GIANMARIO BORIO, Riflessioni sul rapporto tra struttura e significato nei testi audiovisivi :: Philomusica on-line :: Rivista di musicologia dell'Università di Pavia

Contributo di Gianmario Borio

 

Riflessioni sul rapporto tra struttura e significato nei testi audiovisivi

 

 

Abbreviazioni

 

 

1. Morfologia della musica e del film

 

Sul piano teorico, le opere multimediali sono composte di tre dimensioni – immagine, parola e suono – che corrispondono ai materiali fondamentali di tre generi artistici: fotografia, romanzo e musica. In molte teorie questi materiali ovvero le modalità e le tecniche della loro manipolazione vengono definiti media e il termine ‘multimedialità’ rimanda alla compresenza di queste dimensioni.[1] Nella presente trattazione impiego il termine ‘medium’ per definire l’organizzazione di questi materiali in un insieme dotato di struttura e significato. Sul piano tecnico, un prodotto audiovisivo si articola invece su due dimensioni, che si manifestano in modo tangibile nei due livelli di registrazione della pellicola nel cinema sonoro pre-digitale: immagini e suono. La struttura della pellicola evidenzia il doppio carattere del cinema, quello di essere un’arte del tempo e insieme dello spazio – una novità nella storia delle arti che annuncia già di per sé il carattere eminentemente sinestetico di questo genere. In conformità con la prospettiva strutturalista, Casetti e di Chio hanno definito il film come un testo che, in quanto tale, è soggetto a interpretazione.[2] Il primo passo del processo ermeneutico è l’analisi delle strutture. Un’analisi metodologicamente corretta di un testo filmico può avvenire solo se si prendono in esame i due livelli che essi definiscono con i termini di linearità e stratificazione. I due autori accennano anche alla possibilità che questi livelli svolgano delle funzioni diverse, sebbene non rigidamente separabili, nella comunicazione audiovisiva: nella linearità si dispiega la logica di sviluppo, mentre la stratificazione gestisce il potenziale espressivo. Ciò comporta che l’analisi del testo audiovisivo è un’analisi complessa: l’esegeta ha a che fare simultaneamente con due piani strutturali (orizzontale e verticale) nonché con i modi del loro intersecarsi. Tale complessità può amplificarsi nelle diverse componenti elencate nella figura 1.

 

Figura 1

 

In quanto antecedente immediato delle opere multimediali, il film può essere considerato come paradigmatico per un iniziale approccio al testo audiovisivo. La dimensione lineare mette in evidenza i legami con la composizione musicale: anche nel cinema abbiamo a che fare con una successione temporale di eventi che acquisiscono senso e significato grazie alle loro relazioni e alla logica temporale. Nello studiare un’opera cinematografica si può individuare una morfologia delle immagini che ha qualche affinità con la morfologia musicale.[3] Come nella musica, anche nel film le singole unità occupano una posizione specifica il cui senso si spiega in base al decorso globale, alla totalità formale. La somiglianza dei due generi emerge nella constatazione che la totalità formale si articola in unità sintattiche che vanno dal valore più piccolo a quello più grande. Anche nella morfologia filmica si pone il problema di individuare con precisione l’unità più piccola: nella tradizione teorica della musica tonale essa viene definita motivo, nella teoria del film essa prende il nome di inquadratura. Tuttavia, se si considerano i linguaggi della musica occidentale precedenti e successivi alla tonalità, si nota che l’unità minima e imprescindibile è il suono singolo così come nel film è l’immagine singola o fotogramma. In campo musicale, la questione se il suono singolo vada considerato già un elemento sintattico o come un semplice fenomeno fisico dipende dai presupposti storici, stilistici, estetici e talvolta dal caso specifico in cui tale suono compare; una questione analoga potrebbe essere posta alla teoria del film, con l’aggravante che il fotogramma è un’unità che, sebbene sia reale sul piano costruttivo, non viene percepita nella fruizione normale. Vedremo come questa ambiguità può essere impiegata produttivamente nell’interpretazione delle opere audiovisive.

 

Prendiamo in considerazione la seguente ipotesi di analogie:

 

 

Film

Musica

Scena

Sezione

Sequenza

Tema

Inquadratura

Motivo

Immagine

Suono

 
   

 

L’immagine è il ‘grado zero’ del linguaggio visivo, così come il suono lo è per la musica. Questi due fenomeni rappresentano il punto di intersezione tra un materiale non ulteriormente qualificato e un fenomeno linguistico primordiale: come il compositore costruisce il suo lavoro connettendo suoni, così il regista compone le immagini. Suono e immagine sono senza tempo, membri potenziali di un insieme più ampio in cui si stabilisce un primo grado di significato. Solo in casi particolari il suono singolo assume valenza strutturale; lo stesso si può dire del singolo fotogramma. La teoria musicale definisce il motivo come un insieme di suoni, più precisamente una struttura in sé compiuta costituita da durate e altezze. Per la tecnica cinematografica l’inquadratura è il tempo intercorrente tra l’accensione e lo spegnimento della telecamera; in quanto messa in successione di un certo numero di immagini, essa costituisce un’insieme dotato di significato. In musica il tema è una struttura formata da diversi motivi, regolata da principi specifici e caratterizzata da unità e coerenza; la sequenza cinematografica è un insieme di inquadrature che possiede un’unità logica. La scena è un insieme di sequenze incentrato tematicamente e, secondo i princìpi dell’unità di tempo e d’azione, si svolge in un tempo determinato e con determinati personaggi. In corrispondenza, le sezioni (o parti) di una composizione musicale sono unità di grande ampiezza con funzioni precise; per esempio l’articolazione della forma sonata, struttura formale tipica dei primi movimenti di una sonata o di una sinfonia, si scandisce in quattro momenti: esposizione, sviluppo, ripresa e coda. Il sistema di corrispondenze che ho qui abbozzato va inteso come puramente orientativo: una tecnica come il montaggio alternato mostra quanto possa essere problematica la definizione di una scena in ambito cinematografico; analogamente, in musica, la durata e il peso delle sezioni possono variare e in alcuni casi assistiamo all’intersecarsi di strutture di per sé autonome. Mi sembra comunque sintomatico che lo schema di corrispondenze morfologiche sia tanto più plausibile quanto più si ha a che fare con il cinema narrativo e la composizione tonale; esso diventa invece problematico se si prendono in considerazioni opere delle prime fasi storiche oppure, al capo opposto, creazioni sperimentali.

Il principio formale della musica strumentale senza testo, che rappresenta il principale campo di indagine della teoria musicale dell’Occidente moderno, è di particolare interesse nel contesto di una teoria del testo audiovisivo perché tratta dell’organizzazione sintattica dei suoni. Esso mette in evidenza il rapporto tra la forma musicale e il carattere linguistico della musica, uno dei temi più dibattuti a partire da Eduard Hanslick. Tale questione ricorre nelle riflessioni dei compositori stessi – per esempio in Liszt negli anni fondativi della musica a programma o in Stravinskij per il neoclassicismo o ancora nei dibattiti sull’impegno politico dei compositori dopo la seconda guerra mondiale. Ancora oggi non vi è unanimità sulla questione se si debba parlare della musica alla stessa stregua del linguaggio verbale; questa indecisione è dovuta soprattutto all’assenza della funzione denotativa di suoni, motivi o strutture più complesse.[4] La questione si pone diversamente nel film, in quanto esso presenta segni e mezzi di denotazione abbastanza univoci, sebbene essi si combinino in testure più complesse e insieme più opache di quelle del linguaggio verbale. Casetti e di Chio individuano «cinque ordini di significanti: immagini, tracce scritte, voci, rumori e musica».[5] Le componenti dei cinque livelli corrispondono grosso modo a quelle indicate nella figura 1; tuttavia preferisco ripartirle diversamente, dal momento che i due campi dell’immagine e del suono rappresentano i contenitori funzionali di tutti gli altri elementi. I due autori danno per scontato che la musica rappresenti un ordine di significato paragonabile ai precedenti, ma dal punto di vista semiotico ciò non è del tutto corretto: immagini, scrittura, parole e rumori sono sempre interpretabili come referenti di oggetti, persone, situazioni, azioni o stati d’animo; la musica strumentale è priva di questa funzione denotativa o perlomeno non la possiede ab ovo. Un’osservazione circostanziata del sistema di produzione e ricezione della musica d’arte dell’Occidente porta quasi sempre alla conclusione che la referenza viene attivata prima o dopo l’esecuzione della musica: prima nell’immaginazione del compositore, dopo nell’interpretazione dei fruitori. Dunque il campo semantico è soggetto a forti oscillazioni, di portata non paragonabile a quelle che avvengono nei processi di ricezione delle arti rappresentative. Una volta trasferita nel cinema, la musica viene sottoposta a un processo di semantizzazione; proprio in virtù del fatto che il radicamento nel significato è esibito dal mezzo stesso, lo studio della musica nel film è stato riconosciuto da alcuni musicologi come un campo di esercitazione delle pratiche ermeneutiche.[6]

 

2. Significato della musica e sua trasformazione nei media audiovisivi

 

Il dibattito se la musica contempli il rapporto tra segno e significato riproduce in nuova veste quello tra formalisti e contenutisti. La posizione formalista viene incontro a un punto di vista assai diffuso, pur se con accenti diversi, negli studi sulla musica nel cinema o più specificatamente sulle composizioni scritte appositamente per film: il centro propulsore del significato risiede, secondo questa prospettiva, nell’immagine oppure nel nesso di testo e immagine; la musica, in quanto arte asemantica, avrebbe la funzione di rafforzare, integrare o ampliare tale campo di significati; al limite la si potrebbe paragonare a un dispositivo di aggiustamento o focalizzazione, dovendo in ogni caso escludere che essa sia in grado di istituire un significato autonomo o anche solo uno strato del significato.[7] Per questa teoria, considerata nella sua forma più radicale, la dimensione visiva e quella acustica sono due sfere di principio separate e la trama del testo audiovisivo viene concepita in senso additivo, cioè come accumulazione di strati.

La posizione opposta parte invece dall’esistenza della funzione di referenza nella musica, indipendentemente dal momento in cui essa viene attivata, fissata, condivisa, ridefinita o decostruita. Essa argomenta a partire dalla semplice constatazione che, nella cultura musicale dell’Occidente, il suono organizzato (la composizione) ha sempre provocato lo sforzo interpretativo e messo in atto processi di semiosi. Pertanto, anche se il significato della musica è fluido, variabile e sfuggente, esso esiste in qualche luogo o momento; per converso, non esiste musica in questa cultura che sia priva di significato. Questo insieme di osservazioni ha conseguenze importanti per una teoria dell’opera multimediale, in quanto rende plausibile l’ipotesi del formarsi di un significato globale a partire dall’interazione dei media. Questa ipotesi può essere praticata solamente se si tiene conto del suo correlato: sul piano comunicativo non esiste di principio una gerarchia tra le componenti del testo audiovisivo. L’esame comparato di diverse forme di multimedialità – cartone animato, pubblicità televisiva, videoclip, film sperimentale – può confermare la duplice conclusione a cui siamo giunti. Probabilmente essa ha assunto plausibilità anche grazie alle sollecitazioni di una coscienza avvezzatasi ai sistemi digitali, i quali permettono una gestione unitaria e centralizzata di suoni e immagini.

La classificazione delle componenti secondo l’ordine della precisione semantica – prima la parola, poi l’immagine e infine la musica – mostra carenze se si tiene conto dei seguenti fatti: le tre dimensioni occupano posizioni differenti nella struttura multimediale (che, come abbiamo visto, può essere ridotta a due contenitori principali); la dimensione dell’immagine e quella del suono sono a loro volta internamente articolate e pertanto disponibili a diverse forme di gerarchia interna. Questo significa che la gerarchia dei media non è un dato di fatto ma una questione che dipende dal progetto estetico di chi sta creando un’opera multimediale. Fino a che grado ogni componente debba essere articolata, se una di esse debba essere privilegiata, a che livello debba giungere la loro coesione – tutto questo ha a che fare con il livello di complessità che l’artista vuole raggiungere – rientra cioè nelle questioni estetiche che devono essere affrontate da chi analizza un testo audiovisivo.

È evidente che il musicologo, quando prende in esame opere multimediali, è spinto a porre nuovamente la questione del significato musicale collocandola a livello diverso rispetto alle sue precedenti esperienze scientifiche. Nicholas Cook sostiene che la sfera multimediale offre una prospettiva particolare e favorevole per studiare il formarsi del significato musicale; infatti qui la musica si trova proiettata, talvolta immessa a forza, in una rete di significati a essa estranea. Dalla relazione che la musica stabilisce con gli altri media si origina o ‘si costruisce’ un significato.[8] La trama multimediale rappresenta per Cook un modello epistemologico che permette di localizzare e valutare gli stadi di un processo ermeneutico che può avvenire anche al di fuori dei contesti multimediali.

Non diversamente da Cook, Lawrence Kramer ritiene che il significato musicale non sia una proprietà intrinseca della musica bensì un costrutto sociale.[9] La costruzione del significato avverrebbe mediante un transfert intermediale che è riscontrabile anche nella più consueta attività di analisi o critica musicale. Queste attività implicano infatti la chiamata in causa di un altro medium: la parola. La tesi di fondo delle trattazioni di Cook e Kramer parte dunque dal presupposto che la parola interpretante vada considerata come un medium alla stessa stregua dell’oggetto analizzato. Questa premessa è contestabile. Nell’indagine su un testo audiovisivo, come in ogni processo di interpretazione di opere d’arte, la parola interviene in funzione ermeneutica e non artistica; essa svolge cioè mansioni diverse da quelle svolte in un’opera teatrale o in una poesia. La sovrapposizione, in certo modo anche confusione, di due distinte sfere di azione emerge con chiarezza quando, per rafforzare la sua argomentazione, Kramer cita il concetto di applicazione di Hans-Georg Gadamer:

Esplorando la concezione che la musica è in gran parte prodotta in associazione all’immagine-testo e che ogni musica può essere adottata per un uso intermediale, è possibile ridefinire l’intera questione del significato musicale. La chiave di questa ridefinizione è il processo che Gadamer chiama applicazione, il trasferimento del significato da un quadro di riferimento a un altro […] Diversamente dai testi o dalle immagini che sembrano ‘avere’ significato indipendentemente dalle circostanze, la musica tende a ‘ricevere’ il significato (sul piano semantico non formale) solo nel processo dell’applicazione, cioè come effetto dell’essere applicato a testi o immagini. Per questo il confine tra musica e immagine-testo è importante. La musica è l’arte che mette in questione il significato; per questo il suo significato è sempre in questione. Tuttavia, poiché la musica fa costantemente ‘asserzioni’ e accompagna ‘visibilità’, essa assume costantemente significato. Quando la musica non si combina letteralmente con l’immagine-testo di altri media estetici (poesia, teatro, danza fino a film e video), segue mediazioni verbali o visive per informare rituali sociali e religiosi, festeggiamenti, storie d’amore, o la musicalizzazione improvvista del quotidiano.[10]

 

In questo ragionamento si scorge una serie di problemi la cui risoluzione può aiutarci a porre la questione circa il senso e il significato della musica su una nuova e più sicura piattaforma. Innanzitutto, nel definire l’applicazione come «trasferimento del significato da un quadro di riferimento a un altro», Kramer travisa uno dei momenti cruciali di Verità e metodo, il capitolo centrale della sezione «Elementi di una teoria dell’esperienza ermeneutica».[11] Qui Gadamer, riallacciandosi all’ermeneutica teologica e giuridica, ripristina l’unità di subtilitas intelligendi (comprensione), subtilitas explicandi (esegesi) e subtilitas applicandi (applicazione). In un primo stadio, il filosofo stabilisce l’unità di comprensione e spiegazione, dichiarando il linguaggio come momento fondante del comprendere. In un secondo stadio, egli constata che la spiegazione di un testo avviene sempre nell’orizzonte del presente e non può prescindere dalla situazione storico-esistenziale dell’interprete: il processo ermeneutico risulta monco là dove non vi sia applicazione. Spiegare significa infatti adattare il senso del testo alla situazione concreta da cui è partita l’esigenza del suo chiarimento. Pertanto il linguaggio non è un medium accanto ad altri ma il luogo privilegiato, anzi unico, in cui avviene l’esegesi. Questo non vale solo per i Libri della Legge e la Bibbia, ma anche per la comprensione dei prodotti artistici.

Un secondo aspetto problematico nell’argomentazione di Kramer è la confusione tra semantica ed ermeneutica, due sfere che – come mise in rilievo Gadamer in un testo successivo a Verità e metodo[12] sono contigue e coessenziali nell’esperienza del linguaggio, ma non equivalenti. Mentre l’analisi semantica di un testo mira all’individuazione del significato al livello della comunicazione oggettiva, l’indagine ermeneutica cerca di individuare il non detto dietro il detto, l’insieme delle motivazioni e reazioni che hanno provocato l’atto linguistico, cerca cioè di trovare la ‘domanda’ rispetto a cui il testo rappresenta una ‘risposta’. L’analisi semantica definisce le parole e i concetti mediante operazioni di sostituzione; compito dell’ermeneutica è invece quello di interpretare, di ricostruire l’orizzonte di senso sullo sfondo del quale si possono cristallizzare tali significati. La distinzione tra queste due sfere permette di relativizzare la netta opposizione, postulata da Kramer, tra ‘avere’ e ‘ricevere’ significato; infatti in ogni atto linguistico, in particolare in ‘testi eminenti’ come quelli della letteratura o delle arti, l’ ‘avere significato’ è possibile solamente grazie a un ‘ricevere’, un inglobare nell’espressione una rete di rimandi che non sarà più percettibile all’atto della comunicazione. Nel trasferimento delle strutture non significanti della musica nel contesto significante di immagine-testo non si può dunque reperire quella funzione probante della significazione che Kramer gli attribuisce; il suo valore risiede piuttosto nell’essere una sorta di ‘messa in scena’ del significato musicale, di esposizione dei processi.

Infine, Kramer assolutizza sul piano teorico la circostanza che l’intermedialità è la «forma primaria della musica sia storicamente sia epistemologicamente»,[13] che cioè la musica strumentale come oggetto di contemplazione, scissa dall’ambiente circostante, rappresenta un fatto storicamente e geograficamente limitato. Da questa osservazione egli deriva un’esigenza implicita della musica di associarsi alle arti rappresentative o a contesti sociali; questo movimento verso l’altro sarebbe spiegabile come mezzo di cui la musica si serve per recuperare quel significato che sembra provenire da essa ma, in realtà, risiede altrove. Il passo successivo è ovviamente quello di attribuire una ‘priorità semantica’ al contesto di immagine-testo e di considerare la musica come «forza dinamica nella creazione intermediale»,[14] come un’energia che consolida il campo semantico ma non contribuisce in alcun modo a istituirlo. In questa distinzione di ruoli si ripropone la gerarchia, che abbiamo constatato in molte teorie della musica nel cinema, tra le dimensioni propriamente semantiche (immagine e parola) e quelle subordinate (suono e musica). Per evitare ciò conviene sottoporre a un più attento esame l’ipotesi che Kramer ha scartato: che un pezzo di musica strumentale possa avere assorbito nel processo di ricezione strati di significato che possiedono un certo grado di oggettività in quanto sono tramandati da generazione a generazione, da popolo a popolo, e si sono sedimentati nell’opera come se le appartenessero ab origine. Ho cercato di illustrare questa ipotesi in un precedente interevento, dedicato all’impiego che Stanley Kubrick fece dell’Andante con moto del Trio D 929 di Franz Schubert.[15]

 

3. Catene sintattiche e trasformazioni semantiche

 

Dalla breve ricognizione sull’assetto delle opere multimediali è emerso che le dimensioni dell’immagine e del suono sono articolate in maniera omologa; entrambe sono costituite di elementi sintattici a diversi livelli e analizzabili con una segmentazione temporale. Viene immediatamente da chiedersi se tale doppia stratificazione riguardi anche il campo semantico, se cioè le due dimensioni dispieghino dei decorsi semantici che sono in parte autonomi e in parte correlati. Tale domanda ha ovviamente senso solo se si ritiene che la musica, nel momento in cui entra a fare parte della struttura multimediale, sia già provvista di significato; sarebbe invece fuori luogo se si avesse la certezza che l’intero significato sia depositato nell’insieme di immagine-testo e che la musica abbia la funzione di conferire energia o un timbro espressivo a questo significato. Un segnale nella direzione che mi sembra giusta proviene dai casi in cui l’autore di un testo audiovisivo attinge a una musica preesistente. Egli opera la sua scelta in vista di un determinato risultato e sulla base di un progetto comunicativo le cui origini probabilmente si situano prima della messa a punto di immagini e parole. Bisogna cioè presupporre un campo di significati generale, di cui la musica è o sarà parte integrante. La scelta del regista o dell’artista multimediale cade su un brano particolare, che di principio è insostituibile; questa musica deve avere in sé almeno una traccia del significato generale.

Le stratificazioni del testo audiovisivo, che ho cercato di rappresentare nella figura 1, mostrano che la situazione è ancora più complicata. Nella prospettiva multimediale, il rapporto tra immagine e musica, centrale per lo studioso di musica nel cinema, appare come uno dei numerosi rimandi possibili tra le componenti in gioco. La musica è un aspetto, importante ma specifico, di un complesso più ampio che nel cinema si chiama colonna sonora e che qui designerò semplicemente con il termine ‘suono’. In diverse occasioni didattiche, precedenti alla stesura del presente lavoro, ho usato il termine inglese sound per due ragioni: per distinguere questa dimensione dal suono strumentale o vocale che rappresenta l’elemento fondamentale, non ulteriormente scindibile, dell’arte musicale e per sottolineare il fatto che il suono è registrato su supporto elettronico. Quest’ultimo aspetto è fondamentale innanzitutto perché evidenzia una serie di corrispondenze con l’ambito dell’immagine. Con l’affermarsi della cinematografia, che rappresenta il punto di riferimento privilegiato di una teoria dell’arte multimediale, l’immagine è primariamente fissata, manipolata e conservata mediante strumenti elettronici; l’insieme di tecniche e procedimenti, che presiedono alla sua messa in opera, viene impiegato anche per il suono. Le due dimensioni sono dunque correlate grazie all’analogia (e in certi momenti identità) dei procedimenti tecnici con cui vengono trattate. L’impiego di questi mezzi richiama inevitabilmente una delle acquisizioni principali della musica elettronica, cioè la scoperta che il suono singolo è a sua vola risultato di un’addizione di elementi parziali. Tale unità del molteplice è proiettata su vasta scala nella dimensione sonora del testo audiovisivo: il suono è una mistura di suoni.

All’organizzazione plurima dell’immagine – in senso ‘verticale’ – corrisponde dunque un’organizzazione plurima del suono. L’autore o gli autori di un’opera multimediale si trovano di fronte un vasto campo di possibilità: alcune componenti possono essere attivate o lasciate inerti, correlate o svincolate, disposte in gerarchie o messe in relazione paritetica, le gerarchie possono essere fisse o variabili, e così via. Le scelte vengono compiute in relazione al progetto comunicativo e alle esigenze di complessità estetica. In rapporto al cinema, è stato osservato che la catena sintattica dell’immagine è coerente e continuativa, mentre quella del suono è frammentaria e discontinua.[16] Tuttavia questa complementarità, strettamente legata a un’impostazione narrativa, è una delle varie possibilità del testo audiovisivo. Nei film sperimentali, ma anche in molte pubblicità e nei videoclip dei nostri giorni, la dimensione dell’immagine è organizzata secondo catene sintattiche discontinue e unità disomogenee, che talvolta si pongono anche in contrasto con la continuità della musica. In alcuni casi si capovolge un rapporto che sembra quasi naturale: è la colonna sonora a rappresentare un decorso coerente, fruibile di per sé, mentre il senso dell’immagine appare incompleto o difficilmente afferrabile.

Che non si possa postulare una gerarchia naturale tra immagine, parola e suono è un convincimento che condividono anche Nicholas Cook e Michel Chion: il primo parla di ‘trattativa’, il secondo di ‘contratto’ tra i media.[17] Questa prospettiva ha un significativo corrispondente sul piano del processo creativo: l’autorialità plurima o anche semplicemente la stretta collaborazione tra diversi soggetti e la messa a disposizione di competenze specifiche rappresentano fenomeni sociali che, almeno a livello astratto, sono regolamentati da una sorta di contratto. Tuttavia la ripercussione rilevante per il nostro contesto è quella che avviene sul piano teorico: l’idea del contratto tra i media implica la possibilità di ridefinire ogni volta la quantità di elementi da impiegare e i loro rapporti di subordinazione. Si produce una varietà che può essere ordinata a seconda dei generi, degli stili e degli obiettivi estetici. In ultima istanza, ogni testo audiovisivo presenta una configurazione specifica e irripetibile delle dimensioni in gioco.

Nell’interpretazione di un’opera multimediale non si deve perdere di vista il campo di relazioni simultanee; la sintassi non si limita infatti alla logica di successione degli eventi su una dimensione, ma è un fenomeno complesso che riguarda sia il tempo che lo spazio. Sul piano semantico la situazione si presenta in certo modo analoga, sebbene non vadano trascurate le differenze. Poc’anzi accennavo al fatto che il concetto di significato impiegato dall’ermeneutica coincide solo in parte con quello della semiotica; il testo audiovisivo si inserisce in quel campo che Gadamer definiva ‘testi eminenti’, cioè testi caratterizzati da una mescolanza di rimandi espliciti e impliciti, testi il cui significato va al di là della riproduzione del reale e si collega a una pretesa di validità.[18] Lo studio dei film di autore ha dimostrato che l’evidenza semantica delle immagini o del copione è illusoria e che al di sotto di questa superficie si cela spesso un campo di significati più complesso e talvolta meno univocamente definibile. Chi comincia a percorrere la rete semantica di un testo audiovisivo, si rende pienamente conto delle operazioni necessarie per esplicitare il non evidente e della continua oscillazione dei significati. L’alta complessità e variabilità è inversamente proporzionale all’immediatezza dell’impatto delle creazioni multimediali: esse ci coinvolgono senza che sappiamo definire esattamente perché.

Prima ancora di stabilire un’interazione con i fruitori, l’opera multimediale è un sistema di interazioni interne. Le dimensioni si influenzano a vicenda o, più precisamente, nell’accostarsi determinano trasformazioni semantiche: il significato di un’immagine viene modificato quando le si proiettano sopra delle scritte o la si combina con dei suoni; viceversa, un pezzo di musica assume un significato diverso quando è abbinato a un’immagine o a una sequenza. Nel proporre una teoria del significato contestuale della musica – che però perde forza appena si allontana dalla sfera multimediale –[19] Cook ha avuto il merito di alleggerire chi analizza testi audiovisivi dal peso di una vana ricerca del significato originario della musica: la volontà del compositore, l’interpretazione dei primi ascoltatori o di quelli più competenti, una fondazione ontologica dei segni musicali e così via. Prima di entrare a fare parte della trama audiovisiva, la musica viene estratta dal suo contesto originario e dunque parzialmente alienata dal suo significato; quando viene inserita nella trama, essa comincia a operare trasformazioni semantiche. Questo vale anche per la musica appositamente scritta in vista della produzione multimediale; l’intenzione di chi compone, e talvolta partecipa al progetto estetico nel suo insieme, rappresenta l’impulso iniziale di una catena di trasformazioni che si determinano in modo puntuale nella tangenza degli elementi.

 

 

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[Bio] Gianmario Borio, professore ordinario presso la Facoltà di Musicologia dell’Università di Pavia, ha pubblicato saggi su musica del XX secolo, processo compositivo, storia della teoria ed estetica musicale. Negli anni 1991-1992 ha usufruito di una borsa della Alexander von Humboldt Stiftung (Università di Freiburg i.Br.). Nel 1999 la Royal Musical Association gli ha conferito la Dent Medal. È membro del comitato di redazione delle riviste Il Saggiatore Musicale e Acta Musicologica. È coordinatore nazionale del progetto di ricerca interuniversitario Storia dei concetti musicali e responsabile della sezione italiana dello European Network for Musicological Research.

E-mail: gianmario.borio@unipv.it

Gianmario Borio, Professor of Musicology at the University of Pavia, has published on the music of the 20th Century, the compositional process, and the history of music theory and aesthetics. In 1991-1992, he was an Alexander von Humboldt Fellow at the University of Freiburg; in 1999, he received the Dent Medal from the Royal Musical Association. He is a member of the editorial boards of Il Saggiatore Musicale and Acta Musicologica. He is the director of a research project on the History of Musical Concepts, in which several Departments of Italian Universities are involved, and of the Italian section of the European Network for Musicological Research.

[1] La definizione ‘opera multimediale’ si riferisce qui ad artefatti audiovisivi che rivestono interesse estetico. Il concetto di opera non è inteso nel senso enfatico che esso ha assunto nei discorsi sulla musica a partire dal Romanticismo (cfr. la sezione dedicata a questo concetto in Storia dei concetti musicali, vol. 2: Espressione, forma, opera, a cura di Gianmario Borio e Carlo Gentili, Roma, Carocci, 2007, pp. 235-353) bensì nel senso generale di fonte di una comunicazione primariamente estetica. Sulle problematiche della multimedialità artistica cfr. GIANMARIO BORIO – SARA GENNARO, Multimedialità e metamorfosi del concetto di opera, in ibid., pp. 335-353.

[2] Cfr. FRANCESCO CASETTI – FEDERICO DI CHIO, Analisi del film, Milano, Bompiani, 2004.

[3] Sulla morfologia musicale cfr. GIANMARIO BORIO, La concezione dialettica della forma musicale da Adolf Bernhard Marx a Erwin Ratz. Abbozzo di un decorso storico, in Pensieri per un maestro. Studi in onore di Pierluigi Petrobelli, a cura di Stefano La Via e Roger Parker, Torino, EDT, 2002, pp. 361-386; ID., Forma come sintassi o come energia. La morfologia musicale dopo Beethoven, in Storia dei concetti musicali, vol. 2, pp. 191-211.

[4] Cfr. per esempio JEAN-JACQUES NATTIEZ, Musica e significato, in Enciclopedia della musica, diretta da Jean-Jaques Nattiez con la collaborazione di Margaret Bent, Rossana Dalmonte e Mario Baroni, vol. 2 (Il sapere musicale), Torino, Einaudi, 2002, pp. 206-238.

[5] CASETTI – DI CHIO, Analisi del film, cit., p. 57.

[6] Cfr. NICHOLAS COOK, Analysing Musical Multimedia, Oxford, Claredon Press, 1998; LAWRENCE KRAMER, Musical Meaning: Toward a Critical History, Berkeley, University of California Press, 2001.

[7] Cfr. SIEGFRIED KRACAUER, Teoria del film, Milano, Il Saggiatore, 1995; ZOFIA LISSA, Ästhetik der Filmmusik, Berlin, Henschen, 1965. Anche se per molti versi distante, la tesi del ‘valore aggiunto’, proposta da MICHEL CHION in L’audiovisione. Suono e immagine nel cinema, Torino, Lindau, 2001, si riallaccia a questa tradizione.

[8] Cfr. NICHOLAS COOK, Theorizing Musical Meaning, «Music Theory Spectrum», XXIII/2, 2002, pp. 170-195.

[9] Cfr. KRAMER, Musical Meaning, cit., pp. 163-166.

[10] Ibid., p. 147.

[11] Cfr. HANS-GEORG GADAMER, Verità e metodo, a cura di Gianni Vattimo, Milano, Fratelli Fabbri editori, 1972, pp. 358-395.

[12] Cfr. HANS-GEORG GADAMER, Semantik und Hermeneutik [1968], in ID., Gesammelte Werke 2. Hermeneutik 2, Tübingen, Mohr, 1993, pp. 174-183.

[13] Cfr. KRAMER, Musical Meaning, cit., pp. 146-147.

[14] Ibid., p. 151.

[15] GIANMARIO BORIO, L’«Andante con moto» del Trio op. 100 di Schubert nella scena 26 di Barry Lyndon, in Quarto seminario di filologia musicale. Esperienze di lavoro, «Philomusica on-line», 5, 2004-2005 (http://philomusica.unipv.it/annate/2004-5/intro.html).

[16] Cfr. CHION, L’audiovisione, cit., pp. 45-47.

[17] Cfr. COOK, Analysing Musical Multimedia, cit., p. 23 e CHION, L’audiovisione, cit., pp. 23-31.

[18] Cfr. HANS-GEORG GADAMER, Text und Interpretation [1983], in ID., Gesammelte Werke 2, cit., pp. 330-360.

[19] Mi riferisco all’applicazione del modello sviluppato in Analysing Musical Multimedia all’interpretazione della Nona Sinfonia di Beethoven (cfr. COOK, Theorizing Musical Meaning, cit., pp. 184-189).

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