Marco Gurrieri
«Moulin Rouge!» di Baz
Luhrmann
Abbreviazioni
***
Due sono gli aspetti che mi sono sembrati centrali
nel tentativo di inquadrare Moulin Rouge! (2001) di Baz
Luhrmann all’interno del dibattito sul rapporto tra musica e
immagine: 1) la volontà del regista di dare nuovo lustro al
genere del musical e, 2) l’impiego in tal senso delle
tecniche e del linguaggio del cinema post-moderno. Partendo dal
primo punto mi sono posto il problema di verificare quali siano le
coordinate del genere musical e di individuare di
conseguenza quali possano essere stati i luoghi di intervento
focalizzati dal regista nell’attuare i suoi propositi.
Apparentemente intuitiva, la definizione di
musical – uno spettacolo teatrale o cinematografico in
cui si avvicendano musica e recitazione – è
tutt’altro che priva di insidie, soprattutto se ai
pronunciamenti degli studiosi di musical si cerca di trovare
puntuali conferme nella vasta produzione teatrale o, come nel
nostro specifico, in quella cinematografica. Un po’ di ordine
in tal senso lo ha fatto Rick Altman, che ha affrontato
l’argomento in maniera sistematica. Eppure, nonostante il suo
contributo, esistono ancora sacche di resistenza e definizioni
problematiche come quella data da Gerald Mast, che intercetta nel
musical il predominio dei numeri musicali sulle parti
recitate – in termini di valore e di maggior peso
nell’intrattenimento. Ovviamente questa definizione va bene
nel caso, ad esempio, di Jesus Christ Superstar (Jewison,
1973) che è cantato quasi integralmente, ma crea non pochi
imbarazzi una volta applicata a The Wizard of Oz (Fleming,
1939) in cui i brani musicali intervengono più sporadicamente
e da un certo punto in poi della pellicola. Sulle origini e
strategie di spettacolo utilizzate nel musical sembra invece
ci siano maggiori convergenze. Tutti gli studiosi e voci di
dizionario concordano infatti nell’attribuire al genere delle
origini popolari, da collocare grosso modo tra la fine del XIX e
l’inizio del XX secolo negli Stati Uniti. La connotazione
popolare è da imputare principalmente al fatto che questo
genere di spettacoli – all’inizio solo teatrali –
nacque, a quanto sembra, per venire incontro alle difficoltà
linguistiche degli immigrati presenti sul territorio americano: il
commento musicale serviva a creare una sorta di aspettativa su
ciò che sarebbe accaduto in scena anche senza che lo
spettatore avesse compreso per intero il testo verbale. Ma non
solo. Di popolare il musical ha anche le ascendenze
artistiche, individuate dagli studiosi forse con un po’
troppo di nonchalance in alcuni generi teatrali popolari
europei: l’operetta, il vaudeville e la
burlesque. A mio avviso, però, l’alternanza di
recitazione e musica, e ancor più la prescrittiva
necessità di oggettivare la parentesi musicale sul piano della
finzione scenica (nel musical se si canta o si balla è
spesso la trama a richiederlo: una festa, le prove per la
preparazione di uno spettacolo teatrale, una lezione di canto,
etc.) sono caratteristiche comuni anche ad altri generi teatrali
europei, il che aumenta ulteriormente il ventaglio delle possibili
influenze provenienti dal Vecchio Continente. Infatti, i generi
teatrali popolari in cui un impianto teatrale di parola è
interrotto da ‘musiche di scena’ – cioè da
momenti musicali che anche i protagonisti dell’intreccio
drammatico percepiscono come tali – in Europa ce
n’è a bizzeffe, con attestazioni (come si evince dallo
schema 1 qui di seguito riportato) in quasi ogni confine
nazionale.
Generi di teatro popolare precedenti al musical
che prevedono l’alternanza di sezioni recitate e
musica
|
Francia
|
[opéra-comique]
opéra bouffe / ‘offenbachiade’
operette vaudeville
burlesque
|
Germania/Austria
|
[Singspiel] (Engelbert
Humperdinck)
Liederspiel
Spieloper
komische Komödie (Albert Lortzing) Operette
|
Gran
Bretagna
|
genere
‘Gilbert&Sullivan’ / ‘Savoy’
|
Spagna
|
zarzuela grande
género chico: tonadilla, sainete, humorada, fantasía,
juguetes género ínfimo:
varietà, operetta
teatro por horas
|
* le parentesi
quadre racchiudono generi teatrali di tradizione colta che, pur
tuttavia, non di rado presentano caratteristiche
popolari
|
Altra peculiarità del musical acclarata
dagli studiosi è una certa attitudine
all’auto-referenzialità (quella che Graham Wood chiama
self-reflexivity), cioè la tendenza a inserire
allusioni al mondo del musical, alla sua storia e al suo
sistema produttivo. Spesso infatti in un musical si assiste
a situazioni legate alla realizzazione di uno spettacolo musicale,
o addirittura l’intera trama ruota attorno a un attore o
attrice la cui professione è legata principalmente al genere
del musical (Gene Kelly, Julie Andrews, etc.), o ancora
vengono citate canzoni già impiegate in altri musical.
Si possono persino trovare riferimenti o ammiccamenti da parte
degli attori in scena alla ricezione del genere o ai meccanismi che
ne regolano il funzionamento, come in Singin’ in the
Rain (Kelly & Donen, 1952).
Per quanto certamente non esaustive, queste prime
considerazioni sulle coordinate del genere musical ci
permettono già di verificare il tipo di scelte operate in
Moulin Rouge! e, nello specifico, di comprendere quanto
imprescindibile sia in esso la relazione tra musica e immagine.
Risulta evidente, infatti, che Luhrmann punta proprio
sull’esasperazione del sistema allusivo di cui ho appena
accennato: spettacolarizzazione estrema (i protagonisti sono
impegnati a realizzare uno spettacolo teatrale dal titolo
quantomeno ridondante, Spectacular Spectacular), uso
pervasivo delle citazioni (su cui mi soffermerò a breve),
continui riferimenti meta-teatrali che ironizzano sui meccanismi e
i topoi stilistici di uno spettacolo musicale (esemplare una
delle scene iniziali in cui Ewan McGregor si unisce a
Toulouse-Lautrec&Co nell’ideazione e scrittura dello
spettacolo), scelta di protagonisti già conosciuti nel mondo
del musical o comunque dello spettacolo – McGregor
aveva già esordito come cantante nel film musicale Velvet
Goldmine (Haynes, 1998), mentre Nicole Kidman è senza
dubbio una delle artiste più note dello star-system
hollywoodiano. Per quanto riguarda l’uso delle citazioni,
Luhrmann riesce a creare una fitta rete di riferimenti, dalla
consueta citazione letterale – The Sound of Music
(Wise, 1965) e Hello, Dolly! (Kelly, 1969) – al meno
usuale riciclaggio di canzoni, tratte dal repertorio rock e pop
(dagli anni Sessanta ai giorni nostri: i Beatles, David Bowie,
Elton John, Madonna, i Kiss, i Queen, i Nirvana, gli U2, etc.) e
rielaborate secondo la tecnica del medley. Luhrmann si serve
anche di linguaggi multimediali estranei al genere del
musical, come il linguaggio pubblicitario (la sequenza della
‘fatina verde’ interpretata da Kylie Minogue che prende
vita dall’etichetta di una bottiglia di assenzio) o il
linguaggio del clip musicale (la scena iniziale del
can-can, ad esempio, su cui poi si basa il videoclip della
cover Lady Marmalade di Christina Aguilera, Lil’ Kim,
Mýa e Pink). Ma non solo. Nella trama è possibile
rintracciare un modello operistico piuttosto evidente. Basti
pensare, infatti, al personaggio di Satine (Kidman), cortigiana
gravemente ammalata di tisi, che ovviamente ricalca il personaggio
di Violetta, protagonista femminile della Traviata (1853) di
Giuseppe Verdi (Elizabeth Hudson fornisce un’analisi più
puntuale delle corrispondenze tra le due trame). Ma è un altro
personaggio, secondario questa volta, che rimanda a un livello
allusivo sicuramente meno riconoscibile dal cosiddetto
‘grande pubblico’. Il personaggio in questione è
Toulouse-Lautrec (John Leguizamo), che, pur essendo marginale
nell’economia diegetica di tutto l’intreccio, gode, a
differenza degli altri personaggi secondari – Satie (Matthew
Whittet), il Dottore (Garry McDonald), l’Argentino
narcolettico (Jacek Koman) –, di maggiore attenzione: a lui
vengono affidati degli assolo in cui spesso commenta le
vicissitudini amorose di Satine e Christian (McGregor), e il suo
atteggiamento malinconico sembra alludere a sue esperienze
pregresse che però non vengono mai esplicitate nel corso del
musical. In realtà questo gioco di detto e non-detto
è il risultato di tracce residue di un modello di riferimento
tangenziale, di cenni allusivi a un precedente filmico che Luhrmann
inserisce sapientemente nella trama principale creando una sorta di
percorso diegetico parallelo ma sotterraneo. Si tratta del film
Moulin Rouge (1952) di John Houston, in cui si raccontano le
traversie amorose del conte Henri de Toulouse-Lautrec, che, reso
nano da un incidente giovanile che gli bloccò la crescita
degli arti inferiori, scopre la sua passione per la pittura, decide
di immergersi nella vita bohémienne parigina legandosi
al mondo del Moulin Rouge. Pertanto la trama, al contrario di
quanto accade nel film di Luhrmann, è completamente incentrata
su Henri de Toulouse-Lautrec. Come del resto cambia anche il
genere. Il film di Houston è chiaramente un film biografico,
non rientra negli schemi del musical. Eppure piccole
parentesi musicali ci sono, e per l’esattezza tre: 1) la
scena d’apertura, in cui si assiste a uno dei tipici
spettacoli del Moulin Rouge; 2) l’esecuzione canora di Jane
Avril (Zsa Zsa Gabor) più o meno a metà del film; 3) la
scena finale, in cui Toulouse-Lautrec (José Ferrer), sul letto
di morte, rievoca a mo’ di fantasmi del passato i personaggi
incontrati al Moulin Rouge. Ma nel musical di Luhrmann il
personaggio di Toulouse-Lautrec non costituisce l’unico
ammiccamento al film di Houston. Anche la scena di apertura nel
Moulin Rouge del 1952, il primo dei tre momenti musicali
sopra citati, è oggetto di precisi riferimenti
all’interno del gemello del 2001, a partire dalla semplice
successione degli eventi: ingresso al Moulin Rouge, scena di ballo,
breve parentesi di dialogo, ingresso della prima donna.
Naturalmente a cambiare è anche il linguaggio cinematografico,
nel primo è un linguaggio tipico del cinema classico
hollywoodiano (quello della cosiddetta ‘età d’oro
degli studios’), nel secondo un linguaggio post-moderno. Per
meglio comprendere in cosa consista la differenza fra questi due
linguaggi occorre fare un raffronto tra le due situazioni.
Alla tabella 1 riporto l’analisi, inquadratura
per inquadratura (con relativo minutaggio), di ciò che succede
nella prima scena del film di Houston.
Tabella 1
Alla colonna ‘Immagine’, oltre che a
spiegare ciò che inquadra la cinepresa, si fa riferimento
all’inquadratura adottata. Le tipologie d’inquadratura
possibili sono tre: oggettiva, soggettiva, oggettiva irreale.
Nell’inquadratura oggettiva non c’è angolazione,
essa viene realizzata frontalmente in modo neutro (lo spettatore
è un testimone esterno dei fatti, osserva qualcosa come se
stesse guardando dalla finestra). Nel film di Houston questo tipo
di inquadratura è caratterizzata, infatti, da una ripresa da
lontano, a un’altezza neutra, senza angolazione.
L’inquadratura soggettiva riprende, invece, ciò che
vedono gli occhi del protagonista (strategia che ha per effetto un
maggiore coinvolgimento dello spettatore nella storia). E, infatti,
nel primo Moulin Rouge le inquadrature ravvicinate e con
angolazione dal basso sono da considerarsi delle inquadrature
soggettive, visto che riprendono ciò che Toulouse-Lautrec,
dalla posizione in cui è nella sala (cioè seduto a un
tavolino adiacente alla pista da ballo), riesce a vedere.
L’inquadratura oggettiva irreale rappresenta invece
l’occhio dell’autore/regista, e nel caso esaminato
questo tipo di inquadrature si distingue chiaramente
dall’angolazione della cinepresa, posizionata in alto. I
cambi d’inquadratura giocano molto su questa differenziazione
dei punti di vista, realizzando una narrazione dinamica che segue
di pari passo le musiche di Georges Auric. Altra situazione
troviamo alla scena del can-can in Moulin Rouge! di
Luhrmann. Ed è proprio a partire dall’aggiunta del punto
esclamativo nel titolo che si può cogliere il cambio di
registro. Tutto viene esagerato: l’avvicendarsi delle
inquadrature è molto più frenetico (non propongo in
questo caso una tabella analitica anche perché bisognerebbe
segnalare un cambio di inquadratura a ogni secondo), così come
frenetico è il susseguirsi degli spezzoni musicali che
compongono i medley, tecnica su cui ruota tutto il
musical. Diverse sono anche le tipologie di inquadrature,
quelle tipiche del linguaggio del cinema postmoderno: le oggettive
raddoppiate e le soggettive vuote. Le prime realizzano
un’immagine che, però, al suo interno contiene altre
immagini, le seconde tendono per il movimento della cinepresa a
segnalare la presenza di qualcuno, qualcuno che in realtà non
appare (il regista o il narratore, ad esempio). Ciò avviene
sia grazie al movimento della macchina (insolitamente troppo
veloce: zoomate improvvise e repentine), che alla posizione
in cui questa viene posta (troppo in alto: inquadrature panoramiche
dal cielo). In Moulin Rouge! questo tipo di linguaggio
cinematografico dà vita a una proliferazione di immagini che
trova nel corrispettivo musicale un degno alleato. Esattamente come
per le immagini, le citazioni musicali si susseguono e si
sovrappongono rincorrendosi le une alle altre in un cortocircuito
dello stesso sistema di riferimento. I frammenti di musiche
pop e rock inseriti in un contesto a essi estraneo
(la storia si svolge nella Parigi fin de siècle) creano
uno sfasamento temporale. L’effetto finale è uno
sprofondare consapevole nel kitsch e un conformarsi ai
dettami del post-moderno: rifiuto delle gerarchie; ironia (il
gioco, la parodia sono le sole risposte possibile al rifiuto delle
gerarchie); molteplicità (unione di più materiali,
purché provengano da fonti diverse); frammentazione (il
medley musicale); circolarità temporale (non esiste
più una progressione temporale: passato remoto – Parigi
fin de siècle – e passato prossimo –
frammenti musicali anni ’60-’90 – si mescolano);
indeterminatezza (tutto è importante, qualsiasi frammento
visivo o sonoro ha la stessa importanza di un altro).
Scheda del film
Regia: Baz Luhrmann; soggetto e sceneggiatura:
Baz Luhrmann e Craig Pearce; interpreti: Nicole
Kidman (Satine), Ewan McGregor (Christian), John
Leguizamo (Henri de Toulouse-Lautrec), Jim Broadbent
(Harold Zidler), Richard Roxburgh (Il Duca di Monroth),
Garry McDonald (Il Dottore), Jacek Koman (Argentino
narcolettico), Matthew Whittet (Satie), Kerry Walker
(Marie), Caroline O’Connor (Nini
‘gambe-all’aria’), Christine Anu (Arabia),
Natalie Jackson Mendoza (China Doll), Lara Mulcahy
(Môme Fromage), David Wenham (Audrey), Kylie
Minogue (Fatina verde); musiche originali: Craig
Armstrong; fotografia: Donald McAlpine; montaggio:
Jill Bilcock; casting: Ronna Kress; effetti speciali:
Brian Cox; scenografia: Catherine Martin.
Bibliografia essenziale
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Musical, Bloomington-Indianapolis, Indiana University Press,
1987;
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Lo sguardo del cinema e l’esperienza della
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MICHEL CHION, L’audiovisione. Suono e
immagine nel cinema, Torino, Lindau, 20012;
NICHOLAS COOK, Analysing Musical Multimedia,
Oxford, Clarendon Press, 1998;
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Zürich, Universität Zürich-Musikwissenschaftliches
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Torino, Kaplan, 2006;
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American Musical on Stage and Screen, New York, Overlook Press,
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Musical. Das unterhaltende Genre, hrsg. von
Armin Geraths und Christian M. Schmidt, Laaber, Laaber Verlag, 2001
(Handbuch der Musik im 20. Jahrhundert, 6);
GISELA SCHUBERT, voce «Musical» in Die
Musik in Geschichte und Gegenwart. Allgemeine Enzyklopädie der
Musik begründet von Friedrich Blume. Zweite,
Neubearbeitete Ausgabe, hrsg. von Ludwig Finscher, 26 voll.,
Kassel-Basel-London-New York-Prag-Stuttgart-Weimar,
Bärenreiter-Metzler, 1994-2007, Sachteil, vol. VI, 1997, Sp.
688-710;
JOHN SNELSON – ANDREW LAMB, voce
«Musical» in The New Grove Dictionary of Music and
Musicians. Second edition, ed. by Stanley Sadie, 29 voll.,
London, Macmillan, vol. 17, 2001, pp. 453-465;
GRAHAM WOOD, Distant Cousin or Fraternal Twin?
Analytical Approaches to the Film Musical, in Cambridge
Companion to the Musical, ed. by William A. Everett and Paul R.
Laird, Cambridge, Cambridge University Press, 2002, pp.
212-230.
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