Tavola rotonda coordinata da Fabrizio Della Seta
Fabrizio Della Seta Questa tavola rotonda avrà delle caratteristiche particolari rispetto al solito uso. Io dirò solo qualche parola introduttiva; nei giorni scorsi in realtà abbiamo già parlato e discusso di quasi tutti gli argomenti e i problemi. Possiamo però paragonare le nostre tre giornate ad un primo movimento di sonata: giovedì c’è stata l’esposizione, ieri lo sviluppo e oggi ci sarà la ripresa, in cui offriamo lo stesso materiale tematico ma con una sintesi diversa. Ci sarà anche la coda, costituita dalla conclusione del workshop. Di solito nelle tavole rotonde c’è una relazione di base, ma questa non ce l’ha, essendo molto più informale; speriamo invece che ci sia un dibattito vivo. La prima cosa che vorrei dire è personale. Io sono qui un po’ come un intruso; forse non sono la persona più qualificata, perché in anni ormai remoti mi sono occupato del repertorio e degli autori di cui si è parlato, però all’epoca non mi ero interessato di avere un approccio filologico, me ne interessavo dal punto di vista storico-sociale generale. Adesso sono diventato filologo, però mi occupo di un repertorio diverso, cioè quello dell’Ottocento italiano. Questa tuttavia potrebbe non essere una cosa negativa, perché potrei contribuire con il punto di vista di qualcuno che si occupa di cose diverse e che vede le somiglianze e le differenze. Devo dire che le somiglianze sono molte: molti dei problemi che sono stati sollevati nei giorni scorsi li riconoscevo; la cosa non stupisce, perché alla fin fine c’è una continuità nella produzione della musica dal Seicento a tutto il Settecento, fino almeno alla prima metà dell’Ottocento, e questa continuità è costituita dal sistema produttivo. Qui si è parlato soprattutto di musica teatrale, anche se il tema del convegno era la musica vocale italiana; il modo in cui si produce l’opera nel 1820-1830 è sostanzialmente lo stesso del 1770 circa; ciò ha delle conseguenze anche sullo statuto testuale di questo repertorio. Anche per l’opera italiana dell’Ottocento ormai i concetti di testo stabile e definitivo, volontà d’autore, ultima versione d’autore sono superati, o piuttosto visti in maniera molto diversa. Fra i problemi che ieri sono stati molto dibattuti ce ne sono alcuni nei quali mi imbatto continuamente, ad esempio quello dei tagli. Anche nelle partiture di Donizetti e di Verdi si trovano continuamente sezioni tagliate e bisogna ogni volta interrogarsi se sono state eliminate definitivamente (ammesso che ci sia qualcosa di definitivo) oppure se si tratta di soppressioni provvisorie che potrebbero essere riaperte in altre occasioni. Un tema di cui non si è parlato affatto, ma che sicuramente si pone anche per la musica del Sei-Settecento, è quello della trasposizione dei brani, che era praticata normalmente. Questo incide sul nostro modo di pubblicare tali musiche e pone dei problemi di carattere analitico, soprattutto se riteniamo che ci siano fattori di architettura tonale complessiva dell’opera; sono problemi che comunque vanno affrontati. Questi sono alcuni dei punti di somiglianza (ce ne sarebbero anche altri), e naturalmente ci sono anche delle differenze, però sono differenze direi a posteriori, che riguardano più noi oggi che il repertorio stesso. Per la musica dell’Ottocento abbiamo a che fare con opere il cui radicamento nel repertorio e quindi nell’immaginario pubblico è molto diverso, e perciò anche l’aspettativa di chi recepisce queste opere è completamente diversa. Per quanto oggi siano rientrate in circolo opere di Händel e di Vivaldi, è chiaro che la loro popolarità non potrà mai competere con quella del Barbiere di Siviglia, di Lucia di Lammermoor o Rigoletto. È un problema di rapporto col pubblico, che è abituato a sentire quelle opere in un certo modo e per cui sentirle in maniera diversa può essere qualcosa di ostico o scioccante. Poi c’è un problema di rapporto con gli esecutori; abbiamo dibattuto molto del rapporto musicista-musicologo, però è chiaro che tra i musicisti che si occupano del repertorio sei-settecentesco c’è mediamente un grado di consapevolezza dei problemi filologici molto più alto di quello che è normale per gli esecutori del repertorio ottocentesco: la normale orchestra di un teatro qualunque, sia di alto livello che del teatro di provincia. Ma questo vale anche per i direttori e soprattutto per i cantanti, abituati a cantare le cose in un certo modo. Qui si tratta di discutere o di lottare contro abitudini molto più radicate di quanto non lo siano per il repertorio più antico. E questo è un problema che noi filologi e curatori di edizioni critiche dobbiamo affrontare costantemente, perché (e qui vengo ad uno dei temi fondamentali) l’edizione critica non può non tenere conto della sua destinazione anche pratica. Il musicologo si deve porre fin dall’inizio il problema di trovare un giusto equilibrio, una giusta sintesi tra l’esigenza della scientificità, del rigore, che non sopporta compromessi, e il fatto che queste partiture devono comunque essere utilizzate da persone concrete, le quali hanno bisogno di essere guidate dolcemente alla soluzione di problemi, o se non alla soluzione, a ragionare sui problemi e trovare per conto loro la soluzione. Nei giorni scorsi abbiamo sentito parlare spesso di una differenziazione tra edizioni scientifiche e edizioni pratiche. Io non sono convinto di questa distinzione: una buona edizione deve essere contemporaneamente rigorosa dal punto di vista scientifico e utilizzabile dal punto di vista pratico. Questo per motivi anche economici: per una cantata a voce sola e basso continuo del primo Settecento è anche pensabile fare due edizioni diverse, ma per una grossa partitura operistica è inimmaginabile. D’altronde lo vediamo anche nell’ambito delle grandi edizioni critiche che ormai sono terminate (penso alla Neue Mozart-Ausgabe e alla Neue Bach-Ausgabe): gli editori specializzati (Bärenreiter, Henle, Schott) traggono dalla loro grande edizione in folio cartonato delle edizioni commerciali paperback, il cui testo è sempre il medesimo; non esiste la distinzione fra un testo per i musicologi e un testo per gli esecutori. Le differenze riguardano (a parte il formato) il fatto che nelle edizioni commerciali normalmente non c’è apparato critico e le introduzioni si limitano a sintetizzare e mettere a fuoco i principali problemi, ma non si pone nemmeno in discussione il fatto che il testo musicale debba essere lo stesso. Dev’essere un testo utilizzabile, non, come in un esempio fatto da Philip Gossett, un testo che quando si trova sul leggio del direttore o del violinista provoca un’interruzione di dieci minuti nelle prove per decidere se un passo è staccato o legato, perché in una parte di trova in un modo e in una parte nell’altro; non può e non deve succedere, sarebbe la rovina del concetto di edizione critica perché nessun teatro accetterebbe questa edizione e quindi alla lunga nessun editore la pubblicherebbe. Questo è uno dei punti che mi sembrano interessanti; vorrei richiamarmi a quanto ha detto ieri il M° Bonizzoni nel suo intervento. Ha detto una frase che mi è piaciuta molto: «Gli apparati critici devono essere onesti». Poi ne abbiamo brevemente parlato e gli ho chiesto che cosa intendesse; che debbano essere onesti dal punto di vista scientifico, cioè che il musicologo abbia fatto tutti gli sforzi possibili per acquisire i dati rigorosamente, nel limite dell’umano, è scontato; quindi non è di questo che parliamo. Io penso che ‘onesti’ si possa intendere nel senso più banale ma importante di ‘leggibili’. Negli apparati si accumula una quantità notevole di informazioni, ma spesso queste informazioni sono talmente tante che – a parte la pazienza (non da tutti) occorrente per mettersi a leggerli da cima a fondo – soprattutto rischiano di appiattire sullo stesso piano quello che è veramente fondamentale e quello che è sì importante, ma per altri fini. Non tutto quello che è importante per il musicologo è ugualmente importante per il musicista; però le cose veramente importanti devono essere messe nel giusto rilievo e bisogna fare in modo che il musicista le percepisca; questo si può ottenere in diversi modi, per esempio immaginando apparati critici per fasce differenziate. Una funzione molto importante in questo caso ce l’hanno le introduzioni, che devono essere assolutamente leggibili e prodotte in maniera accurata, altrimenti tutto il lavoro che si è fatto diventa inutile. Ripeto, ed è una cosa che dico spesso anche a lezione: le edizioni critiche non offrono soluzioni, offrono problemi e qualche spunto per una soluzione, che deve essere trovata dall’esecutore, o anche dal lettore nella sua esecuzione mentale. Quindi l’edizione critica aumenta il grado di fatica dell’esecutore, non lo diminuisce; però non aumentiamolo inutilmente! Un ultimo punto che tocco, oggetto di dibattito anche ieri sera, riguarda la supposta contrapposizione fra musicologo e musicista; è un’opposizione empirica, che riguarda soprattutto un grado di professionalità più che una sostanza, a parte il fatto che esistono musicologi-musicisti e musicisti-musicologi: ne abbiamo esempi illustri in questa sala (penso naturalmente al M° Curtis e al M° Sardelli). La cosa deve essere chiara: un musicologo non può non essere un musicista; ovvio, non sarà un musicista con un pari livello di preparazione di un musicista professionista (altrimenti farebbe un altro mestiere), ma nel lavorare non può dimenticare certe cose; anche il musicista, se vuole essere un musicista consapevole, deve essere musicologo nel senso di controllare senza accettare acriticamente quello che trova nelle edizioni. Quindi questa opposizione di principio non c’è e non ci deve essere; ci deve essere un dialogo continuo. Ieri si è parlato molto del fatto che spesso i musicisti si rivolgono ai musicologi per avere consigli e chiarimenti, ed è un bene che sia così, però vale anche il contrario: i musicologi, nel loro lavoro, siccome non possono avere certezze ed esperienza su tutto, si rivolgono ai musicisti. Quante volte io stesso ho chiesto ad un violinista, davanti ad un accordo che mi sembrava strano, se fosse eseguibile oppure un errore; soprattutto ho chiesto ai cantanti se le parti vocali fossero conformi a certe regole della buona condotta vocale. Se uno ha la fortuna di essere sia musicologo sia musicista bene, altrimenti il dialogo dovrebbe essere la condizione normale. Non vorrei rubare altro tempo, perché non ne abbiamo molto; nell’organizzare questa tavola rotonda ho formulato, o meglio abbiamo formulato (partendo dal dialogo tra me e Angela Romagnoli), alcune domande, che già ci siamo posti in varie forme: esiste uno standard di edizione della musica vocale italiana del Sei-Settecento? Se non esiste, sarebbe bene metterlo a punto? Quali sono le possibilità e i limiti del filologo nel produrre un’edizione rivolta anche agli esecutori? Quali sono i compromessi possibili tra rigore scientifico ed esigenze della prassi? L’apparato è utile all’esecutore? Occorre tener conto delle esigenze del sistema produttivo già in sede d’edizione? La qualità del testo a disposizione è importante per il regista e per la produzione in genere? A queste domande i nostri ospiti sono chiamati a rispondere; non tutti a tutte, ovviamente. Faremo un giro d’opinioni. Ho raccomandato a tutti di essere sintetici, e alterneremo un musicista ad un musicologo, sempre ammesso che questa distinzione sia valida; poi spero che si siano reazioni anche da parte del pubblico, con delle risposte e quindi un secondo giro di interventi. Quasi tutti i partecipanti alla tavola rotonda non hanno bisogno di essere presentati, perché lo sono già stati nei giorni scorsi; abbiamo però con grande piacere il M° Alessandro De Marchi alla mia sinistra, che invece è potuto arrivare solo stamattina, e che quindi è in una condizione di ‘verginità mentale’ perché non sa come si è sviluppato il dibattito. Cembalista e direttore, ha inciso la Juditha Triumphans e Orlando finto pazzo di Vivaldi, e ha diretto recentemente la Cleofide di Hasse. Vorrei quindi cominciare proprio da lui, visto che non ha avuto ancora modo di intervenire, e chiedere la sua opinione. Alessandro De Marchi Penso che andrò subito fuori tema. Il musicista che si confronta con partiture del Sei-Settecento è abituato a trafficare con microfilm, conosce le fonti, nel 99 per cento dei casi ha Finale o Sibelius sul computer, può permettersi insomma di farsi un’edizione critica personale. Il problema grosso è con l’Ottocento, con i casi più eclatanti in cui le partiture non sono disponibili, e problemi di natura non musicale interferiscono con la possibilità di usare l’edizione critica ‘ufficiale’. Abbiamo avuto problemi molto pratici, ad esempio, con l’Italiana in Algeri per una mia esecuzione e siamo stati obbligati, per avere un testo adeguato, a reperire tutti i manoscritti e rifarci la nostra edizione ‘casereccia’, però senza la fonte principale, che era totalmente inaccessibile. C’è da chiedersi di chi siano veramente le partiture di Rossini o Donizetti: degli studiosi, di chi le ha comprate, o sono patrimonio del mondo? È anche necessario, per l’onestà di cui parlavamo prima, che noi musicisti abbiamo il massimo delle informazioni possibile, in modo da poter aggiungere alla partitura ciò che serve. Le partiture vivaldiane, ad esempio, sono un ginepraio di incrostazione della prima ripresa, la seconda, i ripensamenti, la cantante con il mal di pancia, ecc., e anche per Vivaldi ci vorrebbero più informazioni sulle edizioni critiche. Un musicista che affronta musica di quest’epoca deve poter scegliere, farsi una sua ricostruzione, stabilire un criterio estetico, formale, drammaturgico, e prendersi la responsabilità della scelta finale. È importante l’apparato critico e l’appendice, che nelle edizioni di Vivaldi dovrebbe essere quattro volte più grande della partitura stessa. Per la questione delle parti staccate, che forse avete già affrontato ieri, come farle? Io ho visto due casi estremi: l’edizione critica dello Stabat Mater di Pergolesi, con tante di quelle parentesi quadre che non si riusciva a suonare, l’orchestra era continuamente contratta e mai rilassata. L’altro estremo è quello del Barbiere di Siviglia, che ultimamente mi è capitato di dirigere molto spesso sull’edizione Zedda. La partitura rispecchia l’originale, anche se si sono fatte così tante scoperte nel frattempo che andrebbe rifatta, ma le parti staccate sono l’edizione Zedda, con tutta una serie di interventi su colpi d’arco, punti al posto di chiodini e viceversa. Sono interventi necessari; chiunque faccia questo mestiere sa che l’edizione critica è un punto di partenza, e poi si usano chili di matita da parte del direttore e dei musicisti, ma non del curatore dell’edizione. E poi lancio un appello perché, signori musicologi, abbiamo bisogno di voi: noi siamo sempre in giro, con la valigia in mano, non possiamo fare un lavoro di approfondimento come quello che fate voi. Tutte le volte che abbiamo bisogno di informazioni fondamentali voi ci date la possibilità di sapere di più delle vicende storiche, politiche e sociali che riguardano un pezzo, o sul cast originale che l’ha eseguito. Abbiamo necessità innanzitutto di un testo chiaro e onesto, come si è detto in precedenza, di sapere qual è l’organico originale, come erano seduti, chi ha diretto e come, come si facevano le appoggiature, quando e come interveniva il basso continuo, che cosa facevano in più rispetto alla partitura… Una delle domande che facevo ieri ad Angela Romagnoli era questa: è possibile che del Seicento non ci sia rimasto uno straccio di parte staccata, e ci sia rimasto tutt’al più qualche schizzo dei compositori? E che non riusciamo a sapere, soprattutto per quanto riguarda il Seicento, se il cembalo suonava sempre, cosa facessero violoncelli e liuti, se quelle linee lasciate vuote da Cavalli o chi per lui erano lì per bellezza o andavano riempite successivamente, se i musicisti erano abituati a improvvisare insieme come i jazzisti che fanno Dixieland… ci sono tante cose da discutere. Aiutateci a ricostruire la prassi esecutiva, fate più lavoro sulla prassi perché il lavoro storico è importantissimo ma non è esattamente quello di cui abbiamo bisogno; a noi serve una montagna di informazioni che non sono necessarie solo se uno vuole avere un approccio fantasioso alla partitura. Ovviamente chi, come me, è cresciuto nella musica antica riuscirebbe comunque a fare esecuzioni decenti anche senza queste informazioni, ma è molto meglio averle, e fare le necessarie distinzioni tra Händel e Scarlatti, Rossini e Pasquini. Insomma, abbiamo bisogno di apparati critici e di informazioni sulla prassi esecutiva. Della Seta Sarei molto tentato di rispondere alle provocazioni su Rossini, ma andremmo fuori tema. Sono d’accordo sulle obiezioni sulle edizioni critiche, ma oggi sono più ricche di informazioni: hanno dei limiti, è vero, ma su alcune cose più di tanto non si può sapere. Su problemi come l’ornamentazione vocale (qui abbiamo Damien Colas che è un esperto al riguardo) o sugli organici, oggi ci sono alcune informazioni sia nelle edizioni critiche che in contributi a parte. E ora cedo la parola a Michael Talbot. Michael Talbot Rispondo alle domande poste precedentemente da Della Seta, di cui condivido pienamente i criteri introduttivi. Eviterei di parlare tout court di standard di edizione relativo alla musica italiana del Sei-Settecento. Al massimo si tratterebbe di pratiche con varianti legittime che questo tipo di musica condivide con musica antica o semi-antica. I limiti del filologo nel produrre edizioni rivolte ad un esecutore sono più pratici che teorici: costo e peso di un’edizione critica possono essere scoraggianti per gli esecutori, ma se il curatore riesce a presentare la premessa e l’apparato critico in modo conciso e sintetico senza però usare troppe abbreviazioni può soddisfare entrambi i criteri. Non è un compromesso, ma è un modo di distinguere in base all’importanza. L’apparato critico può essere utile, addirittura indispensabile all’esecutore. Quando si tratta di informazioni che non posso dare in partitura, ho spesso trovato utile l’indicazione «vedi apparato critico» a piè di pagina: non dappertutto, solo per i casi più importanti. Ovviamente non si può ignorare il sistema produttivo della casa editoriale: se il comitato editoriale prescrive l’uso di semiparentesi quadre io le uso volentieri, se tonde idem. Ovviamente la qualità del testo è di primaria importanza per il regista e i suoi collaboratori. La partitura deve includere indicazioni sulla sceneggiatura, i movimenti e i gesti dei personaggi, gli a parte, anche se il regista ha idee diverse al riguardo; se la partitura non contiene queste indicazioni, si devono prendere dal libretto a stampa. Fabio Bonizzoni Mi sembra che le risposte date da Talbot siano pienamente condivisibili. Vorrei solo aggiungere una cosa che potrà sembrare marginale, ma forse proprio perché tale può sfuggire rispetto ai problemi più seri che stiamo affrontando in questo convegno. È un po’ una sciocchezza forse, ma le edizioni critiche più recenti, che sono fatte molto bene dal punto di vista tecnico, tralasciano poi dettagli pratici come le voltate di pagina. Ad esempio la Neue Bach-Ausgabe ha delle voltate allucinanti, e un pezzo di musica che sulla vecchia edizione Peters stava su quattro pagine ora sta su otto. È un’edizione bellissima, ma dovrebbe tenere conto che la musica non è solo studiata ma anche suonata. Della Seta È un problema giustissimo, la questione è che il curatore dell’edizione, l’Editor in senso inglese, non coincide con il Verleger, l’editore in senso italiano, anzi spesso queste due figure sono in conflitto… Bonizzoni Ma risparmiare dovrebbe convenire a tutti… Della Seta Sì, ma gli editori di musica sono abituati a ragionare con certi criteri e gli è difficile cambiarli. Il problema delle parti è già venuto fuori in precedenza. Nelle edizioni rossiniane le parti staccate sono diverse da quelle dell’edizione critica, non ci sono tutte quelle parentesi e altri segni editoriali; non so come avvenga per Bärenreiter, ma per Rossini, Verdi, Bellini e Donizetti c’è stata una scelta precisa di editare le parti in modo che siano eseguibili. Le informazioni dell’edizione critica sono a disposizione del direttore, che può chiedere ai professori d’orchestra di non fare le legature tratteggiate perché non autografe per esempio… ci sono addirittura set di parti completamente pulite e parti riviste dal violino di spalla della Scala. I direttori possono scegliere l’una o l’altra, di solito scelgono quella pulita in modo da poter introdurre giustamente le proprie indicazioni. Il problema comunque si pone, ma sono spese supplementari per l’editore e comportano perciò delle remore. Forse riprenderemo ancora questo discorso. Bonizzoni Aggiungo una cosa. Sembra che noi musicisti siamo qui a tirarvi le orecchie, ma siamo solidali con voi: sappiamo che quello del musicologo è un lavoro difficile, ma alla fine ognuno si è scelto il suo mestiere… De Marchi Volevo dire che per esempio la Cenerentola, che ha un’edizione critica meravigliosa con un bell’apparato critico, viene ormai diretta solo con la mano destra se non si vuole dirigerla a memoria, perché con la sinistra bisogna girare continuamente le pagine! Della Seta Sì, questo è un problema di quell’edizione, invece partiture come quelle di Verdi hanno un altro formato ma altri problemi di leggibilità, perché c’è un eccesso di differenziazione: la perfezione è insomma difficile da ottenere. Passo ora la parola ad Arnold Jacobshagen. Arnold Jacobshagen Molti argomenti sono già stati trattati, ma un altro argomento è la scelta del repertorio da editare, che riguarda problemi di politica editoriale. Ho preparato un piccolo riassunto incompleto delle principali serie di edizioni d’opera tra Sei e Settecento e potete rintracciarle grazie ai colori. In questo riassunto sono elencati solo i compositori presenti in almeno due edizioni. La serie più ampia e ‘democratica’ è quella della Garland, perché ogni compositore è rappresentato con un’opera, con qualche eccezione (Cavalli, Leo, Vinci e Cesti, ad esempio, ne hanno due). Nelle altre serie i compositori cosiddetti napoletani non sono invece rappresentati. Drammaturgia musicale veneta e Handel Sources testimoniano un dislivello geografico e una concezione gerarchica dei compositori. Il caso della monumentalizzazione di Händel mostra bene il rapporto tra edizioni e incisioni. Siamo tutti consapevoli dei problemi di queste edizioni monumentali, della sopravvalutazione dell’autore che fornisce un’immagine falsa della realtà storica. Prevalgono oggi i casi marginali perché più facili da editare e più adeguati ai criteri stabiliti. Le esecuzioni storicamente informate dovrebbero privilegiare i repertori più significativi. Il fatto che questi siano poco editi è dovuto al fatto che compositori che all’epoca hanno avuto molto successo hanno una tradizione testuale estremamente complessa. Soprattutto, per casi difficili sarebbe meglio usare, invece degli standard di edizione, edizioni aperte, digitalizzate, che potrebbero integrare versioni diverse e fonti eterogenee. De Marchi ha menzionato Rossini, come Colas e Della Seta: voglio ricordare che l’edizione di Guglielmo Tell contiene, oltre all’edizione dei quattro grandi volumi della musica, anche il libretto in quattro versioni diverse, la messa in scena secondo il livret de mise en scéne, un volume iconografico su quest’opera. Il repertorio ottocentesco è molto diverso da questo, ma c’è bisogno di allargare il campo. Della Seta Jacobshagen ha risposto sul fatto che l’edizione critica non è solo edizione della musica, ma anche del libretto, della messa in scena, della scenografia. Perciò è il momento giusto per chiamare a parlare Deda Cristina Colonna, esperta di questi problemi. Deda Cristina Colonna La mia opinione è che l’edizione critica di qualsiasi opera dovrebbe estendersi a ciò che riguarda la prassi dello spettacolo, perché per noi è importante sapere come le persone si disponevano, per permetterci di fare uno spettacolo anche senza voler fare una ricostruzione. È importante sapere cosa facevano, la prassi, come era illuminata la scena, come erano i costumi, le botole, gli effetti teatrali così importanti nell’opera barocca, voli, incendi, le cose che danno all’opera teatrale la sua forma. Quante volte un musicologo lavora con un regista o uno storico dello spettacolo? Esiste ormai in Europa un’importante scuola di coreologia. Io ho avuto la fortuna di studiare con Francine Lancelot, fondatrice della scuola francese, che ha lavorato con direttori importanti come William Christie. Io ricordo per esempio anni fa di aver coreografato l’Ippolito e Aricia di Traetta al festival di Martina Franca della Valle d’Itria. Non so fino a che punto l’edizione fosse critica o meno… Comunque io poi ho ripreso l’opera a Montpellier con Rousset e finalmente ho potuto far ballare i danzatori. Il primo direttore, che non era uno specialista di musica barocca, è rimasto piuttosto impermeabile alle mie richieste, mentre a me sono state fatte le proposte più fantasiose, tra cui alcune bizzarre idee sulla gavotta e la contradanse, e altre che vi risparmio, anche perché il direttore in questione è mancato poco tempo dopo e non potrebbe quindi ribattere. Questo per dire che è bene informarsi su qualsiasi tipo di opera che comprenda danza. Voi saprete che per la danza barocca esiste un sistema di notazione, il sistema Feuillet, che nasce però nell’anno 1700. Ovviamente i ballerini ballavano molto anche prima del 1700, ma nessuna musica per danza con coreografia notata è pubblicata prima di quell’anno. Succede perciò che si abbia documentazione delle danze di un’opera per le quali sappiamo che il tal signore e signorina hanno ballato nel tal modo con i tali passi magari quarant’anni dopo la prima rappresentazione di quell’opera, perché questo tipo di opere avevano molto successo ed erano rappresentate per un periodo molto lungo. Per la danza il corpus del materiale per le ricerche è esiguo: abbiamo fonti francesi, inglesi, tedesche, spagnole, e solo un manoscritto italiano a Venezia, ma forse andrebbero incoraggiate le ricerche degli studenti. Se a Venezia è stato ritrovato un manoscritto di Grossatesta di cui egli aveva fatto dono a un patrizio nel 1726, ed egli pensava di fare bella figura, significa che il sistema di scrittura della danza era noto alla società veneziana e ci saranno altre di queste fonti nei fondi di Venezia o altrove. Essenzialmente i punti che propongo per un’eventuale riflessione sono: studio della prassi e delle informazioni tecniche degli spettacoli, collaborazione con i coreologi. Della Seta Grazie, penso che siamo assolutamente d’accordo. Ricordo l’intervento di Petrobelli di giovedì che sottolineava questo aspetto, e adesso Jacobshagen ricordava il volume iconografico del Guillaume Tell e l’aspetto della mise en scène, che oggi è in gran parte esplorato per quanto riguarda l’Opéra di Parigi. Posso ricordare il convegno di Parma sulla messa in scena dell’opera verdiana nel ‘94, e anche le esortazioni di Roger Parker per un'edizione post-moderna di Donizetti. Vorrei fare una domanda: quante volte i registi chiedono la collaborazione dei musicologi? Tra musicisti e musicologi c’è un dialogo spesso acuto e polemico, ma almeno c’è, mentre con i registi non lo vedo molto. Colonna Non credo sia per cattiva volontà di nessuno. Ho seguito per lungo tempo Pierluigi Pizzi: lui, che è persona di buona cultura e istinto teatrale, se c’è un’edizione critica dell’opera che deve mettere in scena si prepara, se c’è qualcosa da leggere lo fa. Io che sono una regista meno famosa, che però cerca di semplificarsi la vita quando può, mi documento. Certo a me serve di più trarre da un’edizione critica un certo tipo di ragionamento. Ricordo Gli amori di Apollo e Dafne a Fano con Alessandro de Marchi direttore, in cui c’è la musica con Apollo che discende dall’Olimpo e infatti le prime parole che dice sono: «Discendo dall’Olimpo», e prima c’è un lungo brano su cui avviene la discesa. E se invece di avere scritto solo «vola» ci fosse un’analisi musicologica del pezzo che può aiutare il regista? Il regista non sa niente di musica, cosa volete che chieda al musicologo? Io lo dico in modo assolutamente non polemico… Della Seta Per queste cose i documenti visuali sono molto carenti. Colonna Per esempio, da qualche parte c’è l’indicazione di affetti veicolati dalla musica rappresentativa del Seicento. C’è tutta una teoria degli affetti legata alle tonalità, e un regista che vuole mettere in scena l’Incoronazione di Poppea si gioverebbe molto di uno studio sistematico dell’impianto tonale dell’opera. Gli affetti veicolati da aspetti tecnici della musica sono cose che i registi possono imparare dai musicologi. Non so se un’edizione critica standard sia il luogo migliore in cui porre queste indicazioni, ma all’interno di una collaborazione nella messa in scena di un’opera è necessario. Talbot Se non erro Grossatesta figura più volte nei libretti d’opera, è quindi un personaggio di somma importanza per le edizioni dei melodrammi coevi Colonna Sì certo, Gaetano Grossatesta (la cui massima esperta è una coreologa italiana, Gloria Giordano, che ha pubblicato il manoscritto per la LIM) ha avuto un primo momento veneziano e un secondo momento a Napoli, dove è stato uno dei personaggi di spicco del mondo teatrale. De Marchi In tutti i teatri tedeschi ci sono uno o più drammaturghi, che sono intellettuali di supporto che aiutano il regista e il direttore proprio per queste cose. In Italia non esistono: mai in Italia si spenderebbero soldi per stipendiare una persona così! È un peccato che sia proprio la cosa che ci manca tanto spesso, perché molte volte in Germania questa figura è un musicologo, o qualcuno che si intende di storia dell’arte. Della Seta Certo, infatti niente di meno che Carl Dahlhaus ha iniziato la sua attività proprio come Dramaturg. Reinhard Strohm Questa osservazione, come tante altre, si riferisce al problema della collaborazione nel XX secolo. I modi nei quali operiamo derivano da uno status economico-finanziario che non corrisponde alle esigenze. Per esempio, l’apparato critico appartiene alla tradizione della filologia dell’Ottocento, ed è stato istituito prima dell’epoca del microfilm, prima anche di quella del telefono. È una tradizione antichissima, che precede, riferendoci a quanto detto adesso, la storia del teatro e della danza, e negli anni Venti di queste cose non si occupava il musicologo, ma l’esecutore. Il libretto non è più quello che era nel Settecento: oggi non esiste più, essendo stato rimpiazzato dai sopratitoli. La conseguenza è che il programma di sala è forse il mezzo più importante per informare il pubblico, contenendo il testo, la sua traduzione e altre informazioni. Altra cosa è la partitura, che secondo Talbot dovrebbe comprendere informazioni importanti per il regista: nel Sei-Settecento essa non aveva questa funzione. D’altra parte abbiamo tante nuove possibilità, come tra l'altro i microfilm o Internet: possiamo quindi ripensare alle possibilità di scambio reciproco delle informazioni tra musicisti e musicologi. Noi collaboriamo con un mondo ancora tutto da conquistare, quello dell’industria divulgativa, degli editori, dei finanziatori, delle case discografiche e della scuola. Dobbiamo informare in modo nuovo i giovani e il pubblico, non c’è bisogno di apparati critici se il lettore è istruito sull’uso di una partitura e può integrarla con le informazioni contenute nella prefazione. Bisogna ripensare anche la conoscenza che abbiamo degli aspetti teatrali di una partitura: il regista del XX secolo non conosce queste cose perché non ha studiato a scuola che esiste una pratica teatrale del Sei-Settecento che è diversa da quella del Novecento. Più di trent’anni fa ho scritto che non avevamo capito che l’opera del Settecento è parte del teatro del Settecento, e non l’abbiamo capito ancor oggi. Noi facciamo innanzitutto teatro, e non solo musica del Settecento con l’aggiunta di un testo in sopratitoli. Un convegno di questo tipo è l’occasione buona per informarci a vicenda e per informare il pubblico, per evitare che il ‘pallone’ che noi riempiamo di informazioni importanti non vada mai in ‘gol’! Federico Maria Sardelli Sono state dette cose molto interessanti, su cui sono quasi interamente d’accordo. Vorrei chiosare sulle esigenze emerse dagli interventi precedenti, ovvero sul fatto che l’edizione critica si debba fare carico di informazioni riguardanti la ricostruzione dello spettacolo tout court: non solo cioè il lato musicale, ma anche quello della prassi esecutiva, della coreutica, della messa in scena, dando informazioni preziose come le dimensioni del palco, ecc., essenziali per la ricostruzione dello spettacolo nella sua totalità. È giusto che l’edizione critica sia caricata della responsabilità di una mole così ampia di informazioni, o è in contrasto con un’idea di apparato critico ‘onesto’ e asciutto, come diceva Michael Talbot, che sia leggibile e non pletorico? Esso potrebbe contenere rimandi a saggi e studi, che esistono in buon numero, riguardanti varie discipline, come iconografia, documenti, repertori, dal cui intreccio ci è data la possibilità di far luce sullo spettacolo in sé. Chi fa un’edizione di un’opera teatrale del Sei-Settecento dovrebbe tratteggiare nel saggio introduttivo i problemi principali, e dare poi informazioni bibliografiche per una più ampia trattazione, altrimenti rischiamo di avere partiture di cento pagine con informazioni collaterali che ne occupano quattrocento. Benché tali informazioni siano importanti, non è compito del musicologo raccoglierle tutte in un unico volume. Vorrei poi fare una postilla sull’apparato critico: sono d’accordo con Talbot sulla necessità di evitare le abbreviazioni, che stancano alla lettura anche il musicista più volenteroso. Bisogna evitare anche la ripetitività delle locuzioni e la discussione a parole di particolarità notazionali della musica, cosa che dà come risultato ardui giri di parole perché è difficile descrivere la musica in questo modo. Sarebbe forse utile inserire in apparato critico, giacché i mezzi lo consentono, frammenti di facsimile, se per esempio devo spiegare che la legatura abbraccia sei note invece che cinque anche se in un luogo parallelo due battute prima ne abbraccia otto ma forse il copista B intendeva dire che… Della Seta L’edizione Zedda del Barbiere di Siviglia, che è un’edizione pre-critica, adotta questo accorgimento per alcuni casi, ma se applicato sistematicamente, non solo agli autografi, ma anche alle copie, comporterebbe altri problemi, come un aumento sproporzionato delle pagine. Mi rendo però conto che spesso gli apparati critici sono difficilmente leggibili, l’importante è che l’essenziale sia in altre parti dell’edizione, la lettura integrale dell’apparato può così essere appannaggio dello studioso. Inoltre, l’edizione critica di un’opera deve contenere solo ciò che riguarda l’opera stessa: non è possibile ogni volta rifare da capo la storia di tutto quello che si è scoperto su un dato argomento e di cui il musicista dovrebbe avere già conoscenza o acquisirla con le letture proposte dalla bibliografia di supporto. Alan Curtis Come esecutore, cosa posso esigere dai miei colleghi musicologi toccando argomenti non ancora affrontati? Per quanto riguarda le parti separate, è imbarazzante scoprire durante le prove che quello che è segnalato in partitura non è quello che c’è nel ‘materiale’ di partenza. Si possono usare le parentesi e altri segni per distinguere ciò che è ‘originale’ da ciò che costituisce le integrazioni dell’editore (ad esempio, per indicare che la parte è assegnata all’oboe o che la legatura prende tre note e non due). Questo il direttore lo deve capire subito e non durante le prove. Altra cosa necessaria dal punto di vista per così dire ‘psicologico’ è una parte separata per contrabbasso: il direttore non può dire davanti a tutti che il contrabbasso deve suonare una parte più ‘essenziale’, come se considerasse incapace lo strumentista. In realtà, nel Settecento le parti per contrabbasso erano spesso molto diverse da quelle per violoncello, ma nell’ottanta, novanta per cento dei casi il compositore non scriveva una parte staccata a sé: dobbiamo quindi riprendere al giorno d’oggi quest’usanza. Non abbiamo poi parlato delle appoggiature. Io vorrei che fossero presenti nelle edizioni non perché non sappia cosa fare, ma perché richiede un notevole impiego di tempo; altre cose di questo genere sono i numeri di battuta, che nelle edizioni Chrysander sono ad esempio assenti, e le cifre del basso continuo. Anche se non sono tutte corrette, è meglio averle e poi correggerle durante le prove che scoprire di avere le parti staccate senza cifre e sentire il cembalo suonare un accordo maggiore e il liuto suonarlo minore; per ovviare a questi problemi servono due o tre prove. Tornando alle appoggiature, oltre al risparmio di tempo la loro presenza a testo permette di far capire ai cantanti che bisogna mettere qualcosa; poi si possono correggere, fare ad esempio un’appoggiatura da sotto invece che da sopra, ma è invece molto più faticoso far capire a un cantante che ha studiato la parte a memoria da settimane che deve fare un’appoggiatura in un determinato punto. È meglio mettere sulla pagina l’appoggiatura: io ho inventato un sistema che vorrei proporre, che consiste nell’adottare la notazione che usano i violinisti per le note sulle corde vuote, mettendo il gambo sopra e sotto insieme, in modo da vedere subito che si tratta di un’appoggiatura. Poi si mette sulla pagina o in prefazione che questo segno vuol dire appoggiatura e si distingue da ciò che è invece la nota originale. È facile da distinguere tra appoggiatura e originale: sappiamo tutti che se la nota originale è un Sol e vediamo Do con il gambo aggiunto significa che in origine era Sol. È facile così ristabilire la notazione originale e anche cambiare l’appoggiatura. Come musicologo cosa posso esigere dagli esecutori? Sicuramente, di utilizzare il lavoro che ho fatto! Posso vedere la cosa da due punti di vista, ottimista e pessimista. Pessimisticamente, mi dico che tutto il lavoro che ho svolto è inutile, se considero i tre volumi di edizioni che ho fatto. Prendiamo L’incoronazione di Poppea, che ha avuto molta pubblicità fuori dall’Italia e che in Italia ho usato solo io! Ogni giorno vengono da me controtenori, soprani e mezzosoprani e portano una fotocopia di una fotocopia di una fotocopia di Malipiero, proprio a me! Per la prima volta dalla pubblicazione delle mie edizioni, l’anno scorso è venuta una bella ragazza del Sud Italia con una fotocopia di una fotocopia della mia edizione. Ha iniziato a cantare riproponendo gli errori di stampa dell’edizione Malipiero, e io le ho chiesto: «perché non canta quello che c’è scritto?». Lei mi ha risposto: «Perché in conservatorio mi hanno detto di cantare l’originale». Passiamo al Ritorno di Ulisse in patria, dove ho visto per esempio che quando Ulisse dice a Minerva «so che per tuo amore furon senza pensiero i miei perigli» segue un verso che termina con «consigli» (in questi testi c’è spesso una rima). Un copista, invece, ha messo: «Furon senza periglio i miei perigli», che non ha molto senso, e Malipiero l’ha cambiato in «Furon senza periglio i miei pensieri» (Ulisse rivoluzionario?). Così non c’è più rima, ma c’è il peso di una specie di ‘tradizione’ di errore che non si può interrompere, invece. L’anno scorso proprio qui a Cremona, dove Monteverdi è nato, cosa hanno fatto nell’allestimento di Ulisse, cosa si legge nel programma di sala? «Furon senza periglio i miei pensieri»! Con la mia edizione, si può correggere note, ritmo, testo senza pagarmi, ma ci si prenda almeno la fatica di leggere e correggere, senza fare poi a Cremona un allestimento con un nonsense. Non era la stessa cosa per Monteverdi cantare un nonsense o un testo poetico molto bello, anche perché non è solo una questione di testo ma di rapporto testo-musica. Un altro punto è quello in cui un copista ha confuso frode per fede, mentre la frase corretta era «O di frode o d’orgoglio in ogni modo è scoglio», e qui a Cremona si è scelto fede. C’è una differenza: uno è passionale, drammatico, ha senso, l’altro è cantare l’elenco telefonico! Ho portato anche il Tito di Cesti, un’edizione più recente sconosciuta in Italia anche se è nota in Francia. Se volete qui potete vedere il metodo che ho usato per distinguere le cifre originali dalle mie o per i problemi di appoggiature, e più in generale un principio su cui vorrei porre enfasi: mettere sulla pagina il più possibile. In Poppea è complicato il problema delle fonti di Napoli e di Venezia, ma se io per esempio metto N su un diesis si capisce subito che quel do è diesis solo nella fonte di Napoli, altrimenti si scopre dopo diverse esecuzioni e incisioni leggendo l’apparato critico, quando è troppo tardi; qualcuno magari non lo scoprirebbe mai. Come suggerito da Talbot, un altro accorgimento utile è quello di mettere di seguito diverse versioni di un’aria se non ce n’è una preferibile ad un’altra, non in appendice solo perché non c’era nella prima esecuzione. Questa è una ‘mania’ presente in tutte le grandi edizioni di Bach, Händel, Gluck, ecc. e ignora le necessità dell’esecutore. Chi fa Rodelinda senza «Vivi tiranno»? È la seconda aria più famosa dopo «Dove sei?», chi canta la parte di Bertarido senza quest’aria? Nell’edizione ufficiale e costosa di Halle è in appendice, perché non era stata eseguita nella prima esecuzione di gennaio ma nella seconda di dicembre, cioè lo stesso anno, quindi tutti come me hanno dovuto fotocopiarla in appendice e metterla in partitura rovinando la rilegatura! Bisogna essere consci del fatto che l’edizione ha necessità d’uso. Cose come il cast e il tipo di voci da usare vanno invece messe nelle prefazioni: io uso un trucco per farle leggere, cioè mettervi informazioni essenziali per il direttore artistico, ad esempio il tipo di voci da richiedere, cosicché leggendola magari impara anche altre cose. Nessuno invece legge tutto l’apparato critico attentamente; ciò non significa che non debba essere fatto, perché è molto importante e fornisce una gran quantità di informazioni su questo tipo di opera, risultando anche di più lunga durata rispetto a un saggio critico. Adorno ad esempio vent’anni fa era osannato, ora dopo Taruskin è quasi odiato. Chrysander ha fatto delle edizioni, invece, che rendono un servizio enorme agli amatori di Händel e durano ancora. Massimiliano Toni Volevo ricollegarmi all’intervento precedente di De Marchi e riprendere quello che è successo ieri [durante il workshop] sulla partitura dell’inizio dell’opera di Conti , che ha dato bene il senso di quello che succede davvero tra musicisti e musicologi più delle parole, pur dette in buona fede. Ieri abbiamo discusso molto problemi di note (la bemolle o la naturale, il passaggio chiudeva in minore…), ma i problemi di note sono relativi, sono altre le informazioni che la musicologia deve dare. Penso che un musicista che affronti questo repertorio per metterlo in scena debba avere la possibilità di manipolare, nel senso proprio del termine, il materiale musicale, e conoscendo lo stile del compositore possa scrivere code o usare materiale per far sì che abbia senso una volta messo in scena, mentre come ha detto prima Deda Cristina Colonna c’è bisogno di altre informazioni. De Marchi ha sottolineato l’importanza di alcune di queste, come la posizione in cui erano seduti, se c’era la buca o meno… Toscanini, in una messa in scena del 1898 a Torino del Ballo in Maschera, ha fatto spegnere luci provocando una rivoluzione, e se n’è andato via rompendo la bacchetta come suo solito. C’è una parte della musicologia che vuole intervenire troppo sulla giustezza delle note e ci sono altri problemi che vengono trascurati. Sebbene si tratti di ricerche intellettuali, molte volte si riducono a ciò che vogliamo sentire. So che si tratta di problemi difficili, ad esempio il problema evidenziato ieri del «senza cembalo», ma io ho notato la volontà di sentire quattro parti di archi da sole, trasformando l’indicazione in «senza accordi». Mi viene in mente un articolo degli anni Settanta di Luigi Ferdinando Tagliavini pubblicato nella «Rivista Italiana di Musicologia», in cui egli analizza approfonditamente e con proprietà di linguaggio un passo dell’Armonico prattico al cimbalo di Gasparini sulle acciaccature: è una trattazione esaustiva, perfetta, ma egli stesso ammette di non poter condividere quanto affermato in tali passi e di non poter sentire musica armonizzata con tali acciaccature, eppure egli fa riferimento a un capitolo di un trattato per un musicista pratico. Questo problema, di quello che al dunque vogliamo sentire, è causa di contrasto tra musicologi e musicisti, mentre ci sono altre questioni, come nella Serva scaltra di Hasse, che vengono raramente affrontate. Sappiamo che la viola, quando la sua parte è assente, suona la parte del basso all’ottava superiore: nell’allestimento della Serva scaltra, ho notato che nella sinfonia che avevamo preso dall’Artaserse la viola è talora all’unisono e non all’ottava superiore rispetto al basso, spesso il compositore la trasporta in questo modo per motivi pratici, e sarebbe utile venire a conoscenza di tali problemi. Ci sono altri problemi di organico o di altro tipo, ad esempio negli Amori di Apollo e Dafne c’è una sinfonia che deve essere suonata nel primo atto per la discesa di Apollo e poi viene ripresa a inizio secondo atto. Quest’opera di Cavalli è stata allestita al S. Cassiano nel 1640, e dovrebbe essere possibile, conoscendo l’apparato tecnico del teatro, sapere come ciò sia avvenuto. Un altro problema da sollevare, su cui vorrei interrogare Curtis, riguarda le opere di Monteverdi, come Ulisse e Poppea: vorrei sapere da lui che cosa, a suo parere, avranno fatto i violinisti, le cui parti si limitano a 15-20 minuti di musica su tre ore complessive. È possibile che abbiano suonato solo le parti scritte da Monteverdi per gli archi? Curtis È possibilissimo, sono sicuro che i compromessi di Harnoncourt e tanti altri, in cui si immagina che i violini abbiano improvvisato accompagnando i recitativi non siano attendibili. L’idea di accompagnato è venuta dopo, ad esempio l’ultima strofa di Amore è probabilmente un’aggiunta degli anni Cinquanta. L’importante non è ‘far lavorare’ i violini, dobbiamo pensare che essi sono quello che tromba e corno sono nella musica di Händel. Cosa fanno i corni quando suonano solo nell’Ouverture e nel coro finale? Una pausa di tre ore e venti minuti! Nessuno pensa per questo che debbano suonare in un recitativo o in «Piangerò la sorte mia», come Harnoncourt fa fare invece alle trombe nei recitativi di Poppea, ma egli non farebbe mai una cosa del genere in Händel. Il problema è che non si accetta quello che io ho detto negli anni Sessanta, cioè: crediamo a quello che c’è scritto nelle partiture e negli altri documenti. Non si volevano strumenti nel recitativo, che in Monteverdi spesso è arioso, ma come fare a distinguere? O si fa come si faceva cinquanta, ottant’anni fa, o facciamo come è scritto. Toni Penso che l’aria di Ottone del manoscritto di Napoli sia un esempio di accompagnamento… Curtis Sì, ma è posteriore alla morte di Monteverdi. Un discorso analogo vale per le appoggiature, che si usavano poco o niente in Monteverdi e molto in Händel. E in mezzo? Non avranno iniziato il 1° gennaio del 1700 a utilizzarle… Già qualcosa c’era in Monteverdi, più in Cavalli, in cui inizia anche l’uso del recitativo e dell’aria accompagnata. Guardiamo ai primi esempi di questo tipo: il cantante canta una frase e poi la riprendono i violini, in alternanza, molto raramente suonano insieme; solo alla fine del Seicento abbiamo arie tutte accompagnate. Anche Händel scrive cose bellissime, come le arie di sortita del Senesino, solo per continuo. E perché non usiamo qui gli archi? Toni Ma qui è un problema diverso, non ci chiediamo cosa facciano gli archi in Händel perché fanno tantissimo, mentre in Monteverdi c’è un notevole squilibrio, mi riferisco non a Orfeo ma a Ulisse e Poppea. Io volevo concludere ribadendo che ho notato una divisione tra musicisti e musicologi molto grande, e un pesante intervento di questi ultimi su materiale che è destinato alla messa in scena di un’opera, mentre mancano di fornire informazioni utili per tale messa in scena. Curtis Sì, comunque ringrazio per aver segnalato questo problema degli archi in Monteverdi, dobbiamo fare in modo di rendere più interessante questa musica per quanto riguarda il canto. Hendrick Schulze Avrei due cose da dire. Per prima cosa vorrei sottolineare che mi sembra necessario vedere l’edizione critica non come un monumento, ma come una proposta flessibile più che un’autorità. Io cerco anche di mostrare il processo compositivo, come ho descritto nei casi del Xerse e dell’Artemisia di Cavalli. Non è facile, perché si tratta di un processo dinamico e talvolta anarchico, ma la documentazione che tiene conto del processo compositivo è utile sia ai musicisti sia ai musicologi. Seconda cosa, è importantissimo analizzare lo scopo per cui è nata una partitura. In Cavalli notiamo una netta separazione: la maggior parte delle partiture sono descrittive a posteriori, non prescrittive a priori. La partitura degli Amori di Apollo e Dafne è stata redatta tredici anni dopo l’esecuzione, quindi non ha senso cercare di capire come fosse l’apparato scenico del teatro perché non corrisponde, è una partitura pensata per i posteri e non per la scena. Se questa sinfonia c’è forse è per un altro motivo che non per avere qualcosa sulla scena. Toni Ma c’è una didascalia che dice che Apollo discende dal cielo. Schulze Sì, ma è una descrizione utile a chi legge, non per un’esecuzione sulla scena, dà solo un’idea ‘visiva’ di cosa succeda. Non si tratta di copie destinate alla produzione, ma alla conservazione di un’idea. Se le usiamo per una produzione le usiamo in maniera difforme da quella prevista dall’autore. Della Seta Mi sembra che il dibattito sia ben avviato, ma vorrei dire riguardo a questo ‘guardarci in cagnesco’ che non riesce a scomparire, che non mi sembra ragionevole, e non voglio neanche dire che noi siamo buoni, loro cattivi o cose del genere. Quando De Marchi va a cercare delle parti che l’edizione critica non contempla fa benissimo e in quel momento sta facendo il lavoro del musicologo, è musicologo a pieno titolo. Il filologo, davanti a una partitura, non può fare a meno di interrogarsi se quello è Do naturale o Do diesis, magari può dare una risposta sbagliata, ma non gli si può chiedere di rinunciare a porsi il problema. Dirà qual è secondo lui la soluzione corretta, poi il musicista, che ha più orecchio e sensibilità potrà fare una scelta diversa. Quello che è onesto non è che il musicologo rinunci al tentativo d’interpretazione, ma che non imponga la propria soluzione. Se io dico che è Do diesis ma non che non c’è scritto non sono onesto, se dico che è Do naturale ma c’è la possibilità che sia diesis sono onesto; anzi, non sarei onesto se non proponessi qualcosa, nel mio piccolo non posso rinunciare ad essere un po’ musicista, anche perché altrimenti non potrei nemmeno leggere una partitura. Toni Qui dobbiamo allargare l’orizzonte su quello che vogliamo sentire però: spesso ciò che ci ostiniamo a definire ‘strano’ o dissonante non lo è, ma è voluto dal compositore. Della Seta Giustissimo, e questo compete all’esecutore che può in alcuni casi coincidere con il musicologo. L’esecuzione è una cosa diversa dal ragionare su un testo. Il nostro compito è fornire dati sicuri e interrogarsi su quelli dubbi, dopodiché forniamo questi dati all’esecutore che decide come utilizzarli e ne ha tutto il diritto: come diceva Maria Caraci, l’esecuzione è un atto creativo, non è la riproposizione congelata di qualcosa definito una volta per sempre; l’importante è che sia fatta in maniera consapevole con i dati di cui si ha certezza. Non sono d’accordo però quando si dice che i musicologi devono dare più informazioni; ovviamente lo devono fare, ma queste informazioni già ci sono: sulla distribuzione dell’orchestra, prima in sala e poi in buca, almeno dal Settecento in poi, sappiamo ormai quasi tutto, e ci sono saggi che ne parlano, perciò queste informazioni vengono date. Però non potete dirci occupatevi di questo e non di quello… Colonna Vorrei fare una breve osservazione in questo senso. Bisogna chiedersi se l’edizione critica abbia lo scopo di aiutare dei professionisti a mettere in scena un’opera: no, ha lo scopo di fare l’edizione critica. Ovvio che un rimando bibliografico a studiare l’architettura teatrale del Seicento può essere utile, così vado a studiare il saggio di chi si è occupato di queste cose e le informazioni si ricavano da lì, è una cosa che normalmente si fa. Vorrei però fissare l’attenzione sulla qualità di questi studi, che potrebbero essere coordinati meglio. Io ho collaborato per tesi di storia della danza di studenti del DAMS di Bologna; molti di questi studenti perdono tempo a fare tesi compilative ad esempio sulla Sallè, mentre indirizzando meglio e in modo più coordinato i loro studi si otterrebbero certamente risultati migliori e più freschi, oltre che un collegamento più efficace di ciò che già si sa. Forse è vero però che queste non sono cose da fare tutte in un’edizione critica; parlando di questo intendevo riferirmi alla collaborazione tra profili professionali. Della Seta Sono d’accordo, è un invito giustissimo ai musicologi e non solo a lavorare meglio… ma non vedo bene la connessione con il problema specifico. Non sono d’accordo sul fatto che l’edizione critica è un’edizione critica e non è un aiuto agli esecutori, deve essere l’uno e l’altro. Colonna Sì, ma se prendiamo per esempio edizioni critiche di musica per danza del Sei-Settecento, mi piacerebbe sapere quanti musicologi si sono confrontati con persone competenti… Della Seta Se non lo hanno fatto hanno fatto male, ovviamente. Maria Caraci Io intervengo partendo da un’esigenza di chiarezza: può succedere che cose complicate siano anche confuse. Giustamente l’edizione critica moderna non è più quella antica, non è una cosa fissata, come hanno fatto notare più persone tra cui il prof. Schulze: deve darci il polso del movimento, non consiste solo nell’occuparsi di un testo ma di tutta la sua storia con tutto ciò che è necessario per capirlo (perché un filologo deve capire un testo per farne un’edizione critica) e farlo capire agli altri. Le buone edizioni critiche moderne sono dotate di commento, come tutte le edizioni critiche moderne letterarie, che oggi non propongono solo il testo ma lo corredano con commento e doppio apparato, genetico e di tradizione. È una cosa bellissima che andrebbe sempre fatta: raccolgo a riguardo il suggerimento, dato nel primo intervento, a fare filologia d’autore di più e meglio… aggiungo io: prendendo anche in considerazione la tradizione di copia, perché può contenere varianti d’autore perdute. Detto questo, dobbiamo chiederci cosa vogliamo da un’edizione critica, dalla quale possiamo anche pretendere che ci dia tutti i livelli testuali di un’opera. Fin dove abbiamo elementi dobbiamo darli al fruitore perché possa ricostruire le singole facies; bisogna però distinguere tra il momento in cui l’autore ha composto e rimaneggiato, facendo una proposta comunque sua, e il momento della ricezione. Un’edizione critica può anche contenere tutto ciò che riguarda la ricezione di un’opera, ma devo sapere cosa sto facendo quando allestisco un’edizione. Se allestendo un’opera inserisco vari livelli di ricezione devo stare attento: ho il diritto di ricostruire un livello testuale, ma non di mescolare più livelli e fare pasticci. Qualche anno fa è stata data alla Scala Ifigenia in Aulide di Gluck con il finale di Wagner: poteva essere un’occasione splendida per dare un esempio di come funzionasse la ricezione. Esiste infatti una versione completa di Wagner, perché non è stata proposta quella? Cosa è stato fatto invece? Si è allestita l’opera di Gluck con il finale da concerto di Wagner, ed è stata fatta passare come un’operazione di alta filologia, quando non era altro che un mostro. È inutile chiedersi poi se ci fosse la buca o meno, quando nella ricostruzione di un livello testuale mescolo varianti d’autore e di tradizione di più livelli. Ribadisco che se si vuole si può anche disfare un’opera completamente, facendola diventare un pre-testo per un’altra opera. Sono poi d’accordo con il fatto che l’edizione critica subisca sempre maggiori richieste e non possa essere la risposta a tutte le domande. È vero, deve esserci il più possibile, ma c’è anche tutta una letteratura musicologica che deve essere consultata. Un’ultima cosa che non ho capito: perché gli esecutori non devono essere capaci di accedere a un’edizione con apparato critico? Un professore di scuola media è in grado di accedere all’edizione di Petrarca fatta da Contini; ovviamente neanche lui si legge l’apparato critico integralmente se non è masochista… E così un professore di greco che legge l’edizione critica di Erodoto non taglia l’apparato critico perché altrimenti sta male… Perché invece chi si occupa di Ars Nova italiana deve fare una supplica scritta a una biblioteca per ottenere un dattiloscritto di una vecchia edizione di Schrade che è stata pubblicata senza apparato? Se i musicisti sono così bravi da farsi loro un’edizione critica se non sono soddisfatti da quella già esistente, vuol dire che sono in grado di scontrarsi con problemi di questo tipo: allora perché a loro l’edizione dovrebbe far male? Strohm Sono d’accordo con Maria Caraci sul concetto che l’edizione critica di oggi è diversa da quella di quaranta o cent’anni fa. Il concetto di edizione critica si è allargato perché fa parte di una pratica comunicativa diversa, di cui c’è un altro estremo: ci sono edizioni su internet in cui il lettore può scegliere di volta in volta le varianti. Non sono più edizioni ma database in cui il lettore, lo studioso, il ragazzo di scuola può farsi il suo Petrarca e il suo Monteverdi: cosa ne pensa? Caraci Se parliamo di un’operazione creativa va bene, ma la ricostruzione di un livello testuale è un’altra cosa. Il filologo si occupa di un testo e della sua tradizione e ne può dare l’immagine più mobile del mondo, dopodiché si ferma lì. Io non credo che sia un’operazione dotata di senso quella di prendere qua e là delle varianti, è priva di spessore culturale: va bene se è un progetto creativo, ma deve essere forte, altrimenti è noioso e scorretto. Per fare un esempio, mi va benissimo quello che fa Uri Caine, non quello che ha fatto Muti con Ifigenia. Talbot Vorrei affermare in risposta a Toni che noi curatori di edizioni non possiamo astenerci dai problemi riguardanti le singole note. Bisogna stabilire se la singola nota è naturale, diesis, doppio diesis, bemolle…. Se il prof. Strohm e io possiamo avere idee diverse a riguardo, entrambi però forniamo sufficienti informazioni allo studioso per consentire di riflettere e scegliere tra le varie possibilità. Michele Calella Riallacciandomi al discorso delle diverse versioni, dico che abbiamo usato le categorie di testo, di volontà d’autore, opera d’arte… l’idea di opera e di testo si trova all’intersezione tra la volontà d’autore e il sistema produttivo. Il concetto tipicamente romantico di volontà d’autore la vedeva contrapposta al sistema produttivo, mentre le categorie postmoderne del poststrutturalismo dovrebbero portarci ad ammorbidire le categorie di autenticità e di volontà d’autore ripensandole rispetto all’esecuzione. Il testo è quindi l’intersezione tra volontà d’autore e sistema produttivo. Alla fine si fa un’operazione disonesta se si dichiara ad esempio un’esecuzione prima assoluta e poi si scopre che tre duetti sono composti dal direttore, quattro arie sono della seconda versione e così via. Bisogna essere chiari, ma dobbiamo ammorbidire le categorie culturali senza abolirle completamente. De Marchi Sulla questione della scelta delle note torno sul caso di Vivaldi, perché mi sono confrontato con esso più volte. Gli autografi e in generale i manoscritti delle sue opere sono dei pasticci incredibili in cui si devono fare delle scelte: cancellature, sostituzioni, incollature, note aggiunte, ecc. Ho fatto edizioni in cui mi mancavano informazioni fondamentali e per esempio, in una di esse, ho dovuto prendere le quattro battute più belle dall’autografo e metterle di forza nell’edizione perché mi erano state tolte. Sono casi difficili, più che nel caso di Gluck in cui c’erano due scelte: in Vivaldi abbiamo cinque, sei versioni differenti tutte incastrate nella stessa partitura. Uno deve avere la possibilità di scegliere e assumersi la responsabilità della scelta. Della Seta Ma queste quattro battute, le aveva a disposizione nell’edizione? De Marchi No, per fortuna avevo il manoscritto a disposizione, non c’erano nell’edizione critica. Della Seta Allora è un’edizione scorretta. Il problema non è l’edizione critica, si tratta di edizioni fatte bene o fatte male. De Marchi Devo comunque precisare che era un’edizione provvisoria. Io ad esempio avrei avuto bisogno anche di arie alternative per inciderle in appendice al CD. Bonizzoni Faccio un intervento in cui mi colloco dalla parte dei musicologi. Io vedo questo rischio: spesso noi musicisti interroghiamo i musicologi per ottenere le risposte che vogliamo che ci diano. Voi musicologi non avreste titolo per fare ipotesi sulla musica o sulle note, mentre noi siamo autorizzati a farne su organici e disposizione dell’orchestra… c’è un rischio, di cui bisogna essere consci, che è quello del musicista che si improvvisa musicologo. Dobbiamo ascoltare invece quello che ci dicono i musicologi anche se si scontra con quello che pensiamo noi, e comunque poi possiamo scegliere di fare quello che vogliamo come musicisti. Romagnoli Sarebbe interessante se nel giro di due o tre anni si riuscisse a ripetere una tavola rotonda di questo tipo, che funziona meglio di un convegno zeppo di relazioni. Mi sono segnata un paio di cose di cui parlare. Innanzitutto volevo rispondere a Massimiliano Toni e agli altri colleghi musicisti sul problema delle note. Se io faccio l’edizione critica del Teseo in Creta di Conti è perché sto studiando tutto Conti per fatti miei o perché mi è stato richiesto, e su quaranta opere ho scelto questa perché mi è piaciuta. Conosco quindi il linguaggio musicale di Conti meglio di un direttore che ha sentito un paio di sue belle arie e ha deciso di prendere in mano la partitura di un’intera opera. Inoltre per lavorare su un’edizione critica è necessaria tutta una serie di competenze filologiche che non sono nel bagaglio tecnico di un musicista, tanto più che spesso ci si imbatte in problemi di filologia italiana. Se pensiamo alla formazione media di un musicista (che non riguarda peraltro le persone qui presenti che hanno una consuetudine molto radicata con testi antichi), non è tale da permettere di risolvere i problemi che si hanno imbattendosi in espressioni come «i nundinali onori» o cose del genere; ciò non significa che un musicista non possa essere perfettamente in grado di fare questo lavoro per singoli casi. I nostri percorsi di studio sono quanto mai vari e fantasiosi e non è certo dal titolo di studio che si decide chi può fare un’edizione critica; non è questo il mio discorso. Il punto è che un conto è passare la maggior parte del tempo a fare produzioni, litigare con i registi, mettere a posto parti staccate, insegnare parti ai cantanti; un conto è stare chiusi in biblioteca da mattina a sera a studiare manoscritti, che comporta un’abilità diversa e un modo diverso di lavorare sul materiale. Per questo motivo difendo moltissimo il diritto dei musicologi a occuparsi della fissazione del testo, poi quando consegno questo testo ai musicisti ne possono fare quello che vogliono e io potrò poi, se sono un critico, valutare il risultato estetico dell’operazione. A proposito di lavorare su ‘ciò che ci piacerebbe sentire’ è un rischio in cui incappiamo tutti, ne è un esempio l’uso estensivo del lirone che è più new age che barocco, e che piace al pubblico, ai musicisti e forse a qualche musicologo. Chi decide di metterlo perché gli piace da una parte ha ragione ma dall’altra non ragiona in termini di storicità. Sul sistema produttivo dovremmo fare più gioco comune: in Italia la figura del musicologo è di principio esclusa dal giro produttivo, e capita invece che chi «ha letto due note in gioventù» si spacci per musicologo e venga accreditato come tale. Bisognerebbe fare pressione perché le produzioni nascano sempre dall’incontro di diverse figure; noi come comitato scientifico abbiamo voluto dare questo segnale invitando musicisti e musicologi ma anche Deda Cristina Colonna, che rappresenta un altro tipo di professionalità. Attenzione quindi: quando ci occupiamo di queste cose è necessario che più profili si incontrino, e sarebbe bene che i comitati editoriali di opera omnia avessero un musicista esperto di questi problemi e uno storico dello spettacolo o un coreologo, perché questo influisce poi sulle direttive editoriali e sugli aspetti materiali delle edizioni. Inoltre, se per Händel, Vivaldi e Scarlatti ha senso un’edizione cartacea perché già si sono iniziate e hanno possibilità di vendita, con le nuove tecnologie, internet e i progetti di digitalizzazione si potrebbe lavorare su autori come Conti e Mancini che non hanno altrimenti prospettive di vendita sul mercato. Con un progetto digitalizzato si può ottenere un aggiornamento continuo on-line, fare link, lavorare in cooperazione, ottenere anche un prezzo politico pur difendendo il copyright (oggigiorno su internet si vende di tutto); si può fornire così agli esecutori materiale altrimenti costosissimo, le parti staccate per orchestra, e differenziare il prezzo ovviamente rispetto a chi acquista la partitura per studio personale. Sarebbe bello poter metterci insieme e convincere un editore a compiere un’operazione di questo tipo. Arnold Jacobshagen ci ha fatto inoltre notare quanto scarsa sia la nostra conoscenza di materiali, a parte casi come i facsimili della Garland, su cui poi si riversano tutte le esecuzioni e i festival ogni volta che c’è una nuova uscita, salvo poi ignorare tutto il resto. Per uscire da questa ‘gabbia’ dobbiamo pensare a un sistema diverso a cui si collabori tutti con grande possibilità di movimento, link a studi specifici, ecc. Con questa proposta un po’ provocatoria per il mercato, chiuderei l’incontro. Permettetemi di ringraziare ancora una volta i miei ‘gioielli’, Claudia Cefalo, Paolo Giorgi, Claudio Vellutini e Livio Marcaletti, perché senza di loro sarei impazzita per organizzare questo convegno. Ringrazio di cuore i musicisti che hanno accettato la scommessa del dialogo in questa forma; per alcuni di loro è stato difficile giungere qui: Alessandro ha aspettato ore in aereo a Praga prima di decollare (e io ho dovuto aspettarlo a Malpensa), anche Attilio è venuto da Berlino… insomma, loro hanno ritmi molto diversi dai nostri e sono stati estremamente disponibili. Ringrazio ovviamente anche i colleghi musicologi, e a loro lancio un altro invito raccogliendo quanto emerso. Noi insegniamo, e forse proprio insegnando possiamo dimostrare che la divisione tra musicisti e musicologi è utile ma non deve diventare un ostacolo. Possiamo fare un gran lavoro se nell’affrontare pagine di musica per il teatro le affrontiamo come parte di un contesto più ampio. Io insegno storia della prassi esecutiva, che (fortunatamente, in un certo senso) vuole dire tutto e niente, e dedico sempre una lezione a far almeno vedere la notazione Feuillet e i siti su cui si trovano i trattati di danza, oppure il teatro di Česky Krumlov con le scene originali, l’illuminazione a candele e il leggio da cui si vede come i musicisti si sedessero uno dinanzi all’altro. È vero, non si capovolge la situazione in 30 ore, però gli studenti si fanno almeno un’idea più ampia della situazione e dei problemi reali che comporta il lavoro sullo spettacolo con musica: se facessimo tutti così, forse alla fine creeremmo un pubblico più cosciente. Scusate la predica finale: invito tutti a pranzo! Colas Vorrei ringraziare a nome di tutti il comitato scientifico per aver avuto il coraggio di organizzare il convegno in una maniera così sperimentale, che ci ha consentito di scambiare idee in modo nuovo.
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Registrazione presso la Cancelleria del Tribunale di Pavia n. 552 del 14 luglio 2000 – ISSN elettronico 1826-9001 | Università degli Studi di Pavia | Dipartimento di Musicologia | Pavia University Press
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