’ouverture
costituisce un luogo di libertà creativa non soggetto alle
costrizioni dello spazio scenico né alla presenza dei
personaggi, e tuttavia strettamente collegato ad essi. Questa
relazione si esplicita, a livello generale, lungo due direttrici
che corrispondono alle due sezioni. La prima è l’adagio,
tradizionalmente interpretato dalla critica[36] come il luogo del
manifestarsi della cupa necessità del destino e della sua
sovrumana potenza, qui contrassegnato dalla preminenza
dell’ambiente e dalla sua aspra inospitalità: si tratta
di una squallida e degradata periferia, probabilmente
metropolitana, colta durante la stagione invernale, prenatalizia,
priva dell’elemento umano e segnata da simboli di
disfacimento (sagome di palazzi spettrali, finestre sventrate o mai
completate o aperte sul nulla), e presagi di morte, di cui è
emblema l’inquadratura insistita di una carcassa di topo. Il
ritmo visivo segue quello musicale: 16 inquadrature in tre minuti e
mezzo, con una progressione abbastanza regolare.
Esso viene però sovvertito dalla seconda parte
(Molto allegro) pervasa dall’inquieto vitalismo di Don
Giovanni: il montaggio si fa più rapido (35 inquadrature in
poco più di quattro minuti, con un ritmo che è quasi il
doppio del precedente), mentre le inquadrature introducono
progressivamente l’elemento umano, dapprima come presenza
singola, poi attraverso la molteplicità dei soggetti –
per lo più immigrati ispanoamericani – che popolano la
periferia. I luoghi rappresentati sono quelli del vivere e del
lavorare, resi attraverso una selva di insegne di negozi di
alimentari; oppure i ‘traffici’, simbolicamente
richiamati da un quadrivio lungo il quale transitano
incessantemente automobili.
La rappresentazione persegue dunque un fine
realistico e vale ad ambientare la vicenda di Don Giovanni in modo
coerente rispetto alle coordinate spazio-temporali sellersiane: il
Bronx dell’inizio degli anni Ottanta, segnato da un degrado
socioeconomico che spiega la lotta per la sopravvivenza, e la
conseguente logica di violenza e sopraffazione che connotano
l’agire del protagonista. La ‘grana’
dell’immagine – tipica del video digitale, più che
del cinema – sostiene questa scelta: la macchina da presa,
leggera e mobile nel corso dell’Allegro, propone una
diretta immersione nel fluire della difficile vita del quartiere.
Tuttavia, a uno sguardo più approfondito, il punto di vista
rivela la posizione ‘ideologica’ del regista e la sua
complessità: uno sguardo vicino a una materia bassa e
problematica, ma che non si confonde mai con essa, perché ne
è separato da una strada oltre la quale è posta la
macchina da presa. L’effetto è a un tempo voyeuristico e
mediato, a sottolineare la stratificazione della messa in scena
che, come si è visto, appartiene all’orizzonte
operistico di Sellars.
La suddivisione tematica dei due tempi è
chiarita e sostenuta dai movimenti di macchina: nel primo
predominano piani fissi e panoramiche verticali, mentre nel secondo
le inquadrature, più brevi, sono fisse oppure accompagnate da
panoramiche orizzontali: alla profondità della sfera religiosa
ed eterna si sostituisce il fluire, tutto orizzontale, della
dimensione umana.
I due accordi iniziali, chiusi dalle relative pause,
vengono sottolineati da inquadrature speculari: in entrambe il
movimento di macchina (una panoramica, prima orizzontale, poi
verticale e ascendente, l’unica dal basso verso l’alto,
quasi a richiamare l’ingresso della dimensione ultraterrena
nella sfera mondana) parte subito dopo il primo quarto, per
arrestarsi con la pausa, forse per sottolineare la vastità
dell’eco prodotta dall’accordo, e la sua dilatazione
spaziale. Più avanti, nelle battute 11-15 della partitura,
altre panoramiche (questa volta orizzontali e da sinistra a destra)
accompagnano le lamentazioni dei violini, fino a movimenti più
larghi e quasi funerei sostenuti da immagini di degrado, abbandono
e miseria. Alle battute 20 e 21 gli accordi del destino diventano
sempre più espliciti, questa volta sostenuti
dall’immagine ripugnante di un topo morto, inquadrato a
lungo. Poi iniziano le fiammeggianti scale cromatiche dei primi
violini e dei flauti: le ‘scale della disperazione’
– che musicalmente presentano una fase ascendente e una
discendente – sono visualizzate attraverso
l’inquadratura delle scale di servizio di un edificio
visibilmente degradato, accompagnata ancora una volta da una
panoramica verticale discendente. Questa volta pare che la
dimensione umana sia trascinata in un vortice discendente senza
ritorno. Ma nelle battute finali, mentre si affievoliscono gli echi
tormentosi delle note, l’immagine cede all’insegna di
una croce (l’ingresso di una chiesa) illuminata al neon:
un’icona ambigua, che apre solo in apparenza alla dimensione
del divino, in quanto essa è controllata (e forse ricreata?)
dall’uomo.
Nel secondo tempo (Molto allegro), Sellars
mette in relazione i diversi tratti della personalità di Don
Giovanni – così come, secondo le più accreditate
letture critiche, sono introdotti dalla musica – con
un’umanità ampia ed eterogenea, quasi per dilatare su
scala più vasta la vicenda raccontata, a sottolinearne
l’emblematicità, o a introdurre il tema della
corresponsabilità della violenza e sopraffazione che sarà
ripreso nel finale. Inizialmente un leggero cromatismo sembra
alludere alla sensualità quasi demoniaca del protagonista
(mentre il video sostituisce alla ‘corsa di Don
Giovanni’ il veloce passaggio di un’automobile lungo
una strada); poi la sua natura ‘famelica’ e
‘ferina’ è trasposta nell’immagine di cani
lupi che frugano tra i rifiuti fino ad addentare della carne (bb.
38-55). Dalla battuta 56 alla 120, nelle quali si assiste al
secondo tema e si annuncia il terzo, predomina l’immagine del
fuoco, la cui simbologia rinvia ambiguamente tanto alla
passionalità dell’eros e della vita terrena, quanto alla
morte e alla condanna eterna. Il montaggio delle immagini segue
attentamente la partitura, evidenziando la successione dei temi con
il variare delle riprese, ora di gente che parla o passeggia e di
insegne di negozi di alimentari, ora di palazzi, abbastanza
fatiscenti, nei quali si trascina la vita della periferia. Nel
finale (bb. 223-281) l’esplosione della cavalleria è
resa attraverso un intensificarsi di automobili che sfrecciano nel
traffico urbano. In modo speculare alla chiusura del primo
movimento, le ultime battute (bb. 282-292) sono dedicate alle
immagini delle finestre di una chiesa ornate con le decorazioni di
lucine intermittenti natalizie: un segnale di festosità che si
addice alla ricomposizione finale della melodia, laddove
l’umano sembra fare pace, stemperando la propria ansia, con
il divino. Ma l’ingresso di Leporello in scena, che segue
immediatamente, mostra la precarietà di un equilibrio che
è costantemente minacciato.
Alla luce delle considerazioni svolte, la
visualizzazione della musica operata liberamente
nell’ouverture mi pare confermi il tipo di lavoro che Peter
Sellars compie sull’intera opera mozartiana. Si tratta di un
testo che, per il tipo di ambientazione e ancor più di
linguaggio, risente certamente della cultura postmoderna, ma che
non si appiattisce su questa: evita infatti di nascondere la
distanza che ci separa da Mozart, e in qualche modo la rappresenta
problematicamente. Anziché chiudere l’opera in un
passato ricostruito o in un presente a-storico, Sellars mette in
scena lo scarto temporale. Allo stesso modo non cancella ma
esibisce la sovrapposizione di piani discorsivi diversi, con un
continuo gioco di ‘teatralizzazione’. Il palcoscenico
in questo modo si amplifica: la strada, nella quale – secondo
l’analisi delle cronotopie – tutte le classi sociali si
incontrano, diventa essa stessa palcoscenico. Pure il dispositivo
teatrale non si disperde né si annulla nel video; al contrario
si ricolloca (più avanti si dirà che si
‘ri-loca’) all’interno di altre tecnologie e
culture, come quella cinematografica e televisiva. Esibire e
‘teatralizzare’ la cultura odierna in rapporto a quella
del passato senza nasconderne le tracce; promuovere il confronto
(anche violento) che è dato dalla loro stratificazione, senza
neutralizzarne nessuna componente, ma ponendole l’una dentro
l’altra: tale è il compito che Sellars affida
all’opera on screen contemporanea, facendola diventare
luogo (teatrale) di un confronto anziché fuga (magari più
gratificante) in un passato definitivamente tramontato.
3.
A partire dal lavoro compiuto da Sellars è
possibile formulare qualche osservazione di carattere generale
relativa allo statuto dell’opera on screen
nell’attuale paesaggio audiovisivo. Interessato da una
vorticosa accelerazione tecnologica, il sistema dei media vive una
stagione di grande dinamismo, tuttora in corso, che ha scardinato
alcune delle loro caratteristiche tradizionali. Il concetto di
medium come insieme di contenuti che muove da un centro produttivo
e si indirizza a un’utenza il più possibile vasta e
indifferenziata è stato abbattuto dall’avvento dei
personal media, e con esso è caduto anche il
presupposto della loro onnipotenza rispetto ai consumatori: oggi
l’utente deve mettere in atto una serie di operazioni per
relazionarsi con i media, effettua numerose scelte ed è parte
attiva del rapporto con essi; nel caso di videogiochi, computer o
telefonia mobile il consumatore è a tutti gli effetti
co-autore della comunicazione.
Inoltre l’incrocio tecnologico ha favorito la
mobilità dei contenuti a discapito della differenziazione che
caratterizzava in passato i media: non più destinato a una
sola funzione, ogni supporto tende a esercitare una pluralità
di ruoli, per cui è oggi sempre più facile trovarsi a
leggere giornali online o guardare film sullo schermo di iPod e
telefoni cellulari. Ciò non ha però decretato la morte
delle tecnologie obsolete; esse sopravvivono accanto alle nuove
come ventaglio di possibilità e di esperienze accessibili: la
scelta dell’una o dell’altra varia secondo fattori
soggettivi e ambientali.
Tali aspetti hanno favorito l’adozione di una
definizione complessa di media, considerati non solo come
dispositivi comunicativi, ma anche sociali. È ormai accettato
il fatto che, accanto a un risvolto tecnologico ed economico,
ciascun medium si caratterizzi per una serie di «"protocolli"
o di pratiche sociali e culturali che sono cresciute intorno a
quella tecnologia».[37] Di conseguenza
possono nel tempo variare i contenuti, i pubblici, «ma una
volta che il medium soddisfa una domanda fondamentale per qualche
essere umano, continua ad assolvere la sua funzione
all’interno di un sistema di opzioni più ampio».
Per questo «vecchi e nuovi media sono stati costeretti a
coesistere. […] Lungi dall’essere sostituiti, i vecchi
media vedono trasformare la loro funzione e il loro status, per
effetto dell’introduzione di nuove tecnologie».[38]
Il discorso può essere esteso e applicato al
rapporto tra media e forme di rappresentazione artistica o di
spettacolo: per quanto ci riguarda, si può provare a
ricondurre a questo quadro l’ampio confronto e
l’insieme di scambi sempre più numerosi tra teatro e
cinema, o tra musica dal vivo e musica registrata che
l’avvento delle tecnologie ha di volta in volta sussunto ma
non represso. Ne è prova il fatto che la disponibilità di
opere su DVD non ha decretato la chiusura dei teatri, ma promosso
un’offerta più stratificata e trasversale. D’altra
parte, come dimostra l’esempio del Don Giovanni di
Peter Sellars, pure la cultura audiovisiva e massmediale
contemporanea ha determinato una certa influenza sulla messa in
scena teatrale.
Ma come convivono le vecchie e le nuove tecnologie,
come influenzano reciprocamente i loro contenuti, e a quali modelli
più generali si rifanno? A questo proposito sono stati
avanzati dagli studiosi diversi paradigmi che vorrei brevemente
richiamare in quanto – pur elaborati in ambiti più
generali – presentano elementi utili anche alla riflessione
sul rapporto tra opera e audiovisivo.
Un modello utile a interpretare il rapporto tra media
– o forme di rappresentazione – è quello della
rimediazione, messo a tema da Bolter e Grusin a partire da un
sostrato mcluhaniano. La rimediazione spiega l’avvicendamento
tra vecchi e nuovi media come processo non competitivo ma di
continua e successiva rielaborazione. Rimediazione, secondo una
caratteristica costante dei media digitali, è la
rappresentazione di un medium all’interno di un altro medium,
o l’incorporazione della tecnologia preesistente.
Due dinamiche sono sottostanti a questo processo: la
logica della trasparenza e quella, opposta,
dell’opacità. La prima, detta anche
dell’immediacy, ha come obiettivo quello di rendere
agevole, attraverso una nuova tecnologia, il contenuto di una
precedente, o la realtà stessa, senza mostrarne il processo di
incorporazione. Si tratta di interfacce che nascondono la
‘mediazione’ operata rispetto a ciò che
rappresentano, o che cercano di dissimulare lo scarto tecnologico
sopraggiunto o di renderlo assai poco problematico, o ancora di
promettere un’esperienza diretta, persino potenziata (si
pensi alla realtà virtuale immersiva) della vita reale.
L’immediacy «si pone l’obiettivo di
mantenere "un punto di contatto tra il medium e ciò che
rappresenta" e di rendere trasparente il dispositivo di
interfacciamento».[39] Essa interviene
laddove la presenza di un medium fa leva su usi e funzioni sociali
ratificate, senza imporre una loro modificazione: si può
citare a riguardo l’animazione computerizzata, nella quale si
ha spesso l’illusione di trovarsi di fronte a un
film.[40]
Al contrario la logica
dell’ipermediazione si basa sulla visibilità
della tecnologia, sulla presenza di finestre che la esibiscono,
anziché azzerarla. Lo spazio risulta frammentato e disperso,
ma non è più unificato secondo un solo punto di vista.
Nello stesso tempo, se pure l’esibizione del processo
creativo è anteposta al risultato estetico, l’utente
guadagna in consapevolezza, dal momento che può decidere se
guardare gli oggetti o guardare attraverso di essi per dar
senso alla propria esperienza. Come nella navigazione in rete, o
negli split screen televisivi, la logica
dell’ipermediazione «moltiplica i segni della mediazione
e in questo modo cerca di riprodurre la ricchezza sensoriale
dell’esperienza umana».[41]
Nel caso della ripresa del Don Giovanni di
Mozart da parte di Peter Sellars, siamo di fronte a un caso
evidente di rimediazione a più livelli: dal contenuto (la
messa in scena dell’opera mozartiana) alla forma (dal teatro
alla ripresa video), all’autore (Mozart-Da Ponte
versus Sellars). Riguardo alle due modalità descritte,
l’immediatezza e l’ipermediazione, mi pare che Sellars
operi su entrambi i fronti, in un gioco di continuo ammiccamento e
spiazzamento nei confronti dello spettatore. Da un lato, infatti,
il regista sembra azzerare la mediazione della macchina da presa
attraverso riprese che suggeriscono una certa padronanza dello
spazio teatrale nella sua ampiezza, o che, all’opposto,
delineano una forte vicinanza ai personaggi; dall’altro
affida agli stacchi di montaggio, veloci e insistiti, il compito di
ricordare la presenza della macchina da presa.
L’immersività dello spettatore in questo modo non è
mai disgiunta da una presa di distanza e l’esperienza di
visione e ascolto dell’opera non risulta esente da un
atteggiamento di tipo riflessivo – indotto dalle scelte
registiche di Sellars – sulle modalità del rappresentare
e sulla visione.
Un secondo modello volto a spiegare le modalità
di coabitazione tra diverse tecnologie è quello della
convergenza mediale, di recente proposto da Henry Jenkins,
direttore del Comparative Media Studies Program presso il MIT. La
convergenza è in primo luogo una funzione tecnologica, vale a
dire la capacità dei dispositivi di incorporare operazioni
svolte da più media, convogliandole in un’unica macchina
(basti pensare al computer, al cellulare, alla stessa PlayStation,
che possono essere usati come televisione o giornale, macchina
fotografia, archivio di testi ecc.). Ma Jenkins tiene però a
sottolineare come la convergenza riguardi in modo sostanziale anche
la cultura transmediale che è ad essa sottesa. Convergenza
è dunque «un cambiamento culturale, dal momento che i
consumatori sono stimolati a ricercare nuove informazioni e ad
attivare connessioni tra contenuti mediatici
differenti».[42] La logica della convergenza spinge
pertanto gli spettatori a compiere un’elevata gamma di
operazioni di decodifica, quanto non di intervento e manipolazione
vera e propria del testo (come è per esempio richiesto per
caricare una sequenza di un film su YouTube), e insieme spinge gli
autori, i creativi, a tener conto – e anzi ad ampliare
– la mappa dei riferimenti e degli usi possibili.
Non è del tutto estraneo a questa logica di
convergenza il Don Giovanni di Peter Sellars: è una
lettura all’insegna della convergenza quella di Marcia
Citron, che vi ravvisa il debito del regista con la cultura pop e
segnatamente con quella televisiva della soap opera. Ma è
possibile attivare anche altre convergenze di lettura, scorgendo
per esempio le citazioni di West Side Story nei movimenti di
Don Giovanni e Leporello. Lo stesso Sellars dichiara il debito
contratto dalla cultura televisiva, e parla della propria
messinscena della trilogia mozartiana come di una
‘saga’, di un macrotesto le cui unità si
illuminano l’una in riferimento all’altra. Il lavoro
del regista americano calza pure a proposito di un’importante
conseguenza della cultura convergente sottolineata da Jenkins: in
un’accezione ottimistica, la convergenza promuove una cultura
partecipativa e risveglia l’intelligenza collettiva. Quando
lo spettatore attribuisce senso al testo, lo rielabora, lo rimette
in circolo nella propria vita, lo condivide con altri partecipando
a comunità virtuali; in una parola, diventa un soggetto
attivo, e in questo modo si attrezza alla cultura della
partecipazione e della cittadinanza. Analogamente la
‘stratificazione’ operata da Sellars con i diversi
materiali espressivi, e l’effetto straniante che produce il
loro accostamento (ad esempio la musica di Mozart e le scene di
esplicita violenza), obbliga lo spettatore a formulare una sintesi
personale, ad andare oltre una ricezione gratificante per trovare
un significato per la vita personale e comunitaria nel presente.
Ciò è frutto di una ‘negoziazione’ tra le
provocazioni del testo e le interpretazioni possibili, tra il
lavoro di regia e le letture socialmente condivisibili. Il teatro
operistico di Sellars, come si è visto, ha come fine ultimo
proprio la costruzione della cittadinanza.
Un terzo modello di interpretazione delle
trasformazioni dei media contemporanei è quello della
rilocazione, messo a tema a proposito del cinema da
Francesco Casetti. «Al centro della ri-locazione
c’è una migrazione e una appropriazione: il cinema si
trasferisce in nuovi ambiti, tecnologici o spaziali, e nello stesso
tempo li fa propri».[43] L’analisi
assume i precedenti paradigmi della rimediazione e della
convergenza e li colloca in una prospettiva ambientale nella quale
lo spazio non ha una mera funzione di localizzazione, ma serve a
ridefinire le condizioni di accesso al medium, e a tratteggiare un
particolare tipo di esperienza. La riflessione di Casetti prende
avvio dalla proliferazione degli schermi nel paesaggio urbano
contemporaneo per domandarsi a quale tipo di visione essi diano
luogo, e in quale senso permangano dei legami con la fruizione
filmica. L’ambiente arredato dagli schermi comporta in primo
luogo una serie di procedure: una ridefinizione dello spazio; una
sua riarticolazione (con la designazione dei confini dei diversi
oggetti culturali); l’invito, rivolto allo spettatore, ad
adottare determinati comportamenti di consumo; infine
un’integrazione tra elementi di tradizionale pertinenza del
medium e aspetti nuovi. Ne consegue che gli schermi urbani
«hanno un legame ambiguo con il cinema: per un verso sembrano
raccoglierne l’eredità, anche attraverso vie del tutto
imprevedibili; per un altro verso portano questa eredità come
al suo compimento – la rivitalizzano e insieme la
trasformano».[44]
Mi pare che questa analisi possa essere estesa, in
quanto utile a comprendere il dinamismo di quelle forme espressive
e di comunicazione, anche pre e postmediali, in cui lo spazio, da
un lato, e la presenza di un dispositivo, dall’altro,
rivestono un ruolo cruciale.[45] Nel momento in
cui il dispositivo che incarna la forma comunicativa emblematica di
un certo periodo storico (o che viene rivestito di un particolare
valore sociale) esce da uno spazio deputato, che aveva per
così dire ‘arredato’, e si espande in un
territorio nuovo, quest’ultimo si riconfigura nel senso
descritto da Casetti. A titolo di esempio si possono citare tanto
la pittura religiosa, nata per la decorazione delle chiese, poi
ri-ubicata presso i musei, quanto le videoinstallazioni che
utilizzano immagini preesistenti.[46] Ma in generale
tutte le eterotopie descritte da Foucault – luoghi
effettivamente reali e organizzati in una società che
però «rappresentano qualche cosa di assolutamente diverso
da tutti gli spazi che riflettono e di cui parlano»,[47]
luoghi aperti ma al tempo stesso fortemente ritualizzati in cui le
coordinate geo-temporali precipitano e sono messe en abîme
– sono gli spazi in cui avviene la rilocazione. In questo
senso si può leggere a mio parere anche l’evoluzione
dell’opera che, dallo spazio deputato del teatro, conservato
per tutto l’Ottocento, nel secolo successivo arriva a
conquistare altri luoghi: basti pensare alle forme di teatro fuori
dal teatro, come i carri di Tespi durante il fascismo italiano o al
teatro all’aperto, o anche ai mezzi di riproduzione meccanica
che, dal cinema alla radio, dalla tv al disco e al videodisco,
ospitano in vari modi e formati il teatro lirico. Non si tratta di
una semplice migrazione dei dispositivi del teatro musicale (il
palco, l’orchestra, i cantanti), da un luogo a un altro: nel
transito, spazi e dispositivi manifestano una inedita
porosità, e vengono reciprocamente spinti a esplorare nuove
possibilità. Come abbiamo visto, è ampiamente documentato
l’interesse del cinema nei confronti del melodramma, non
soltanto – e fin dai primi anni – a livello testuale
nella ripresa di opere liriche, ma pure in modo più
sotterraneo nella ripresa di modelli narrativi, e nella
designazione di un particolare contratto spettatoriale. Tuttavia va
osservato come la rilocazione cinematografica sia più
evidente, perché avviene attraverso una tecnologia che si
dà a vedere (lo schermo), mentre la rilocazione della scena,
dal momento che avviene attraverso un dispositivo non
necessariamente tecnologico (si pensi allo spazio scenico, e alla
sua portata simbolica), non appare quantitativamente misurabile, ma
è al punto incorporata dagli uomini da impregnare le forme e
gli spazi del vivere civile.[48]
Ancora una volta il caso di Don Giovanni,
nella regia di Peter Sellars, offre un ottimo esempio di
rilocazione a più livelli. Il mito di Don Giovanni –
ormai pienamente riconosciuto nel suo valore archetipico –
dal punto di vista tematico e spaziale è ricollocato, come
abbiamo visto, dai palazzi nobiliari dell’Europa mozartiana
alle strade del Bronx di due secoli dopo: un cambiamento che
sottende non solo l’urgenza di parlare al
‘presente’ degli spettatori, ma pure la capacità
di parlare del loro presente (e dei loro problemi), nei luoghi dove
la loro stessa vita si svolge. Da qui la predominanza del cronotopo
della strada, opposto a quello del palazzo: una nuova collocazione
che, in termini metalinguistici, può rinviare alla perdita di
centralità dello spazio teatrale deputato, a favore di una
diffusione (e quasi dispersione) della ‘scena’ nei
luoghi della vita quotidiana. A livello stilistico, questa
rilocazione simula un forte debito nei confronti della cultura
audiovisiva contemporanea, e al cosiddetto pastiche che
– come ha ben messo in luce Marcia Citron – la
caratterizza. Tuttavia ciò non si traduce in un semplice
‘appiattimento’ di componenti eterogenee l’una
sull’altra: come più volte sottolineato,
l’abilità di Sellars è quella di esibire (e non
occultare, come spesso avviene nella cultura contemporanea) il
processo di stratificazione, obbligando lo spettatore a un
confronto e a una ricerca di senso in prima persona. In questo
senso mi pare che sia la cultura drammaturgica a trovare una sua
ri-locazione in quella audiovisiva, e non viceversa;
quest’ultima, a sua volta, è rivitalizzata
dall’incontro con il teatro. Se Peter Sellars ricolloca il
portato culturale e simbolico del teatro mozartiano nel solco della
drammaturgia civile e della cultura audiovisiva degli anni Ottanta,
a livello più generale si può affermare che l’opera
in video ridefinisce il tradizionale ‘contratto
spettatoriale’, facendogli perdere necessariamente alcune
componenti tradizionali per assumerne di nuove.
Dunque i paradigmi che affrontano
l’avvicendamento e l’evoluzione delle forme espressive
e simboliche integrando l’approccio testuale e/o tecnologico
con un interesse esteso alle modalità di funzionamento, alle
funzioni sociali svolte, alle modalità di coinvolgimento
spettatoriale, offrono degli stimoli rilevanti in ordine allo
studio del rapporto tra opera e audiovisivo. Tanto il modello della
rimediazione, come modello formale/genealogico (nell’idea
foucauldiana di affiliazioni e risonanze, più che di stretta
successione storica), quanto il modello della convergenza, come
quadro essenzialmente relazionale; quanto infine il modello della
rilocazione, come paradigma ambientale ed esperienziale, rilanciano
quesiti ineludibili per orientare la cultura del presente e
l’eredità del passato alla luce di un possibile sviluppo
futuro; per capire, cioè, accanto alle nuove, inedite, forme
artistiche, quale grana e consistenza rivesta la nuova vita delle
antiche cose.
|
________________________
[Bio] Elena Mosconi
è ricercatrice presso l’Università Cattolica di
Milano, dove insegna “Storia e critica del cinema”.
Svolge ricerca prevalentemente in ambito storico e storiografico,
interessandosi tra l’altro ai processi di
istituzionalizzazione del cinema e ai suoi rapporti con le altre
arti e le altre forme di spettacolo. È autrice di
L’impressione del film. Contributi per una storia del
cinema italiano 1895-1945 (Milano, Vita e Pensiero, 2006); e di
recente ha curato Nero su bianco. Le politiche per il cinema
negli ottant’anni della «Rivista del
cinematografo» (Roma, Eds, 2008); Moltiplicare
l’istante. Beltrami, Comerio e Pacchioni tra fotografia e
cinema (Milano, Il Castoro, 2007 con Elena Dagrada e Silvia
Paoli); Spettatori italiani. Riti e ambienti del consumo
cinematografico 1900-1950 (Roma, Carocci, 2006 con Francesco
Casetti). Collabora con riviste scientifiche nazionali e
internazionali.
E-mail:
elena@mosconi.com
Elena Mosconi is a tenured researcher at the
Catholic University of Milan, where she teaches “Film History
and Crtiticism”. Her broader research addresses the
institutionalisation of film and the historical relationship
between film and the other arts. She has written
L’impressione del film. Contributi per una storia del
cinema italiano 1895-1945 (Milano, Vita e Pensiero, 2006); and
recently edited Nero su bianco. Le politiche per il cinema negli
ottant’anni della «Rivista del cinematografo»
(Roma, Eds, 2008); and co-edited Moltiplicare l’istante.
Beltrami, Comerio e Pacchioni tra fotografia e cinema (Milano,
Il Castoro, 2007); Spettatori italiani. Riti e ambienti del
consumo cinematografico 1900-1950 (Roma, Carocci, 2006). She is
also a contributor to Italian and International reviews.
[1] Si possono citare a
titolo di esempio i volumi di Gianfranco Casadio, Opera e
cinema: la musica lirica nel cinema italiano dall’avvento del
sonoro ad oggi, Ravenna, Longo, 1995; Cinéma et
opera, Paris, Premières Loges, 1987; David Schroeder,
Cinema’s Illusions, Opera’s Allure: The Operatic
Impulse in Film, New York-London, Continuum, 2003; Se quello
schermo io fossi: Verdi e il cinema, a cura di Massimo
Marchelli e Renato Venturelli, Recco, Le Mani, 2001; Guglielmo
Pescatore, La voce e il corpo: l’opera lirica al
cinema, Pasian di Prato, Campanotto, 2001; Ken Wlaschin,
Encyclopedia of Opera on Screen: a Guide to More than 100 Years
of Opera Films, Videos and DVDs, New Haven, Yale Univerity
Press, 2004.
[2] Una sintesi al
riguardo è fornita da Michel Veilleux, L’opera dal
teatro allo schermo televisivo, in Enciclopedia della
musica. Il Novecento, a cura di Jean-Jacques Nattiez, Torino,
Einaudi, 2001, vol. II, pp. 849-870; l’Istituto di ricerca
per il teatro musicale (I.R.Te.M.) ha svolto su questo tema
numerosi convegni e seminari, confluiti nei quaderni: Oper 1985:
Scritti sui mezzi di comunicazione di massa e l’opera, n.
2, 1985; L’opera in film, n. 5, 1987; Opera e
cinema, n. 6, 1988; Opera e televisione, n. 8, 1989;
Opera e televisione 2, n. 10, 1990; Tempo e spazio:
problemi di un rapporto tra opera e televisione, n. 11, 1991;
Don Giovanni in video, n. 12, 1992; Opera e televisione:
un problema di linguaggi, n. 20, 1997; Creazione e
riproduzione dell’opera in video: riflessioni su Opera on
Screen 1993, n. 22, 2001; Modi di riproduzione in
televisione della musica dal vivo e in studio, n. 25, 2000;
Modi di riproduzione in televisione dell’opera lirica:
problemi teatrali, problemi musicali, n. 26, 2002.
[3] Pescatore, La voce
e il corpo: l’opera lirica al cinema, cit.
[4] Michel
Grover-Friedlander, Vocal Apparitions: The Attraction of Cinema
to Opera, Princeton, Princeton University Press, 2005.
[5] Jeremy Tambling,
Opera, Ideology and Film ,
Manchester, Manchester University Press, 1987; e A Night In at
the Opera: Media Representations of Opera, ed. by Jeremy
Tambling, London, John Libbey, 1994.
[6] Sintetizza questo
dibattito John Storey, «Expecting Rain»: Opera as
Popular Culture?, in High Pop: Making Culture into Popular
Entertainment, ed. by Jim Collins, s.l., Blackwell Publishing,
2003, pp. 32-55.
[7] Ibid., p. 44.
Rientra in questo vasto ambito di problematiche anche il tipo di
operazione compiuta sul testo (o sul musicista) da parte del
regista. Ha per esempio evidenziato Horowitz (cfr. Joseph Horowitz,
Mozart as Midcult: Mass Snob Appeal, «The Musical Quarterly », 76/1, Spring 1992, pp.
1-16) come sia possibile operare uno spostamento del patrimonio
della musica classica nell’ambito del Midcult o del Camp.
[8] Tra la ricca
bibliografia mi limito qui a citare Werner Wolf, The
Musicalization of Fiction: A Study in the Theory and History of
Intermediality, Amsterdam, Rodopi, 1999 e l’utile sintesi
con raccolta di saggi e bibliografia di Giovanni Guagnelini –
Valentina Re, Visioni di altre visioni: intertestualità e
cinema, Bologna, Archetipolibri, 2007.
[9] Between Opera and
Cinema, ed. by Jeongwon Joe and Rose Theresa, London-New York,
Routledge, 2002.
[10] Carmen on
Film: A Cultural History, ed. by Phil Powrie, Bruce Babington,
Ann Davies, Chris Perriam, Bloomington, Indiana University Press,
2007; Carmen: from Silent Film to MTV, ed. by Chris Perriam
and Ann Davies, Amsterdam, Rodopi, 2005.
[11] Marcia J.
Citron, Opera on Screen, New Haven-London, Yale University
Press, 2000, p. 9; «If opera is accorded
priority it means that media treatments are derivative works and
the aesthetic of the stage limit what can be done
interpretatively ». Sullo stesso tema: Id., A Night
at the Cinema: Zeffirelli’s «Otello» and the
Genre of Film-Opera, «The
Musical Quarterly», 78/4, Winter 1994, pp. 700-703.
[12] Loc.
cit.
[13] Nicholas Cook,
Analysing Musical Multimedia, New York, Oxford University
Press, 1998, p. 102.
[14] Ibid.,
p. 103.
[15] Ibid.,
p. 105.
[16] Cfr.
Das Musiktheater in den audiovisuellen Medien:
«…Ersichtlich gewordenen Taten der
Musik» , hrsg. von Peter Csobádi, Gernot
Gruber, Jürgen Kühnel, Ulrich Müller, Oswald Panagl
und Franz Viktor Spechtler, Vorträge und Gespräche des
Salzburger Symposions, 1999, Anif-Müller-Speiser, Salzburg,
2001.
[17] Stralci del
dibattito critico sollevato da Peter Sellars sono presenti in
Andrew Porter, Mozart on the Modern Stage, «Early
Music», 20/1, febbraio 1992, Performing Mozart’s
Music II, pp. 132-138; e in Richard Trousdell, Peter Sellars
Rehearses «Figaro», «The Drama
Review», 35/1, Spring 1991, pp. 68-69.
[18] Per un
inquadramento generale sull’autore rimando a Peter
Sellars, a cura di Maria Delgado e Valentina Valentini, Soveria
Mannelli, Rubbettino, 1999; Peter Sellars, a cura di
Frédéric Maurin, Paris, CNRS, 2003.
[19] Si può
ricordare a questo proposito come la messa in scena
dell’opera Zaide al Festival mozartiano presso il
Lincoln Center (New York) nel 2006 sia stata preceduta da un
dibattito sulla schiavitù contemporanea, ispirato ai contenuti
dell’opera di Mozart.
[20] Una delle
ragioni del fallimento sarebbe proprio il fatto che
«the American regional theatre is usually
not very capable of supporting a certain centrist entry into civic
life. For most Americans theatre is a side issue, theatre is over
there, it doesn’t concern them ». La citazione
è tratta da un’intervista concessa da Peter Sellars a
Richard Trousdell, riportata in Peter Sellars Rehearses
«Figaro», cit., p. 70.
[21] Ibid.,
p. 67.
[22] Ibid.,
pp. 69-70. Osserva inoltre Marcia Citron: «The basic idea is that because we cannot recoup the
reactions of eighteenth-century audiences to the shock value and
avant-garde aspects of these works, we have to recast them in the
"image-language" of today. That means the contemporary United
States, which provides the means to access the core of the work.
Furthermore, he believes that the modern setting does not exist for
its own sake or to critique American culture but to serve dramatic
ends » (Citron, Opera on Screen, cit., p.
215).
[23] Peter Sellars,
Exits and Entrances: On Opera, «Artforum», 28/4,
December 1989, p. 23.
[24] A titolo di
esempio, si veda l’attenta analisi della regia di Sellars
svolta da Maria Martino, Un’interpretazione registica di
Peter Sellars: «Theodora» di Händel, tesi di
laurea triennale in Musicologia, Università degli Studi di
Pavia, a.a. 2004-2005, relatore prof. Michele Girardi, consultabile
all’indirizzo: http://musicologia.unipv.it/girardi/MM-Sellars.pdf.
[25] David
Littlejohn, Reflections on Peter
Sellar’s Mozart , «Opera Quarterly»,
7/2, Summer 1990, p. 20.
[26] In particolare
Don Giovanni è stato rappresentato per la prima volta a
Manchester (Vermont) e quindi a Pepsico nel 1987; l’edizione
del DVD della Decca, cui si fa qui riferimento, è del
1991.
[27] Terry Donovan
Smith, Shifting Through Space-Time: A
Chronotopic Analysis of Peter Sellar’s «Don
Giovanni», «Modern Drama», 39/4, Winter
1996, p. 676.
[28] Leporello
«is the representative of the reality
principle, […] he is our own representative, who, while
waiting before the house in which his master attempts his
seduction, introduces the opera, thereby setting our
perspective » (Mladen Dolar, Don Giovanni, in
Slavoj Zizek – Mladen Dolar, Opera
second Death , London-New York, Routledge, 2002, p.
46).
[29] Citron,
Opera on Screen, cit., pp. 240-242.
[30] La definizione
è di Charles Coffin, Why are they singing?,
«Boston Observer», 1/0, Avril 1981, p. 19.
[31] Isabelle
Moindrot, Ténèbres et lumières. Peter Sellars,
metteur en scène de Haendel et de Mozart, in Peter
Sellars, a cura di F. Maurin, cit., p. 37.
[32] Donovan Smith,
Shifting Through Space-Time ,
cit., p. 673.
[33] Ibid.,
p. 669. Per la verità spesso la strada svolge anche la
funzione simbolica di soglia, dal momento che rappresenta
un’interfaccia tra i luoghi chiusi e quelli aperti, tra
l’interiorità e l’esteriorità.
[34] Sintomatico il
fatto, osservato da David Littlejohn e Terry Donovan Smith, che
Donna Anna cerchi riparo non fuori da un palazzo ma al suo interno.
Parallelamente le botole da cui fuoriescono, nel finale, tutti i
condannati, rimandano all’estensione della strada in
superficie e finanche in profondità, fino a una dimensione
‘infraumana’.
[35] Sullo statuto
dell’immagine cinematografica nel panorama postmoderno
rimando almeno a: Norman Kent Denzin, Images
of Postmodern Society: Social Theory and Contemporary Cinema,
London, Sage Publications, 1991; Gianni Canova, L’alieno e
il pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo,
Milano, Bompiani, 2000; Antonio Negri, Ludici disincanti. Forme
e strategie del cinema postmoderno, Roma, Bulzoni,
1996.
[36] Seguo a questo
riguardo l’interpretazione di Massimo Mila, Lettura del
«Don Giovanni», Torino, Einaudi, 2000 (1^ ed. 1988),
pp. 45-54 e le sue fonti: Pierre-Jean Jouve, «Il Don
Giovanni di Mozart», Milano, Adelphi, 2001 e Hermann
Abert, W.A. Mozart. La maturità 1783-1791, Milano, Il
Saggiatore, 1985. Brevi considerazioni sono svolte anche da
Loredana Lipperini, Don Giovanni. Il potere della seduzione, la
musica, il mito, Roma, Castelvecchi, 2006 (1^ ed. 1987), pp.
126-129.
[37] Hernry Jenkins,
Cultura convergente, Milano, Apogeo, 2007, p. xxxvii (tit.
orig. Convergence Culture, New York, New York University,
2006). L’idea è condivisa da numerosi studiosi; basti
citare al riguardo Lisa Gitelman, Always Already New: Media,
History and the Data of Culture, Cambridge (Mass.), MIT, 2006 e
Francesco Casetti, Communicative Negotiation
in Cinema and Television, Milano, Vita e Pensiero,
2002.
[38] Casetti,
Communicative Negotiation in Cinema and
Television , cit.
[39] Alberto
Marinelli, Prefazione. Dallo «spazio dello scrivere»
alla «rimediazione», in Jay David Bolter –
Richard Grusin, Remediation. Competizione e integrazione tra
media vecchi e nuovi, Milano, Guerini e Associati, 2002, p.
17.
[40] «È
importante sottolineare che la logica dell’immediatezza
trasparente non convince necessariamente lo spettatore, in modo
ingenuo e quasi magico, che la rappresentazione è esattamente
ciò che essa rappresenta» (Bolter – Grusin,
Remediation, cit., p. 55). Bolter e Grusin citano come
esempio le prime proiezioni cinematografiche durante le quali gli
spettatori, pur sapendo di non essere di fronte alla realtà
– ma a una sua rappresentazione – manifestava
sentimenti di paura o di stupore, per la ‘credenza’
instaurata nei confronti delle immagini (e il loro effetto di
realtà).
[41] Ibid.,
p. 59.
[42] Ibid.,
p. xxv.
[43] Francesco
Casetti, L’esperienza filmica e la ri-locazione del
cinema, «FataMorgana», 4, gennaio-aprile 2008, pp.
23-40. L’esperienza filmica e la rilocazione del cinema:
una traccia di lavoro, mimeo, dispensa del corso di
Pragmatica della Comunicazione mediale, Università
Cattolica, a.a. 2007-2008, p. 7.
[44] Ibid.,
pp. 12-13.
[45] In merito
rinvio a Giorgio Agamben, Che cos’è un
dispositivo?, Roma, Nottetempo, 2006.
[46] Il problema
è ampiamente posto in Georges Didi-Huberman, Devant le
temps. Histoire de l’art et anachronisme des images,
Paris, Minuit, 2000 (per la traduzione in italiano ringrazio Alice
Cati e Miriam De Rosa, che stanno lavorando su questi temi, per le
suggestioni offertemi (cfr. Alice Cati, Dedali e spiriti
erranti. Il museo-labirinto in «Arca Russa» di A.
Sokurov; e Miriam De Rosa, To Look to Wander: Cinema in
Installations, di prossima pubblicazione).
[47] Michel
Foucault, Des spaces autres (conferenza al Centre
d’études architecturales , 14 marzo 1967),
«Architectures, Mouvement, Continuité», 5, octobre
1984, tr. it. Eterotopie, ora in Archivio Foucault.
Interventi, colloqui, interviste, vol. 3 1978-1985,
Milano, Feltrinelli, 1998, p. 310.
[48] Basti pensare,
a questo riguardo, al frequente ricorso alla metafora teatrale in
ambiti di ricerca eterogenei, dalla prospettiva drammaturgica
adottata da Erving Goffman all’antropologia della performance
di Victor Turner.
|
|
|