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Preambolo
È possibile oggi, a circa trent’anni di
distanza dalle prime pubblicazioni ed incisioni discografiche
inerenti l’ambito, riferirsi ad una ‘estetica’
del fortepiano? Certamente Malcolm Bilson,[1] a nostro giudizio fra i sostenitori
maggiormente autorevoli della ‘nuova via’, sarebbe
quanto meno scettico nell’individuare nel suo operato i
presupposti per il delinearsi di una vera e propria corrente, ma
del resto i supporti e gli interventi ora disponibili crediamo
siano ampiamente sufficienti per permetterci di individuare un
pensiero dai contorni nitidi e definiti, che informa di sé una
‘nuova maniera di intendere la musica pianistica del tardo
Settecento e della prima metà dell’Ottocento.
Nella piena consapevolezza di quanto possa essere
difficile, o quanto meno riduttivo, trattare aspetti che solo nella
pratica esecutiva possono trovare la loro autentica
(nell’accezione più serena del termine) realizzazione,
proporremo e commenteremo qui di seguito alcuni estratti di
pubblicazioni che a nostro parere costituiscono dei punti fermi ed
in alcuni casi dei veri e propri ‘manifesti
programmatici’ di quella che riteniamo (data anche e
soprattutto una diretta esperienza esecutiva al fortepiano tardo
settecentesco) una ormai chiara e delineata linea di pensiero.
Pianoforte o fortepiano?
È lecito affermare che dagli anni Settanta del
Novecento, periodo in cui è tornato in voga l’utilizzo
del vocabolo fortepiano, nessuna pubblicazione occupatasi
dello strumento a martelletti tra fine XVIII ed inizio XIX secolo
si sia astenuta dal prendere parte all’ormai assodata
querelle terminologica: pianoforte o
fortepiano? La tendenza generale sembra oggi caldeggiare
l’abolizione del termine fortepiano per
l’identificazione di una determinata ‘stagione’
dello strumento. La denominazione preferita è quella di
pianoforte o di pianoforte storico e le ragioni di
tale scelta sarebbero principalmente da imputarsi al fatto che nei
paesi dell’Est europeo il termine fortepiano è
tutt’ora utilizzato per designare il pianoforte tout
court:[2] l’utilizzo del vocabolo in un
contesto ‘storicistico’ (riguardante il periodo tra
1770 e 1840 circa) potrebbe risultare dunque fuorviante.[3]
Non abbiamo nulla contro la soluzione proposta,
tuttavia ci permettiamo di suggerire come una certa elasticità
al riguardo possa essere auspicabile. Pare significativo, a
proposito, citare il caso presentato dalla duplice prefazione
apposta ad un testo dedicato alla collezione di strumenti musicali
dell’Accademia Pianistica di Imola. Nella presentazione al
contributo Luigi Ferdinando Tagliavini «apre una parentesi
sull’uso del termine pianoforte storico», da lui
preferito a fortepiano, mentre qualche pagina avanti Emilia
Fadini propone «lo studio del fortepiano propedeutico
al pianoforte».[4] Crediamo che
proprio in questa libertà terminologica (esibita, sebbene
involontariamente, da due fra i più autorevoli studiosi della
materia) risieda la giusta serenità da adottare in tali
situazioni e, a conclusione di questo breve ma doveroso preambolo,
non possiamo che appropriarci della scelta effettuata da Katalin
Komlós la quale, nel corso del suo fondamentale testo dal
significativo titolo Fortepianos and their Music, utilizza
indistintamente, per il periodo indicato, i termini
pianoforte e fortepiano.[5]
L’avvento della
‘nuova estetica’
Nel 1957 per i tipi dell’editore viennese
Eduard Wancura usciva il testo sull’interpretazione
mozartiana al pianoforte curato da Eva e Paul Badura-Skoda.[6]
Nonostante il nome dei due coniugi sia indiscutibilmente da legarsi
alla riscoperta ed alla valorizzazione dello strumento antico, non
crediamo sia da ascrivere al contributo citato la nascita di una
vera e propria estetica del fortepiano. Nell’anno di
pubblicazione del pur fondamentale testo non erano, infatti, ancora
disponibili quei supporti (tra i quali l’agevole
reperibilità di copie affidabili di strumenti antichi) che
solo vent’anni dopo avrebbero permesso una reale riscoperta
del fortepiano. Pur proponendo soluzioni interpretative che
sarebbero divenute fondamentali per i sostenitori del nuovo
‘credo’, il testo dei Badura-Skoda doveva ancora
confrontarsi con una realtà ostile, ed è in questa
direzione che si devono intendere alcune affermazioni presenti
nello scritto:
L’uso di strumenti antichi crea difficili
problemi. Tanto per cominciare ci sono solo pochi strumenti in
condizioni veramente buone. Le imitazioni possono essere migliori
dal punto di vista meccanico ma è raro che il suono sia
caratteristico e soddisfacente come quello degli originali
[…] L’ideale sarebbe poter usare, nelle esecuzioni
mozartiane di oggi, pianoforti dal suono simile a quello originale
dei vecchi fortepiani, ma senza i difetti dovuti al tempo,
quali il rapido deterioramento dell’accordatura e
l’incerto funzionamento del meccanismo. Purtroppo questi
strumenti sono costruiti in numero limitatissimo, sono perciò
rari e a noi non resta che rassegnarci alla realtà.[7]
Riguardo alla scelta di esecuzione del repertorio
tardo settecentesco sullo strumento moderno piuttosto che su un
esemplare storico Eva Badura-Skoda manterrà comunque sempre
una certa soluzione di compromesso, come si evince ancora in un
contributo del 1994 in cui la studiosa, nel paragrafo dal
pericoloso titolo Authenticity and "Original" Sound,
afferma:
It may well be desirable, and appropriate, under
certain circumstances, to make use of a period instrument. On other
occasion, however, it may be out of place. In a large auditorium,
for example a sound of a Silbermann or a Stein fortepiano
will simply not be loud enough to fill the all: a modern piano is
called for. But a good fortepianist who plays a Mozart or a
Haydn sonata on a modern piano will nevertheless bring to his
performance a "historically informed" rendition: the inevitable
fruits of his experience with the fortepiano.[8]
Il testo citato sull’interpretazione mozartiana
rappresenta in ogni caso un prezioso punto di riferimento per la
riscoperta del fortepiano che, infatti, muove i primi passi
dirigendo principalmente i suoi sforzi verso la costituzione di un
retroterra più consapevole attorno alla musica per strumento
da tasto di Wolfgang Amadeus Mozart. La nuova concezione inizia il
suo percorso, dunque, nel nome della realtà musicale viennese
di fine Settecento e del maestro austriaco, la cui musica diviene
il ‘vero banco di prova’ per chi si occupi di
esecuzione allo strumento antico.
Volendo a questo punto indicare una possibile data di
nascita della nuova estetica potremmo (probabilmente con un
po’ di azzardo) individuarla nel 1969, anche se gli esiti
delle nuove convinzioni saranno resi disponibili solo qualche anno
successivo quando, in un articolo apparso nel 1980 sulla rivista
«Early Music» il suo autore, in una breve presentazione
antecedente il testo, viene così definito:
Unlike Wanda Landowska’s pioneering of
little-known music of neglected harpsichord, the revival of the
fortepiano seems likely to establish itself in a
revitalizing of the traditional keyboard repertoire of Haydn,
Mozart, Beethoven and even Schumann. Malcolm Bilson, as a professor
of music at Cornell University […] is a well-known exponent
of this repertoire and an enthusiastic advocate of the
fortepiano’s independence.[9]
L’opera di Malcolm Bilson (secondo chi scrive
il vero caposcuola della Historically Informed Performance
Practice applicata allo strumento) viene dunque equiparata a
quella di Wanda Landowska e, per alcuni aspetti, il paragone
potrebbe addirittura risultare riduttivo: mentre l’operato
della clavicembalista riportò alla luce una letteratura di
fatto caduta nell’oblio, la riscoperta del fortepiano pone
invece le sue basi nella rivisitazione (o più
significativamente ‘rivitalizzazione’) di un repertorio
tastieristico mai scomparso dai repertori concertistici e dunque
strettamente legato ad un particolare concetto di ricezione. Di qui
gli inevitabili scontri con i sostenitori dell’esecuzione su
strumenti moderni, querelles che hanno dato vita ad un
acceso dibattito consumatosi tra le pagine di riviste
specializzate, booklets di incisioni discografiche:
materiale che oggi costituisce una base sufficiente per riferirsi,
secondo noi, ad una delineata ‘filosofia del
fortepiano’.[10] Proseguendo nel contributo Bilson afferma
di aver iniziato ad interessarsi allo strumento antico, ed alla
conseguente rinnovata ricerca sintattico-sonora, dopo aver provato
nel 1969 una copia[11] di un fortepiano di Louis Dulcken
costruita da Philip Belt, uno degli artigiani la cui opera già
era stata elogiata dai Badura-Skoda nel loro testo:[12]
In 1969, when Philip Belt proposed bringing one of
his fortepiano replica (of the Louis Dulcken instrument from
1790s at the Smithsonian Institution, Washinghton, D.C.) through
Ithaca, New York, where I live, I promised to keep it for a week
and play a concert on it […] Mozart’s music (the
programme was to be all Mozart) was eminently realizable on this
instruments. The small articulation slurs to be found everywhere in
his music came out so naturally on the fortepiano, which
strove, as did Mozart’s music itself, not for richness of
sound, but for lightness, clarity and elegance […] I ordered
an instrument from Philip Belt for myself.[13]
Quindi la convinzione di Malcolm Bilson si esprime in
tutta la sua chiarezza, rivelando un’univocità di
intenti che nel testo dei Badura-Skoda del 1957 certamente non
compariva:
Recently I had a curious experience; I played the
Mozart E flat Piano Quartet (K. 493) on a modern piano. There was
to be a student concert here in our music department [Cornell
University, Ithaca], on regular modern instruments and at the last
minute the student pianist was unable to play, so they asked me if
I would help out. In the past ten years I had not played Mozart on
a modern piano, and was intrigued to see how it would seem to me
[…] Yet, I was amazed how limited this music sounded on the
modern piano, with its far greater tonal resources. First of all,
one cannot play very softly and intimately, because the modern
piano needs to have a certain resonance before it begins to speak
[…] But then one cannot play very loudly either (and the best
Mozart players on a modern piano do not) because then it is far too
bombastic. The inevitable result on a modern piano with a good
sound is utter sweetness all the time.[14]
Un’esigenza reale, non
un semplice approccio ‘storicistico’
Molto spesso i detrattori della Historically
Informed Performance Practice hanno voluto individuare sotto
l’etichetta di ‘esecuzione su strumenti storici’
la volontà di creare un esercizio di ‘pedanteria
musicale’, una scelta di comodo che limiti la scelta
interpretativa individuale in favore di una sicurezza ricercata tra
le pagine della trattatistica, per un percorso intrapreso da chi
delega alla conoscenza più che all’espressione artistica
il compito di determinare il valore di un’esecuzione. Si
scorge dunque nell’affidarsi allo strumento antico la
volontà di eliminare la responsabilità di una reale
scelta musicale. Riguardo alla questione appare illuminante la
lettura di un contributo dal titolo Mozart originale?,
costituito da un’intervista rilasciata a Nicholas Kenyon da
Malcolm Bilson e John Eliot Gardiner, i protagonisti della prima
incisione integrale dei concerti mozartiani per pianoforte ed
orchestra su strumenti originali, progetto supportato agli inizi
degli anni Ottanta dall’etichetta Archiv-Deutsche
Grammophon.[15] Attorno alla realizzazione discografica
gravitano una serie di contributi destinati a rendere
l’evento un vero e proprio ‘manifesto
programmatico’ della nuova estetica.
Così esordiscono nell’intervista i due
musicisti:
Il nostro approccio non è prevalentemente
storicistico […] è empirico, per quanto basato sulla
ricerca storica. Noi non vogliamo realizzare un’esercitazione
di archeologia musicale, ma piuttosto utilizzare i documenti e gli
strumenti del passato per orientarci nella realizzazione di
un’interpretazione tutta nostra. (Gardiner, p. 140)
E ancora, rifacendosi al parallelismo musica-oratoria
(un’assonanza divenuta indispensabile per i sostenitori della
nuova ‘filosofia’), Bilson spiega che:
Non dovete pensare di poter diventare un grande
attore solo perché riuscite a pronunciare correttamente le
battute. Di qui nasce tutta la confusione esistente a proposito
dello stile storico: noi non pretendiamo di essere grandi
interpreti solo perché osserviamo queste convenzioni musicali
nelle quali crediamo con passione […] Lo scopo
dell’impiegare gli strumenti antichi […] non è
quello di eliminare l’elemento della scelta, ma di
permetterci l’esplorazione del messaggio musicale […]
la nostra interpretazione si sviluppa a partire dai suoni e dai
gesti che gli strumenti stessi suggeriscono. (Bilson, p. 141)
L’elemento della conoscenza della trattatistica
e delle peculiarità organologiche degli esemplari antichi non
diviene dunque l’elemento prioritario, bensì un
espediente per una maggiore consapevolezza nelle scelte esecutive.
Gli strumenti antichi suggeriscono al musicista attento delle
soluzioni differenti dallo strumento moderno, proprio perché
concepiti secondo una differente concezione del suono: mentre il
moderno pianoforte tende ad esaltare il legato e la perfetta
omogeneità e standardizzazione tipica del pensare
novecentesco, il fortepiano viennese di epoca mozartiana esalta le
possibilità di microarticolazione sintattica, così
fondamentale nelle convenzioni retoriche della musica del
tempo.
Scrive Bilson nel suo contributo del 1980:
I am not stating categorically that the proper
articulation […] cannot be accomplished on a modern piano,
but simply that I have yet to hear anyone do it. Perhaps the
resurgence of the earlier pianos will encourage
‘regular’ pianists to change some of their outlooks
regarding this music, much as hearing harpsichord has caused them
to do with Bach music.[16]
E ancora aggiunge in un intervento del 1986 volto a
supportare le scelte esecutive da lui effettuate
nell’incisione dei concerti di Mozart:
When Steinway developed the modern piano in 1860s,
they wanted above all long a long, continuous singing line, and to
that and they developed an instrument in which attack and damping
are reduced to a minimum, to set off as much as possibly the
afterring. On the best modern pianos the tone almost seems to swell
after the initial attack. If one wants a long, uninterrupted
singing line, such a piano is ideal. But does one want in Mozart?
The most cursory glance at virtually any Mozart score reveals small
slurs; it is the small articulation that are the essence of the
expression. There are entire movements by Mozart without a single
dynamic mark; there are no notes anywhere left by Mozart without
directions for the articulation; this is the essence of the
rhetorical style.[17]
L’obiettivo di creare uno strumento che
permettesse l’esplorazione della microdinamica contro uno
strumento che privilegiasse la potenza ed il legato stava proprio
alla base della concezione viennese tardo settecentesca e già
costituiva una dichiarata antitesi con la concezione dei coevi
strumenti di fattura inglese. I modelli sonori cui si guardava
erano pertanto opposti nelle due scuole e, per meglio comprendere,
ci vengono in aiuto le parole di Andreas Streicher (costruttore
viennese ‘collega’ di Anton Walter) ed un articolo
apparso nel 1790 sulla rivista londinese European Magazine.
Streicher afferma: «If the tone of the fortepiano is
both to move and please the listener, it should, as much as
possible, resemble the sound of the best wind instrument […]
The tone of the Stein fortepiano is modelled completely
according to this ideal».[18]
Sul contributo della stampa londinese leggiamo:
«To acquire a rich, a full, and mellifluous tone is the
desideratum beyond all other qualities in a Performer […] The
mellow, impressive, Organ-like Tone is superior in significance and
effect to that quilly and vapid sound produced by the Generality of
Piano Forte Players».[19]
Streicher, dunque, propone una dimensione in cui il
suono è considerato come parte indispensabile per la ricerca
sintattica e vicino, come idea, alle possibilità di
articolazione proprie degli strumenti a fiato. Sulla rivista
londinese, all’opposto, si elogia la potenza sonora dello
strumento, che deve essere in grado di rimandare al suono pieno ed
omogeneo di un organo.[20] Del resto
estremamente significativo è il resoconto del 1830 fornitoci
da Friedrich Kalkbrenner:
The instruments of Vienna and London have produced
two different schools. The pianist in Vienna are especially
distinguished for the precision, clearness and rapidity of their
execution; the instruments fabricated in that city are extremely
easy to play, and, in order to avoid confusion of sound, they are
made with mufflers [dampers] up to the last high note; from this
results a great dryness in sostenuto passages, as one sound does
not flow into another […] English piano possess rounder sound
and a somewhat heavier touch; they have caused the professor of
that country to adopt a grander style, and that a beautiful manner
of singing which distinguishes them.[21]
Altrettanto preziose sono al riguardo le parole spese
da Muzio Clementi nel suo Introduction to the Art of Playing on
the Piano Forte, pubblicato a Londra nel 1801:
The best general rule, is to keep down the keys of
the instrument the full length of every note […] When the
composer leaves the legato and staccato to the performer’s
taste, the best rule is to adhere chiefly to the legato; reserving
the staccato to give sprit occasionally to certain passages, and to
set off the higher beauties of the legato.[22]
La disputa circa la realizzazione di un peculiare
discorso sonoro era già dunque più che mai viva
all’epoca ed oggi dunque la riscoperta degli esemplari
viennesi della seconda metà del Settecento è giustificata
dall’esigenza di ritornare ad un messaggio sintattico
perdutosi con l’Ottocento romantico, che preferì
raccogliere l’eredità della scuola britannica, di fatto
depositaria delle caratteristiche sonore del pianoforte moderno.
Riguardo alla supremazia ottocentesca dell’ideale inglese, ed
alla necessità di tornare ad una esecuzione mozartiana
sintatticamente più consapevole, ci pare qui significativo
riportare l’accalorato appello di Harold Schonberg, il quale
nel 1970 scriveva:
Mozart non si suonò moltissimo nel periodo
romantico. Quando lo suonarono, lo fecero con tutte le esagerazioni
e gli orpelli del Romanticismo: dinamica enfiata, fraseggiare
super-legato, equilibrio offuscato dalla pesante coloritura
[…] Solo dopo la prima guerra mondiale si fece un serio
sforzo per ritornare al tipo d’esecuzione dei tempi suoi. Ma
la battaglia non è ancora vinta […] Nessun piano da
concerto, dal suono brillante, con i suoi bassi rombanti e la sua
forza senza limiti, può dare un’idea della musica per
piano di Mozart, composta per un piano Walter leggero e dalla
portata dinamica modesta.[23]
Recuperare ciò che Schonberg ritiene perduto
nell’esecuzione mozartiana al pianoforte diviene dunque
un’esigenza reale, al fine di permettere una più
consapevole esplorazione del linguaggio musicale del tempo: è
questo in cui crede chi decide di seguire la strada indicata dal
Professore della Cornell University.
‘Miniaturizzazione’ e
‘standardizzazione’
Così si esprimeva Johann Friedrich Reichardt,
tra le pagine del «Musikalisches Kunstmagazin» del 1782,
riguardo alla musica strumentale di Mozart: «è
estremamente innaturale, perché in essa c’è
dapprima allegria, poi all’improvviso tristezza e subito dopo
di nuovo allegria […] ossia manca di carattere
unitario».[24] Ancora nella rivista «Deutschlands
Annalen des Jahres 1794» un anonimo riporta che, a sua detta,
Mozart, dotato senza dubbio di talento «ha composto […]
è vero sinfonie piene di fuoco, sontuosità e splendore
ma, a differenza delle opere di Haydn, esse sono senza unità,
limpidezza e chiarezza di esposizione: una cucina troppo
condita».[25]
D’altra parte c’era invece chi era
disposto a riconoscere proprio in questa ‘maschera
bifronte’ la reale essenza dell’arte mozartiana.
Christian Gottfried Körner, che probabilmente conobbe Mozart
nel 1789, in una sua lettera sostiene come il salisburghese fosse
stato l’unico dei contemporanei ad essere grande tanto nella
tragicità quanto nella comicità.[26]
Non è certo nostra preoccupazione decidere da
quale parte schierarci, ma risulta evidente dalle testimonianze
dell’epoca come la musica mozartiana dovesse essere
principalmente recepita in virtù della cifra stilistica della
varietà. Al riguardo non riteniamo di essere in grande difetto
affermando come le odierne esecuzioni della musica mozartiana sul
pianoforte moderno tendano a smorzare questo carattere. Del resto
già i Badura-Skoda nel loro testo affermavano:
Ci sono molti musicisti convinti che la musica
mozartiana vada eseguita con tocco di piuma, leggero e rapido. Essi
spiegano questa opinione col temperamento gioioso e, diremo,
fanciullesco, di Mozart […] o con la grazia innata del suo
idioma […] Mozart può essere felice o tragico: questa
è una delle caratteristiche che lo rendono unico nella storia
della musica.[27]
Tuttavia la situazione pare non essere cambiata di
molto nel tempo se, ancora nell’intervista del 1989, Sir.
John Eliot Gardiner, introducendo l’efficace immagine di una
musica mozartiana ‘miniaturizzata’, constatava
come:
Gli interpreti tentano di miniaturizzare la
musica di Mozart […] così tutti camminano in punta di
piedi, come si muovessero sul ghiaccio. Si tende quindi a produrre
esecuzioni che privilegiano l’eleganza, ma difettano di
vigore, e nelle quali viene repressa l’emozione. Usando
strumenti d’epoca, suonati col debito gusto e senza reprimere
nulla […] lo spettro dinamico risulta alterato, come pure la
tavolozza cromatica, dato che a quel tempo gli strumenti
producevano sonorità meno omologate.[28]
Gli fa immediatamente eco Bilson, il quale aggiunge:
«Il pianoforte moderno, con la sua sonorità
splendidamente uniforme in tutti i registri, è eccellente per
alcuni tipi di musica, ma qui sembra invece ridurre tanto la
dimensione drammatica, quanto la varietà».[29]
‘Miniaturizzazione’ e
‘standardizzazione’, dunque: due concetti fondamentali
e strettamente correlati fra loro.
Il Novecento è stato per alcuni aspetti il
secolo della standardizzazione e questo ha investito anche
l’ambito della costruzione del pianoforte. Il carattere di
omologazione nello strumento si presenta su due livelli: il primo
è determinato da un’evidente similarità fra gli
esemplari prodotti dalle varie case costruttrici,
un’omologazione sonora che non esisteva alla fine del
Settecento e, come rilevato dalle parole di Streicher e
dall’articolo londinese, non semplicemente per
l’assenza dell’industria. A proposito significative
risultano le riflessioni che Malcolm Bilson propone in un suo
intervento sul New York Time:
Today the piano has reached such a lamentable state
of uniformity that in recent advertisement Steinway can proudly
proclaim that 95 percent of piano soloists choose the same piano
[…] Standardization may be a good for technology, but for art
it is ruinous […] Variety can lead to new sounds and ideas;
uniformity to standardization.[30]
Il secondo livello, che maggiormente interessa il
nostro discorso, è rappresentato dal singolo esemplare: mentre
lo strumento viennese di epoca mozartiana offriva una tastiera in
cui si potevano individuare dei veri e propri
‘registri’ con peculiarità timbriche ben delineate
e ricercate in fase costruttiva (bassi sonori ma non cupi, acuti
dal suono traslucido), il pianoforte moderno vede nel perfetto
equilibrio sonoro il punto di arrivo più apprezzabile. Scrive
Bilson:
The Mozartean piano has two principals
characteristics that distinguish it from modern counterpart: colour
difference of the registers and length on the single tones. Colour
is difficult to describe, but all those familiar with earlier
instruments (whether they like or not) will agree that they
generally display a great difference in colour from one register to
another than does the modern piano. Bass and treble are more
individual on a Stein or Walter than on a Steinway or Bechstein,
where homogeneity of sound is the goal.[31]
Suonare il repertorio tastieristico tardo
settecentesco sul pianoforte moderno significa dunque dover fare i
conti con modelli sonori non conformati alle esigenze sintattiche
di quella musica, significa necessariamente doversi trattenere,
dando probabilmente una resa ‘miniaturizzata’ ed
incorrendo nel rischio di una esecuzione
‘intellettualistica’, etichetta spesso associata invece
all’approccio ‘storicistico’. Al riguardo
significative risultano le parole di Audrey Axinn:
As someone who has been playing a period instrument
[18th century] for several years, I know that one of the
most striking changes in my perception of the Classical style is
how much freedom the language contains. The common misunderstanding
about performance practice is that it is preoccupied with rules,
and performances are over intellectual.[32]
Ed ancora opportuno ci pare riportare qui una frase
di Alfred Brendel che, trattando dell’ideale sonoro dei
fortepiani di epoca beethoveniana, afferma: «noi dobbiamo
rassegnarci al fatto che quando udiamo la musica di Beethoven
suonata su uno strumento di oggi, noi ascoltiamo una sorta di
trascrizione».[33]
Parole che vanno di pari passo con la categorica
affermazione che Malcolm Bilson propone nel capitolo sul repertorio
tastieristico tardo settecentesco curato per il New Grove:
«Anyone who has played or heard Mozart’s Keyboard Music
on a modern piano must have a somewhat distorted idea of the
language».[34]
Ed ancora in linea con le ‘ottimistiche’
riflessioni dello stesso al termine di un intervento del 1982 in
merito all’esito di alcune incisioni su strumenti
originali:
Steinways, Blüthners and Bechsteins have, over
the years, given a false idea of, for example, what a Beethoven
sforzando should sound like; for the modern piano has no
real sforzando, it only has loud notes. As a result, we have
become used to sudden shifts of dynamic that are quite different
from those of Beethoven’s conception: and it is to understand
this that we need Streichers and Grafs. I believe that we will see
a proliferation of newly built replicas of these types of pianos,
as more and more pianists demand them, and that the state of the
original instruments will get better and better as standard keep
rising.[35]
Chiarificatrici paiono infine le precise riflessioni
organologiche che nel 1980 Marco Tiella proponeva durante un ciclo
di conferenze tenute presso l’Università degli Studi di
Trento. Lo studioso sostiene come:
L’aumento delle dimensioni delle corde
[…] e il corrispondente aumento della tensione […] ha
dato al pianoforte moderno la possibilità di emettere
sonorità molto più energiche […] ma a scapito,
soprattutto nel registro più grave, di chiarezza al punto di
far ritenere la stessa scrittura pianistica della metà
dell’800 musicalmente incompatibile con le caratteristiche
timbriche del pianoforte moderno. La scrittura per strumento a
tasto della seconda metà del ’700 risulta di conseguenza
ancora più lontana dai mezzi espressivi del
pianoforte.[36]
E ancora poco più avanti, introducendo il
delicato discorso dell’evoluzione in musica, Tiella
afferma:
È opinione comunissima che il pianoforte sia
stato via via ‘perfezionato’ ed abbia, per così
dire, dato materialmente soluzione alle ambizioni di musicisti che
ebbero a loro disposizione solo fortepiani, per cui oggi
eseguendo sul pianoforte le musiche scritte per fortepiano
ne risulterebbe una realizzazione timbrica più esauriente
[…] ma il martelletto rivestito di feltro, le corde robuste e
molto tese, le conseguenti dimensioni delle parti risonanti non
possono […] sostituire le caratteristiche timbriche perdute
con l’abbandono di strumenti leggeri, corde sottili e poco
tese, martelletti foderati di pelle, meccanismi fantasiosi i
modifica del timbro: l’ampiezza dell’escursione
dinamica del pianoforte, il cui timbro deve essere il più
omogeneo possibile, ha richiesto questo sacrificio.[37]
L’appoggiatura: un
‘baluardo’ della nuova estetica
Volendo conferire un carattere concreto e
strettamente musicale alla maggior parte dei concetti sin qui
espressi credo potremmo allora affidarci al significato retorico
della corretta esecuzione di una appoggiatura. Non può
esistere certamente una definizione univoca del concetto di
appoggiatura ma, valutando il significato stesso
dell’espressione con cui si esprime il particolare
abbellimento, va da sé che il termine, considerato nella sua
accezione sintattico-accentuativa, dovrebbe sostenere
un’esecuzione su cui ci si ‘appoggi’, e dunque
una realizzazione in battere, data l’impossibilità
musicale, come rilevano i coniugi Badura-Skoda, di una appoggiatura
accentata ed in levare.[38] È
sicuramente vero che circa l’esecuzione
dell’appoggiatura (battere o levare, con o senza accento)
esistono, nella trattatistica della seconda metà del
Settecento, pareri molteplici e a volte discordanti; in ogni caso
pare abbastanza evidente che un’esecuzione
dell’appoggiatura in battere e con accento costituisse il
caso più frequente. Al riguardo possiamo qui riferirci alle
parole di Carl Philipp Emanuel Bach il quale, nel suo
Versuch del 1753, afferma: «Un altro errore si verifica
se l’appoggiatura risulta staccata dalla nota che la segue,
per non essere stata tenuta abbastanza a lungo o perché la sua
durata è stata addirittura attribuita alla nota precedente
[…] Da questi sbagli sono derivate quelle brutte appoggiature
in levare che vanno tanto di moda».[39]
È proprio su questo principio che viene a
costituirsi uno dei ‘baluardi’ più significativi
per chi appoggia e caldeggia l’esecuzione della musica tardo
settecentesca sullo strumento storico. La corretta esecuzione
retorica di una appoggiatura non potrebbe prescindere infatti
dall’utilizzo di uno strumento antico, ossia di uno strumento
sostanzialmente dotato di un unico scappamento e della cosiddetta
Prellmechanik.[40] La presenza della
particolare meccanica, che informa di sé gli esemplari
viennesi dal 1770 al 1840 circa, diviene indispensabile per
garantire un’efficace esplorazione di quella microdinamica
che regola l’espressività nella musica di fine
Settecento e che, nel caso particolare dell’appoggiatura, si
esprime nell’esigenza di un immediato scarico del suono che
permetta la realizzazione della nota appoggiata in una
sonorità subitamente inferiore rispetto alla nota che
appoggia. Da queste considerazioni parte Malcolm Bilson quando, nel
suo contributo del 1986, afferma come: «A true appoggiatura is
not really possible on a modern piano, for the first note does not
make the necessary diminuendo to allow the second note to be played
sufficiently weaker. Pianist who have only experienced
appoggiaturas on a modern piano do not really know what they
are».[41]
Conclusioni
Crediamo che la perentoria definizione con cui si
chiude il passo appena citato possa servire anche come conclusione
del nostro breve intervento che, senza la minima prerogativa di
completezza, si è proposto di introdurre alcuni dei concetti
che hanno costituito le basi per una nuova ricerca esecutiva,
innanzitutto rivolta al repertorio tastieristico tardo
settecentesco. Crediamo con passione a quanto afferma Malcolm
Bilson nei suoi scritti (e soprattutto a quanto dimostra a livello
pratico nelle sue incisioni, concerti e master class),
consapevoli che si tratti sì di posizioni condivisibili o
meno, ma che nello stesso tempo offrono soluzioni interpretative da
tempo ormai condivise con entusiasmo da parte di molti degli
addetti ai lavori. Riteniamo pertanto che frasi quali quella del
pianista Anton Kuerti, che «preferirebbe essere operato con
strumenti chirurgici del XVIII secolo, piuttosto che dover suonare
su uno strumento del XVIII secolo», siano rivelatrici soltanto
di ignoranza nei confronti di un ambito che costituisce un valore
di primo piano nella realtà pianistica odierna.[42]
Bibliografia
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sua presenza nella vita musicale contemporanea, in
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Malcolm Bilson e John Eliot Gardiner, testo incluso nel booklet
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Deutsche Grammophon, 1989 (serie Archiv Produktion 431 211-2), pp.
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when Mozart on a Steinway will be regarded… as necessarily a
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HAROLD C. SCHONBERG, I Grandi Musicisti,
Milano, Mondadori, 1972;
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fondamentale e ornamentazione, Padova, Franco Muzzio Editore,
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authentically does not mean simply using the appropriate
instruments, «Early Music», XIII/1, 1985, pp.
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MARCO TIELLA, Strumenti a tastiera prima
dell’800, in Dal clavicembalo al pianoforte, a
cura di Luigi Del Grosso Destreri, Trento, Università degli
Studi di Trento, 1980;
BENEDETTA TONI, La storia del pianoforte
attraverso la Collezione di Palazzo Monsignani-Sassatelli di
Imola, Cremona, Cremonabooks, 2002.
|
________________________
[Bio] Mario S.
Tonda, musicista e musicologo torinese, è diplomato in
pianoforte e, con il massimo dei voti, in Clavicembalo e
tastiere storiche presso il Conservatorio di Torino. È
laureato con lode presso la Facoltà di Musicologia di Cremona
(Università degli Studi di Pavia). Si occupa prevalentemente
di esecuzione al fortepiano; attualmente studia con il M°
Malcolm Bilson.
E-mail
matonda2001@yahoo.it
Mario S. Tonda, musician and musicologist, is
graduated in piano and in ‘Harpsichord and Historical
Keyboard’ at Turin Conservatory. He is also graduated in
Musicology at Pavia University. His main interest is now for the
fortepiano performance, and he takes part to Malcolm Bilson
workshops.
[1] Malcolm Bilson è
professore presso la Cornell University di Ithaca (New York). Dagli
inizi degli anni settanta è fra i principali sostenitori della
Historically Informed Performance Practice, e la sua
esperienza discografica comprende, fra le altre cose,
l’incisione integrale su strumenti originali delle sonate di
Wolfgang Amadeus Mozart e delle sonate di Franz Schubert (entrambi
i cicli prodotti dall’etichetta Hungarotòn). A Bilson si
deve inoltre la prima incisione integrale dei concerti di Mozart al
fortepiano, con la collaborazione degli English Baroque Soloists
diretti da Sir. John Eliot Gardiner ed il supporto della casa
discografica Archiv-Deutsche Grammophon. Per ulteriori notizie
biografiche su Bilson si faccia principalmente riferimento a: DAVID
DUBAL, The Art of the Piano: its Performers, Literature and
Recordings Revised and Expanded Edition, Cambridge, Amadeus
Press, 2004, pp. 42-43.
[2] Cfr. Il
pianoforte, a cura di Mauro Pasquale, Milano, Ricordi, 1992, p.
11.
[3] Riguardo al recupero
del termine fortepiano ed al suo utilizzo nel linguaggio
musicologico odierno si veda principalmente ALDA BELLASICH et
al., Il Clavicembalo, Torino, EDT, 20052, pp.
6 e 43. A proposito del «tacito accordo organologico» cui
fa riferimento Sigfrido Leschiutta alla p. 6 del testo citato,
esplicative risultano le parole di Marco Tiella: «dopo il
1840, nell’epoca in cui il fortepiano era già
divenuto ‘pianoforte’ non solo nella nomenclatura, [lo
strumento] aveva assunto rinforzi o telaio metallico, corde di
spessore e tensione molto maggiore, estensione oltre le sei ottave,
rivestimento dei martelli in feltro, ‘doppio
scappamento’ nella meccanica: le caratteristiche che possono
essere indicate come proprie di un diverso tipo di strumento a
martelli rispetto al fortepiano» (MARCO TIELLA,
Strumenti a tastiera prima dell’800, in Dal
clavicembalo al pianoforte, a cura di Luigi Del Grosso
Destreri, Trento, Università degli Studi di Trento, 1980, p.
27). Di grande chiarezza è inoltre ciò che Howard
Ferguson già affermava nel suo fondamentale studio
sull’interpretazione alla tastiera del 1975: «In
discussing the most recent pair of string keyboard instruments it
will be convenient to use the words Fortepiano and
Pianoforte to distinguish between, respectively, the early type and
its modern descendant. The distinction is important, for there is
as great a difference of tone, and almost as great a difference of
touch, between an early fortepiano and a modern pianoforte
as there is between a fortepiano and either a harpsichord or
a clavichord. Thus defined, a fortepiano, has mainly a
wooden frame, thin, comparatively lowtensioned strings, and small
leather-covered hammers; while a pianoforte has an iron frame,
thicker, high-tensioned strings, and larger felt-covered
hammers» (HOWARD FERGUSON, Keyboard Interpretation from the
14th to 19th century, London, Oxford University Press, 1975, p.
9).
[4] BENEDETTA TONI, La
storia del pianoforte attraverso la Collezione di Palazzo
Monsignani-Sassatelli di Imola, Cremona, Cremonabooks, 2002,
pp. 17-18.
[5] KATALIN KOMLÓS,
Fortepianos and their Music: Germany, Austria and England,
1760-1800, Oxford, Clarendon Press, 1995. Avevamo già
espresso la medesima opinione in: MARIO STEFANO TONDA, Il
fortepiano di W.A. Mozart: libere osservazioni, «Allegro
con brio: Periodico di Musica Arte e Filosofia», n. 0,
febbraio 2005, pp. 31-32.
[6] EVA e PAUL
BADURA-SKODA, L’interpretazione di Mozart al
pianoforte, Padova, Zanibon, 19892.
[7] Ibid., pp. 15 e
27. Alla pagina 27 del testo gli autori fanno tuttavia riferimento
ad alcune copie di fortepiani del costruttore tedesco
Andreas Stein realizzate da Philip Belt di New York,
‘studioso-artigiano’ destinato a ricoprire un ruolo
fondamentale nel recupero dell’esecuzione su strumenti
storici.
[8] Eighteenth-Century
Keyboard Music, ed. by Robert Lewis Marshall, New York-London,
Routledge, 20032, pp. 56-57.
[9] MALCOLM BILSON, The
Viennese fortepiano of the late 18th century, «Early
Music», VIII/2, 1980, pp. 158-162: 158.
[10] Celebri ormai i
noti e stimolanti ‘scontri’ tra Malcolm Bilson e
Charles Rosen. Al riguardo si veda, ad esempio, il vivace scambio
di opinioni tra le pagine della rivista online «The New
York Review of Books»: CHARLES ROSEN, The Shock of the
Old, «NYREV», XXXVIII/8, February 1991 (http://www.nybooks.com/articles/3356)
e MALCOLM BILSON, Early Music: An Exchange,
«NYREV», XXXVII/17, November 1990 (http://www.nybooks.com/articles/3449).
[11] Copia o
esemplare originale? L’articolo del 1980 si occupa brevemente
anche della questione. Per quel che concerne gli esemplari viennesi
tardo settecenteschi la difficoltà di reperimento ed il costo
di esemplari originali fa propendere per la scelta di una
affidabile copia. In ogni caso la trattazione è più
complessa e Bilson afferma nello scritto (BILSON, The Viennese
fortepiano, cit., p. 162) come in realtà la scelta non sia
da effettuarsi tra copia ed originale, quanto tra
‘buono’ o ‘cattivo’ strumento, aggiungendo
quindi (a sostegno delle repliche moderne) come di fatto uno
strumento per quanto storico non possa mai essere
‘originale’, in quanto inevitabilmente oggetto di
restauro. Sulla questione ritorna qualche anno successivo, sempre
sulla medesima rivista, anche il fortepianista singaporeano Melvin
Tan il quale fa notare, propendendo anch’egli in favore di
una copia affidabile, come al termine del Settecento non si
suonassero certamente pianoforti antichi di due secoli. Cfr. MELVIN
TAN, The technique of playing music authentically does not mean
simply using the appropriate instruments, «Early
Music», XIII/1, 1985, pp. 57-58: 58.
[12]
Eighteenth-Century Keyboard Music, cit., pp. 56-57.
[13] BILSON, The
Viennese fortepiano, cit., p. 158. Così come al volgere
del Diciannovesimo secolo i costruttori di pianoforti Erard e
Pleyel indicavano la via verso la riscoperta del clavicembalo,
così, a distanza di circa un secolo, alcuni fra i prosecutori
di questa tradizione ristabilita inauguravano la ‘nuova
stagione’ del fortepiano, individuando nell’artigianato
musicale viennese di fine Settecento, rappresentato in
primis dagli esemplari pervenuti di Anton Walter (costruttore
dello strumento posseduto da Wolfgang Amadeus Mozart), il
preferenziale punto di riferimento. Tra i sostenitori del rinnovato
interesse per lo strumento – che dovette accogliere le
composizioni per tastiera del maestro salisburghese, e che ne
condizionò certamente la gestazione – Philip Belt occupa
un ruolo pionieristico. Con il suo operato, diviso fra
l’impegno propriamente costruttivo e l’attenzione nei
confronti della divulgazione dei nuovi studi organologici inerenti
il fortepiano, il costruttore statunitense si rende depositario di
quella dimensione artigiano-culturale che, così naturale per
chi si occupa di ‘musica antica’, ancora mancava
all’ambito pianistico. Al riguardo si vedano: HOWARD SCHOTT,
Suonare il clavicembalo. Tecnica fondamentale e
ornamentazione, Padova, Franco Muzzio Editore, 1982, pp. 23-25;
Il Pianoforte, cit., pp. 39-40. Per la figura di Anton
Walter si vedano: MICHAEL LATCHAM, Mozart and the Pianos of
Gabriel Anton Walter, «Early Music», XXV/3, 1997, pp.
382-400; MARTHA NOVAK CLINKSCALE, voce «(Gabriel) Anton
Walter», in Makers of the Piano 1700-1820, Oxford,
Oxford University Press, 1993, pp. 311-316.
[14] BILSON, The
Viennese fortepiano, cit., p. 161. Malcolm Bilson ha inciso il
quartetto citato nell’articolo per l’etichetta
Deutsche Grammophon WOLFGANG AMADEUS MOZART,
Klavierquartette KV 478 & KV 493, 1CD, Deutsche Grammophon, 2007 (serie Archiv Produktion 477
6732): M. Bilson (fortepiano), E. Wilcock (violino), J. Schlapp
(viola), T. Mason (violoncello).
[15] NICHOLAS
KENYON, Mozart originale? Intervista a Malcolm Bilson e John
Eliot Gardiner, testo incluso nel booklet di WOLFGANG AMADEUS
MOZART, The Piano Concertos, 9CD, Deutsche Grammophon, 1989
(serie Archiv Produktion 431 211-2), pp. 140-144. La copia dello
strumento mozartiano di Anton Walter a disposizione per
l’incisione è stata realizzata appositamente per il
progetto da Philip Belt nel 1977 a New York.
[16] BILSON, The
Viennese fortepiano, cit., p. 159.
[17] MALCOLM BILSON,
The Mozart Piano Concertos Rediscovered,
«Mozart-Jahrbuch», 1986, pp. 58-61: 60.
[18] Vedi
KOMLÓS, cit., p. 26.
[19] Ibid.,
p. 27. Da notare come nel documento viennese ci si riferisca allo
strumento con il termine di fortepiano, mentre sulla rivista
inglese si parli di pianoforte. Non è un dato così
significativo, tuttavia è sintomatico che sarà proprio il
termine ‘inglese’ ad essere mantenuto, come del resto i
caratteri che prevedono la ricerca sonora di un legato
assoluto.
[20] Sulle
diversità costruttive degli esemplari britannici rispetto agli
strumenti viennesi si veda principalmente The Cambridge
Companion to the Piano, ed. by David Rowland, Cambridge,
Cambridge University Press, 1998, pp. 22-26.
[21] Ibid.,
p. 22; il passo è inoltre parzialmente riportato in
KOMLÓS, cit., p. 28.
[22] Il passo è
riportato in CHRISTOPHER KITE, «The day has still to come
when Mozart on a Steinway will be regarded… as necessarily a
kind of transcription», «Early Music», XIII/1,
1985, pp. 54-56: 55.
[23] HAROLD C.
SCHONBERG, I Grandi Musicisti, Milano, Mondadori, 1972, pp.
72-73.
[24] Vedi GERNOT
GRUBER, La fortuna di Mozart, Torino, Einaudi, 1987, p.
9.
[25] Ibid.,
p. 42.
[26] Ibid.,
p. 43.
[27] BADURA-SKODA,
cit., pp. 43-44.
[28] KENYON, cit.,
p. 142. Le cose non devono essere effettivamente cambiate molto e
lo testimoniano ad esempio le autorevoli parole di Giorgio Pestelli
il quale, in un suo intervento apparso sul quotidiano «La
Stampa» di Torino (parte di una serie di recensioni poi
riunite in un’unica pubblicazione), riferendosi ad una
incisione di Edwin Fischer, afferma come il maestro sapesse suonare
il Concerto KV 482 di Mozart «con l’innocenza di
un bambino (cioè con l’animo di un adulto che ha
riconquistato il bambino), con un fraseggio limpido come acqua di
fonte, senza avviluppare il suono di troppe precauzioni culturali e
storicistiche». Non sappiamo a quali ‘precauzioni
storicistiche’ Pestelli alluda, ma riconosciamo invece
quell’appiccicosa idea di ‘Mozart eterno
fanciullo’ che tanto ha influenzato esecuzioni in cui tutto
risulta sì elegante ma fastidiosamente
‘miniaturizzato’. Del resto non meno fastidiose
risultano le parole che Pestelli spende riguardo ad una incisione
della Sinfonia KV 550: «eppure quel tema
[incipit della sinfonia] in cui Mozart ha tante cose
disperate da dire, ritorna nuovo nelle mani di Walter, che lo
stacca con un passo, un palpito che è l’immagine stessa
dell’affetto e del dolore; molti direttori più giovani,
con la buona intenzione, come si dice, di rimettere Mozart nel suo
tempo lo affrettano, rivestendolo di sonorità "settecentesche"
che diventano invece secche e scorticate; ma ormai Mozart è
uscito dal suo tempo e da qualunque tempo e vive con noi».
Anche qui non possiamo sapere a quali esecuzioni Pestelli si
riferisca quando allude alle "secche e scorticate" sonorità
settecentesche, dunque non possiamo avere modo di replicare.
Ciò su cui ci preme soffermarci è invece la frase
conclusiva del passo riportato: evidentemente a Pestelli pare
dispiacere il fatto che Mozart sia un autore della fine del
Settecento. Sostenere che Mozart sia uscito dal "suo tempo" è
un’affermazione secondo noi quanto meno ‘musicalmente
pericolosa’, affermare poi che sia uscito da "qualunque
tempo" è invece semplicemente senza significato. Vedi GIORGIO
PESTELLI, Gli Immortali: come comporre una discoteca di musica
classica, Torino, Einaudi, 2004, pp. 73 e 107.
[29] KENYON, cit.,
p. 143.
[30] MALCOLM BILSON,
Why Not Diversity In Sound?, «The New York Times»,
June 14 1998.
[31] BILSON, The
Mozart Piano Concertos, cit., p. 60.
[32] AUDREY AXINN,
An Intimate Encounter With a Historical Instrument,
«The Juilliard Journal Online», XIX/4, 2003-2004
(http://www.juilliard.edu/update/journal/j_articles135.html).
[33] Il passo è
riportato in STEFANO FIUZZI, Il recupero del fortepiano e la sua
presenza nella vita musicale contemporanea, in
«Trecento anni: li dimostra?» Il pianoforte nella
società di oggi, Atti del convegno (Villa Gallia, Como,
5-6 giugno 1999), consultabile online all’indirizzo:
http://www.furcht.it/300fzz3.htm
[34] MALCOLM BILSON,
Keyboards, in The New Grove Handbooks in Music.
Performance practice. Music after 1600, ed. by Howard Mayer
Brown and Stanley Sadie, Houndmills-London, MacMillan Press, 1989,
pp. 223-238: 231.
[35] MALCOLM BILSON,
Late Beethoven and early pianos, «Early Music»,
X/4, 1982, pp. 517-518: 518.
[36] TIELLA,
Strumenti a tastiera, cit., p. 27.
[37] Ibid.,
pp. 28-29. Sulla questione dell’evoluzione la medesima
posizione viene fermamente proposta da Malcolm Bilson in un
contributo volto a replicare alle posizioni di Erik van Tassel
riguardo alla recensione dell’integrale delle sinfonie di
Wolfgang Amadeus Mozart realizzata da Christopher Hogwood per la
casa discografica Decca. Il punto di partenza per la riflessione di
Bilson è rappresentato dall’affermazione secondo cui gli
esecutori di oggi sorpasserebbero tecnicamente di gran lunga gli
esecutori del periodo mozartiano. La replica del professore di
Ithaca è chiara: «There is a point to which I would like
to take exception: the noting that players today "may far surpass
the composer’s contemporaries in technical skill" […]
There are no recordings from the period to compare with modern
ones, but there are some very important indications of just how
high the standard of good music-making was in Mozart’s time
[…] Then there are the instruments. Our own century, with its
advanced technology, has not yet been able to construct violin
better than those produced in the 18th century. And as a
player of historical keyboard instruments, I firmly believe that
Stein’s instrument were never surpassed» (MALCOLM
BILSON, Interpreting Mozart, «Early Music», XII/4,
1984, pp. 519-521: 521).
[38] BADURA-SKODA,
cit., p. 91.
[39] CARL PHILIPP
EMANUEL BACH, L’interpretazione della musica barocca.
Saggio di metodo della tastiera, a cura di
Gabriella Gentili Verona, Milano, Curci, 19916, p.
86. È altrettanto vero però che questa sorta di
‘invettiva’ testimonia la realizzazione in levare
dell’appoggiatura che, pur non incontrando i favori di
Philipp Emanuel, era assolutamente praticata. Proprio al riguardo
Bach viene redarguito (con una schiettezza che non è più
dei nostri tempi) da Arnold Dolmetsch nel suo fondamentale e
pionieristico studio sull’interpretazione della musica del
Sei- e Settecento. Scrive Dolmetsch: «l’interpretazione
[delle appoggiature in levare] condannata dall’autore [C.P.E.
Bach] è stata impiegata da molti eccellenti musicisti
[…] non si tratta che delle cosiddette appoggiature di
passaggio. […] Che a C.Ph.E. Bach potessero non piacere
è ammissibile; non fu certo obbligato ad impiegarle nei suoi
lavori». A sostegno di quanto affermato Dolmetsch porta quindi
come esempio quanto si trova, riguardo alle appoggiature di
passaggio, nei trattati di Johann Joachim Quantz e Leopold
Mozart. Si veda: ARNOLD DOLMETSCH, L’interpretazione della
musica dei secoli XVII e XVIII, Milano, Rugginenti, 1994, pp.
121-124; JOHANN JOACHIM QUANTZ, Trattato sul flauto
traverso, a cura di Sergio Balestracci, Lucca, LIM, 1992, p.
109; LEOPOLD MOZART, Scuola di violino, a cura di Giovanni
Pacor e Gloria Giliberti, Gaeta, Editore Geroglifico,
19913, pp. 221-222.
[40] Per quel che
riguarda la descrizione organologica della Prellmechanik si
veda principalmente: PHILIP BELT, Germania e Austria
(1750-1800), in Il Pianoforte, cit., pp. 19-25.
[41] BILSON, The
Mozart Piano Concertos, cit., p. 60.
[42] Il passo è
riportato in MALCOLM BILSON, Knowing the Score. Do We Know How
to Read Urtext Editions and How Can This Lead to Expressive and
Passionate Performance?, 1DVD, Cornell University Press,
2005.
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