Recensione a cura di
Daniele Carnini
MARCUS CHR. LIPPE, Rossinis «opere
serie». Zur musikalisch-dramatischen Konzeption,
Stuttgart, Franz Steiner, 2005, «Beihefte zum Archiv für
Musikwissenschaft» 55, 369 pp.
L’analisi delle strutture operistiche è
stata più o meno negletta fino a tutti gli anni Sessanta del
secolo scorso. Si cominciò proprio con un’opera seria di
Rossini (Tancredi), la struttura del cui finale fu argomento per un
saggio di Philip Gossett («The candeur virginale of
Tancredi»); a questo filone si saldò quello della
«solita forma» (formulazione di Harold Powers, talmente
nota che non ci prendiamo la briga di spiegarla). Arriva ora questo
libro, ambizioso nel dettato e nel titolo.
Lippe parte da un presupposto condivisibile: non
esiste uno studio analitico globale sulle opere serie di Rossini,
necessario invece per comprendere meglio gli sviluppi
dell’opera italiana nella prima metà
dell’Ottocento (10-11; è strano però che pur
citando in bibliografia il libro di Daniela Tortora Drammaturgia
del Rossini serio Lippe non senta il bisogno di discuterne gli
esiti). L’introduzione delimita così il campo e mette
sul tavolo gli argomenti preferiti di Lippe. Per esempio:
l’assenza di uno “sviluppo” univoco di Rossini
attraverso gli anni; le differenze di pubblico in Italia;
l’influsso francese a cominciare dal “trasporto”
del colpo di scena all’interno del numero chiuso (dal
recitativo). Quel che più conta, Lippe dà per assodata la
«solita forma»: «als Strukturmodell diente die
“solita forma” dabei unter nur geringfügigen
Abweichungen, wie näher auszuführen sein wird, für
sämtliche Formen geschlossener Nummern, für Duette und
größere Ensembles ebenso wie für finali primi und
– mit zum Teil größeren Divergenzen –
für die Arie, in der die Herkunft aus dem älteren
Strukturprinzip cantabile – cabaletta am längsten
ablesbar bleibt» (20).
In questo libro sono difatti presenti tutte le
idées reçues della tradizione solito-formista, tanto da
intitolare un paragrafo più avanti «“La solita
forma” – ein normativer Szenentypus» (62).
Naturalmente siamo ancora (sostanzialmente) al sunnominato saggio
di Gossett del 1973 con le sue alternanze di movimenti cinetici e
statici. Alla fine dell’introduzione Lippe sostiene che il
risultato dell’analisi stia nel mostrare «ob die
Möglichkeit der “solita forma” zur Dramatisierung
der Szene genutzt wird, und, wenn ja, auf welche Art und Weise die
musikalisch geschlossene Form von dramatischen Leben durchdrungen
wird» (21).
Lippe ammette la necessità di conoscere le opere
dei contemporanei di Rossini (22-23; ne cita alcune alla nota 31).
Apriamo un inciso: tale necessità in punto di principio è
ammessa da molti. Ma poi è stato veramente affrontato il
corpus in modo da trarne le conseguenze? L’analisi dei lavori
in questione non avviene coram populo: perché le opere non
vengono escusse, solo citate, a parte alcuni casi. Ma le opere
citate sono rappresentative? E anche se lo fossero, non sarebbe
stato meglio concentrarsi su quelle immediatamente precedenti, per
capire come il «congegno fondamentale» della «solita
forma» (parole di Lorenzo Bianconi) si sia generato? E
inoltre, perché nessun esempio musicale è stato tratto da
opere sconosciute? E non vale solo per i poco noti antecessori e
contemporanei del Pesarese: praticamente gli esempi musicali
rossiniani vengono solo da opere di cui esiste l’edizione
critica (e forse sarebbe stato meglio il contrario).
Lasciataci alle spalle l’introduzione
addentriamoci nel volume, diviso in due parti. La prima
(«Gattungshistorischer Kontext: zu librettistischen und
musikalischen Konventionen in der italienischen Oper im primo
Ottocento») dovrebbe fornire l’indispensabile contesto
all’esperienza rossiniana. Questa parte è divisa in due
capitoli: «Librettokonvention» e «Zur Konvention
musikalischer Form in der italienischen Oper um 1815».
Il primo prende come esempio la «genesi
esemplare» (alla luce delle convenzioni dell’epoca) di
Otello, che rimane forse l’opera più esaminata
nell’intero libro. Ha il solo “difetto”, se
così possiamo dire, di parlare di cose che oramai si possono
dare per assodate, ossia la diversa drammaturgia dell’opera
italiana rispetto al teatro, e la funzionalità di libretti che
parevano fino a poco tempo fa un fastello di assurdità, come
quello di Berio per Otello.
Il secondo parla quasi esclusivamente della
«solita forma», punto specialmente importante di cui
tratteremo più avanti.
La seconda parte si intitola «Rossinis opere
serie in musikalisch-dramatischen Einzelanalysen», ed è
divisa in tre capitoli che per così dire
“saggiano” le forme rossiniane in tre modi diversi.
Il primo capitolo traccia le «tendenze di
sviluppo strutturali» in cinque ulteriori suddivisioni: il
terzo atto di Mosè, il terzo atto di Otello, i rifacimenti di
Mosè, i duetti, e alcuni ensemble «esemplari». Di
Mosè e di Otello Lippe mette in luce (giustamente) i fattori
unificanti e “progressivi”, con un’attenzione
forse eccessiva ai fattori motivici e armonici, sempre
rischiosamente evocati quando si tratti di opera italiana. Possiamo
solo eccepire sulla semplificazione delle linee di tendenza nella
storia delle composizioni di Rossini: è chiaro che il
superamento o quantomeno l’integrazione della logica del
numero chiuso sono visti da Lippe come fattori drammatizzanti e
dunque positivi. Ma è sicuramente vero che il pezzo
d’assieme con Rossini aumenta di peso, così come i
numeri si riducono, passando da venti o venticinque a poco più
di una dozzina. Quel che non convince, al solito, ad esempio in
un’analisi che è un po’ scolastica ma non
sbagliata sul Terzettone di Maometto II, è il riferimento alla
norma violata, al fatto che «Hier [nel Terzettone] scheint die
“übliche” Form allerdings in ihrer
herkömmlichen, fest umrissen Formelhaftigkeit kaum noch
Gültigkeit zu haben». Lippe si sorprenderebbe meno se
avesse in mente gli esempi molto più flessibili di opera
italiana dell’inizio Ottocento. Già Mayr, citato
così tante volte da Lippe, in più d’un’opera,
come negli sfortunati Tamerlano e nell’Atar, aveva introdotto
non solo elementi “realistici” o esterni alle
(cosiddette) convenzioni, ma aveva – cosa che più
importa – portato a dimensioni prima ignote i numeri
chiusi.
Il secondo capitolo si occupa dell’introduzione
e delle sue tendenze all’ingrandimento, anche lì con
delle analisi per così dire “singolari”, ossia
lavoro per lavoro. Secondo Lippe, e lo ribadirà in
conclusione, l’introduzione è meno normativa dei finali
e di altri pezzi dell’opera, dunque lascia più
libertà al compositore.
Poi il capitolo ultimo e più impegnativo, a
proposito dei finali centrali, vera crux dell’analisi
operistica. I finali delle opere, specie quelli delle opere
napoletane, vengono analizzati uno per uno, drammaturgia e musica,
con uno schema riassuntivo alla fine di ogni trattazione.
Sintetizziamo e parafrasiamo le conclusioni. Nel
mutamento del «dramma per musica» in «melodramma
serio» il dramma e la musica si compenetrano sempre di
più; e se il mutamento comincia alla fine del Settecento,
è attorno al 1815 che si realizza, si compie, con
l’anticipo di Tancredi. Alcune tendenze preesistono
all’imporsi di Rossini, come la riduzione
dell’ammontare complessivo dei numeri chiusi, l’aumento
dei versi lirici in rapporto ai versi sciolti e l’abbandono
del recitativo semplice (dovuto all’influsso francese).
Inoltre, grazie soprattutto a Rossini, l’ampliamento dei
numeri stessi in «scene musicali». Rossini ricorre da
Tancredi in poi (e in modo «strikt») alla struttura che
verrà chiamata più tardi «solita forma»; la
quale meglio di ogni altra struttura, nella sua alternanza di
momenti statici e cinetici, rispecchia l’influsso
dell’azione drammatica sulla forma musicale. Se non
l’ha creata Rossini, è lui che ne fa un modello cogente.
La «solita forma» è il miglior modello possibile per
incrociare fattori drammatico-testuali e musicali. Altri influssi
dell’opera francese sono l’introduzione della couleur
locale, e una enfasi del coup de théâtre. Rossini è
colui che fa una summa di queste innovazioni e le introduce nello
stile italiano. L’introduzione – meno
“normativa” del finale centrale – diventa un
«cavallo di battaglia», libero da costrizioni; la
concezione musico-drammatica di Rossini vi rifulgerebbe più
che nei duetti o nelle arie.
Infine, nonostante la disparità di luoghi, di
tempi, è l’individualità del compositore a
emergere: le opere scritte fuori da Napoli non sono per niente
“regressive”. L’ultima parola è
sull’influsso di Rossini: che sarebbe una (non meglio
specificata) attualizzazione musico-drammatica, e una
«musikalische [corsivo suo] Begründung dramatischen
Geschehens», fondamentale per le sorti del melodramma
serio.
Le conclusioni sono piuttosto vaghe, soprattutto
quando si parli di una specie di inveramento della struttura
drammatica in quella musicale, perché non esiste una struttura
drammatica a priori, né l’opera metastasiana è meno
teatrale di quella rossiniana, o quella rossiniana a sua volta meno
di quella pucciniana. Per il resto sono condivisibili in gran
parte. Premettiamo dunque che non mancano i pregi, in questo libro.
Innanzitutto Lippe non perde mai il contatto con i libretti
(benché non citi Felice Romani librettista di Roccatagliati,
libro diremmo imprescindibile, o quantomeno da discutere, quando si
affronti l’opera del periodo). Poi non azzarda mai ipotesi
immotivate. Inoltre si è preoccupato del repertorio
precedente, discutendone alcuni casi, e non solo dal punto di vista
librettistico. In genere, però, è un volume troppo
approfondito per essere un manuale o un prontuario, e un po’
troppo didascalico per fornire un’impostazione nuova
sull’argomento.
Il nostro dissenso si fa più acuto per via del
materiale scelto da Lippe per il libro, ossia le opere di cui si
occupa. Demetrio e Polibio viene esclusa dal corpus,
discutibilmente, visto che nonostante la genesi accidentata
presenta un esempio di finale in un solo movimento unico in
Rossini, ma frequente in altri compositori. Idem per Ciro in
Babilonia, benché sia perfettamente assimilabile a
un’opera seria. Ma forse la questione è ancora più
generale, e comincia dal titolo stesso: lasciar fuori le opere non
serie, anche se si giustifica con la necessità di ritagliare
una parte del repertorio, fa soffrire il libro. Parlare di Ermione
e Ricciardo e Zoraide piuttosto che dell’Italiana in Algeri o
del Barbiere falsa la visuale, proprio se accettiamo come Lippe
– e chi scrive condivide questo punto di vista – la
contiguità di stile tra buffo e serio in Rossini (pensiamo
alla straordinaria reviviscenza del genere semiserio-lagrimevole
della Gazza ladra); e nuoce soprattutto se si vogliano trarre delle
conclusioni a lunga gittata sull’opera italiana in generale.
È evidente poi che c’è nel volume una
focalizzazione eccessiva sul Rossini napoletano. Basta paragonare
lo spazio nel capitolo dedicato ai finali: ventisette pagine per
sei opere “non-napoletane”; cinquantanove per le otto
opere napoletane. Ma il Rossini di Napoli non fu quello più
eseguito in Italia e nel mondo.
Strettamente legata a questa è la quaestio della
divisione «progressivo» contro
«non-progressivo»; la leggiamo in filigrana in questa
frase: «Rossini komponierte das melodramma tragico Semiramide
bekanntlich mit einem auf dem Gebiet der opera seria über
einen Zeitraum von zehn Jahren gesammelten Erfahrungsschatz. Mit
dem Teatro La Fenice als Uraufführungsort kehrte er an ein
Theater zurück, dessen Publikum zwar im Vergleich zu seiner
langjährigen Wirkungsstätte am Teatro San Carlo weniger
fortschrittlich gewesen sein mag, doch befreite ihn dieser Umstand
zugleich von dem eminenten Erwartungsdruck des reformgewöhnten
Neapler Publikums» (p. 173). Lippe non crede che Semiramide
sia un’opera di “regressione”, e su questo
concordiamo. Meno concordiamo sul luogo comune della Napoli
«reformgewöhnte» e sulla minor
«progressività» di altri pubblici (che, nel
frattempo, consacravano alla notorietà come e più di
Napoli opere destinate a una grande circolazione). Le abitudini dei
differenti pubblici sono differenti, ma quali sono
«progressive»? Forse «progressive» diventano
tout court quelle in cui troviamo maggior realismo,
l’ingrandimento delle forme, l’aumento delle situazioni
cosiddette spettacolari? Dovremmo chiederci il perché. Forse
la pensiamo così, ancora una volta teleologicamente, in vista
del trasferimento di Rossini all’estero, ma la storia
dell’opera italiana, soprattutto dagli anni Venti in poi, non
si risolve solo in Rossini.
Un simile punto da discutere è l’«uso
di Francia» che sarebbe stato imperante a Napoli, citato a
proposito di Medea di Mayr (205), altro refrain del libro. Lippe
dice di voler identificare lo «status quo» dei finali
nelle opere serie a Napoli «um 1815» (p. 204) anche se
poco sotto dirà «vor Rossini» (corsivo
dell’autore) e «bis 1815» (corsivo nostro). Questo
influsso della corte bonapartiana e murattiana sarà vero, ma
probabilmente sopravvalutato. Gli esempi di finale esaminati da
Lippe sono tratti da Medea e Ecuba di Manfroce. Perché
concentrarsi solo sulle opere che si richiamano
all’esperienza transalpina e non prendere in considerazione
tutte le opere ascoltate dai napoletani tra il 1809 e il 1815?
ossia, non solo Mayr, Spontini “riproposto” e il suo
epigono Manfroce. Oltre alla Clemenza di Tito, all’Edipo a
Colono, alla Vestale e a Ifigenia in Aulide i napoletani
ascoltarono, prima e dopo il ritorno dei Borboni, Giulietta e Romeo
di Zingarelli, il Giulio Sabino di De Luca (e, a tale proposito,
perché non citare mai il brillante saggio di Tobia Toscano sul
«rimpianto del primato perduto»?), l’Annibale in
Capua di Cordella, il Bajazet di De Luca, Marco Albino in Siria di
Tritto, Adelasia ed Aleramo di Mayr, Odoardo e Cristina di Pavesi,
La conquista del Messico di Ercole Paganini, I Manlii di Nicolini,
Zaira di Federici (Francesco!), Gaulo e Oitona di Generali, Nefte
di Fioravanti, Marco Curzio di Capotorti, I baccanali di Roma di
Nicolini (a tale proposito avvertiamo l’assenza in
bibliografia del libro di Chegai L’esilio di Metastasio), e
dulcis in fundo a Borboni restaurati La morte di Semiramide di
Nasolini (opera stravecchia e più volte interpolata),
l’Elisabetta di Rossini e l’anno dopo (1816) Il trionfo
di Alessandro di Andreozzi. E volendo aggiungere le buffe, le
semiserie, avremmo L’oro non compra amore di Portogallo, La
dama soldato di Orlandi, L’africano generoso di Fioravanti,
le opere di García, il Sargino di Paer e i Pretendenti delusi
di Mayr: opere – alcune – vecchie. (Abbiamo citato
sparsamente). Di queste quelle più
“francesizzabili” – che poi è da spiegare
quale sia un’opera che subisce l’influsso francese, ma
poniamo che sia chiaro – sono, a nostro avviso, Nefte di
Fioravanti e forse il Marco Curzio, oltre ai già citati lavori
di Mayr (Cora) e Manfroce e a parte le opere francesi vere e
proprie. Una minoranza.
Non che non sia evidente l’influsso francese.
Ma è chiaro che a Napoli si combatterono alcune e diverse
“scuole”: quella “veteronapoletana”, erede
di Paisiello e Cimarosa, e poi Andreozzi, Tritto, Zingarelli,
Farinelli, Cordella, e il più giovane Pavesi, e i
“localistici” De Luca e prima ancora Cercià;
quella francese e per meglio dire internazionale – che
secondo Toscano fu in qualche modo propugnata dalla corte; quella
“italiana” con autori presenti su tutti i palcoscenici
della Penisola, Nicolini, Nasolini, Generali, Mayr.
L’«uso di Francia» che in fondo Mayr deprecava si
traduce forse in alcuni caratteri (il recitativo accompagnato)
più che in uno stravolgimento delle convenzioni. Ma in tutta
Italia lo spazio per il recitativo si stava riducendo fin dalla
fine del secolo precedente, con delle “sacche di
resistenza” come Torino (dove a lungo si dettero drammi
metastasiani, benché adattati, con pagine e pagine di
recitativo semplice). Se a Napoli questo processo subì
un’accelerazione, la via tracciata era quella ben prima
dell’affermazione di Rossini o di opere soi-disant
riformate.
Il punto su cui insiste Lippe e su cui dissentiremo
di più è la «solita forma», e il fatto che per
lui la «frattura» nella storia dell’opera italiana
dell’Ottocento, se c’è, invece di essere nel
1827-1830 (Fabrizio Della Seta parla di «età
rossiniana» dal 1800 fino al 1830), cade intorno al 1815.
Lippe crede alla «candeur virginale» di Tancredi e
accetta senza discutere l’«interregno» tra Cimarosa
e Rossini, per adoperare un altro termine stendhaliano. A proposito
di Tancredi: secondo Lippe (p. 69) nell’opera italiana si
giunge a una struttura drammatica in cui nel finale centrale
troviamo un doppio colpo di scena. Così – seguendo
Gossett – cita il finale di Tancredi come struttura
esemplare. Per lui i colpi di scena sono quelli alla fine del tempo
d’attacco (cosiddetto) e del tempo di mezzo. Però
dovrebbe essere chiaro che il vero colpo di scena nel finale di
Tancredi è quello alla fine del recitativo, con la lettura
della (finta) lettera di Amenaide, che scatena il finale. Nel
finale in effetti non succede gran cosa, perché la condanna a
morte per alto tradimento è ovviamente più tenue, come
sorpresa, della trappola in cui è stata messa Amenaide. E
questo finale non è diverso da tanti altri e altri pezzi
scritti nel primo Ottocento in cui (se c’è!) il colpo di
scena è al di fuori del finale stesso, ossia nella scena
– nel recitativo – che lo precede. La reazione al colpo
di scena può coincidere con un movimento lento di stupore, che
è dunque all’inizio, come nei finali di Idante di
Portogallo, di Carlo Magno e in altre opere di Nicolini che tanto
amava cominciare il finale con un movimento lento (per non parlare
degli ensemble: anche il Terzettone di Maometto II comincia con un
movimento lento, idem per il quartetto di Bianca e Faliero). Stessa
cosa appunto in Tancredi. Quello che per Lippe è il
“vero” pezzo concertato, ossia il terzo movimento del
finale, se contiamo il primo Andante, è una sosta determinata
da una logica musicale più che teatrale, visto che in essa non
si reagisce al tempo d’attacco, come vulgata vorrebbe.
Se Lippe avesse esaminato le opere del decennio
precedente senza pregiudizi teleologici, avrebbe forse – se
non erriamo – trovato che le opere di Rossini, dal punto di
vista formale, condividono molti caratteri delle opere dei
predecessori. Segnatamente i finali, che non sempre hanno a che
fare con i duetti. I duetti e gli ensemble e i finali nella storia
dell’opera sono come disposti su tre rette che si incontrano
ora più (come tra gli anni Trenta e Cinquanta
dell’Ottocento) ora meno. Facciamo un esempio: è
indubitabile che molti finali operistici contengano quello che
definiamo «primo tempo» tipico di un duetto rossiniano,
con le strofe «parallele» dei solisti (in alcuni duetti e
finali questo «primo tempo», diviso in altre sezioni, ma
sempre in un movimento, può costituire l’intero
organismo del numero). Ma è una cosa rara per Rossini. I
cosiddetti «tempi d’attacco» si corrispondono
dunque molto imperfettamente in duetto e finale, se non conta solo
la posizione ma anche la caratteristica. Che nei finali rossiniani
tende sempre più verso il «pezzo d’azione»,
cinetico. Di molti finali pre-rossiniani e rossiniani è
impossibile dimostrare la quadripartizione con la doppia coppia
cinetico-statico, meccanicamente alternantesi.
Lippe dichiara di voler mettere a confronto i
contemporanei di Rossini con Rossini medesimo, ma evidentemente non
ne trae tutto il partito possibile. Tutti i compositori, non solo
Rossini, all’interno della flessibilità delle forme del
periodo, sapranno variare il loro linguaggio pur mantenendo la loro
fisionomia creatrice. Le prescrizioni librettistiche, come ben
intuisce Lippe, sono messe in musica in modo altrettanto
flessibile, ossia ora rispettate nella loro interezza perfino nella
distribuzione e articolazione dei pezzi, ora reinterpretate.
Bisognerebbe cominciare a parlare dell’opera rossiniana,
almeno come tentativo, guardando a Cimarosa e non a Verdi.
Il problema è anche terminologico. Che senso ha
identificare con lo stesso nome («tempo di mezzo») quello
in cui Pirro si lascia convincere dalle preghiere di Andromaca
(finale di Ermione) oppure l’introduzione alla stretta del
finale di Ricciardo e Zoraide? Vero è che Lippe mette in luce
le differenze. Ma allora a che pro nominare i due brani con la
stessa etichetta? Tutte le tabelle riassuntive dei finali alla fine
delle rispettive trattazioni sono di stretta osservanza
“solitoformista”. I finali vengono costretti nella
morsa, nel letto di Procuste, anche quando alcune soluzioni sono
chiaramente differenti. Se Elisabetta è una «solita
forma», se Zelmira (nonostante la brevità del cosiddetto
«tempo di mezzo» rispetto alla immaginata norma) può
rientrarvi, Otello non lo è. È un finale che presenta due
concertati, come Tancredi. È vero che nei finali d’opera
primo-ottocentesca ci sono pezzi che ritornano (il «primo
tempo» a strofe parallele, il «pezzo
d’azione», il «concertato di stupore», la
«stretta»): ma sono come un serbatoio di possibilità
che hanno i compositori per rispondere – a volte per eludere
– le prefigurazioni del libretto, non sono
un’impalcatura, né i librettisti né i compositori
sono, a questa altezza temporale, ancora consci di dover scrivere
una «solita forma».
E fissarsi sulla «solita forma» rischia di
non far vedere cose ancora più ovvie. Nulla è detto ad
esempio di un ritrovato rossiniano di grande importanza: lo
slittamento da un «primo tempo» con le strofe parallele a
un «pezzo d’azione» “ibridato” col
«primo tempo», il che fa sì che Rossini adoperi
sempre più sovente lo stesso materiale anche per il pezzo
successivo al concertato (insomma, per quelli che vengono chiamati
nella teoria «tempo d’attacco» e «tempo di
mezzo»). Rossini economizza materiale musicale, semplificando
la tradizione italiana. E consegnandola, questo è vero, alla
posterità.
Sarebbe inutile elencare tutti i pro o i contro il
lavoro di Lippe. Ma infine, che cosa ci dice di Rossini e della sua
esperienza?
Tutto sommato, poco. La drammaturgia di Rossini viene
indagata in modo convenzionale, con qualche lampo di valore,
sicuramente, che trova qualche corrispondenza intratestuale (come
nel caso di Otello) e intertestuale (come nel caso di Otello e
Mosè). Ma è troppo legato alla dialettica orizzonte
d’attesa/corrispondenza col (o elusione del) medesimo.
È indubbio che l’agire compositivo in
tutte le epoche si configura all’interno di un lessico
comune, in cui ogni compositore dà e riceve da una tradizione,
dalle sue forme. Ciononpertanto l’impostazione di Lippe (data
una norma, vedere come e quanto ci si allontana dalla norma,
studiare le soluzioni in rapporto alla supposta
“media”) ci sembra oramai, se non superata,
infruttuosa, forse perché la “norma” stessa va
ridiscussa e forse mutata. La «solita forma» ha
probabilmente esaurito la sua carica. Fin dal 1997 Roger Powers ne
denunciava i limiti, i fraintendimenti, il solo apparente
radicamento nella teoria coeva: il «Basevi’s garden
path» del suo articolo potrebbe essere anche il
«Ritorni’s garden path» (Scott Balthazar e altri
sono ricorsi agli Ammaestramenti di Ritorni per cercare un appiglio
contemporaneo al modus operandi rossiniano).
Il problema più serio è che la crisi del
“basevismo” e del “ritornismo” rischia di
essere la fine dell’analisi operistica. Bisogna oramai, non
paia un’esagerazione, riflettere accuratamente sulle
possibilità, sull’utilità di un’analisi
operistica. Senza un modello altrettanto forte, e rivelatesi
illusorie molte alternative, che cosa resta? solo le prospettive
gender o gli equivoci bagliori dello studio della drammaturgia
individuale delle opere?
C’è un’alternativa apparentemente
minore, ma che forse può aiutarci: ricominciare daccapo, senza
accantonare i fin troppo meritori studi dell’ultimo
trentennio del secolo scorso, ma provando a trovare
un’alternativa. Colmando i buchi nella conoscenza della
storia dell’opera italiana, per esempio il periodo 1790-1820
e 1850-1880. Ci sono dei libri che stanno già da ora
affrontando altri versanti, per raggiungere la cima. Bisogna ancora
descrivere l’opera prima di Rossini, e quella di fine
Settecento, scavando tra partiture libretti e testimonianze, in
modo da non avere rischi di prospettiva teleologica, ma di dare
l’idea del continuum che si opponga dialetticamente alla
visione di un cosiddetto «periodo di transizione», sia
esso principiante con i tardi anni Ottanta del Settecento o con la
morte di Cimarosa nel 1801. Ma è chiaro che siamo a una
svolta, di fronte al rischio di un’aporia. Forse, appunto,
l’alternativa è quella di tentare una descrizione in cui
l’opera, l’oggetto (e naturalmente non opus, ma
sommatoria di tutte le circostanze che hanno portato un’opera
teatrale alla luce) possa meglio dettare i modi della propria
analisi, portare a una nuova, irrinunciabile, ondata teorica.
Per quanto riguarda Rossini, forse solo il riportarlo
in contatto coi suoi antenati potrà dare l’idea della
sua statura, del posto che occupa, della sua individualità. Se
questo portasse solo alla conclusione che Rossini è unico,
poco riusciremmo a evincere. Se invece capiremo come la musica di
Rossini si sia imposta, quali meccanismi – macro-, ma anche
microformali – la rendano così consona
all’Ottocento, forse sarà stato minor danno.
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