Intervista di Paolo Giorgi ad Attilio Cremonesi; moderatore Arnold Jacobshagen
Arnold Jacobshagen Un contributo importante alla nostra discussione può venire certamente dal confronto con Attilio Cremonesi, intervistato da Paolo Giorgi. Attilio Cremonesi, che ho il piacere di presentarvi adesso, è il direttore dell’ensemble «Arcadia» e tra le sue incisioni basta ricordare solamente La contadina di Hasse e il Giulio Cesare di Sartorio. Paolo Giorgi Innanzitutto la ringrazio per essere riuscito ad arrivare nonostante i numerosi problemi del viaggio. Dato che finora le interviste, e in generali tutti gli interventi, si sono soffermati sulla musica del Settecento, vorrei approfondire il lavoro che lei ha svolto su musiche del Seicento, anche perché lavora spesso su questo tipo di repertorio. Vorrei partire dalle sue iniziali esperienze con René Jacobs. Ci può descrivere come lavora e soprattutto cosa ha recepito da lui, che cose le ha insegnato? Attilio Cremonesi Tra i musicologi presenti in sala vedo persone famose che hanno avuto l’occasione di incontrare René Jacobs; per me è un musicista in ogni caso straordinario, indipendentemente dal fatto che poi per alcuni il suo stile possa non essere sempre considerato interessante, da un punto di vista sia musicale sia musicologico. Ha sempre e comunque delle ottime ragioni per le sue scelte; sono scelte sempre ponderate. È una persona che, nei miei circa dieci anni di lavoro con lui, sia come strumentista sia come assistente musicale, non mi è mai successo di vedere arrivare ad una produzione o una prova senza sapere cosa dire. È sempre stato una miniera impressionante di informazioni e poi semplicemente era sempre a disposizione dei cantanti e dei musicisti, per dare non soltanto informazioni che funzionavano bene sulla carta, ma informazioni vive, con le quali il cantante e i musicisti potessero veramente trasformare la musica che avevano davanti e dovevano eseguire. Questo è proprio il minimo che potrei o dovrei dire su René Jacobs e mi dispiace che non sia qua lui per spiegare di persona il suo modo di lavorare. Angela Romagnoli L’avevamo invitato, e sarebbe venuto molto volentieri, non avesse avuto una produzione importante. Cremonesi Sì, credo che sia ripartito per Bruxelles. Per un giovane come io ero quando ho iniziato a lavorare per lui, avere un personaggio di questa importanza ed esperienza, e di una certa età (benché sia tutt’oggi ancora giovane, farà 60 anni tra qualche mese), vederlo arrivare con questo spirito, questa voglia di fare, questa carica, questa preparazione, è stata una scuola incredibile. Non ha mai detto: «Ah, questo lo dicono i musicologi, non mi interessa», al contrario, a volte diceva: «Bene, siamo di fronte a questo problema, devo prendere una decisione e decido forse contrariamente a quanto un musicologo si aspetta», però non è mai stato – almeno per quello che ho sentito io fino a 5-6 anni fa, quando il nostro rapporto di lavoro si è chiuso –, non è mai stato uno che dice: «Ah, guai ai musicologi», ma esattamente il contrario. Quando l’anno scorso per la prima volta Angela Romagnoli mi ha parlato di questo convegno, l’ho trovavo una cosa molto importante ed eccezionale. All’epoca stavo lavorando appunto sul Giulio Cesare di Sartorio; avevo avuto, grazie proprio ad Angela Romagnoli, la possibilità di entrare in contatto con il professor Norbert Dubowy, con il quale c’è stato veramente uno scambio molto intenso di informazioni per mesi, attraverso mail e telefonate. L’ho sempre tenuto al telefono fino a quando non poteva che scappare per una lezione ecc., per cercare di assorbire al massimo queste informazioni. Successivamente Dubowy venne a Innsbruck per assistere a uno di questi spettacoli e parlammo un paio di volte a lungo e il problema che ritornava in maniera costante era: «D’accordo, noi dobbiamo fare un certo lavoro e abbiamo bisogno di informazioni per musicisti e i musicologi fanno un lavoro straordinario e importante per noi, però ad un certo punto il lavoro di musicologi e musicisti comincia a viaggiare parallelamente e ci sono problemi a trovare un nuovo punto di incontro». Sull’argomento discutemmo molto, e ne parlai anche con Angela Romagnoli, che mi annunciò che sarebbe stato il tema di un convegno, come infatti è stato. Giorgi A proposito del Giulio Cesare in Egitto di Sartorio, è stata già nominata l’edizione di Monson del 1991 nella relazione di ieri di Michele Calella, togliendomi l’incarico di presentarla al pubblico. È comunque un’edizione che ha diversi problemi: perché nella sua versione per la rappresentazione e per il disco ha deciso di fare una sua edizione dell’opera? Che cosa ha cambiato? Che cosa non ha trovato nell’edizione e ha dovuto aggiungere lei? Cremonesi Beh, sono spiacente di non aver potuto ascoltare la relazione di Michele Calella. La produzione risale ormai a due anni e mezzo fa, quindi onestamente non tutte le ragioni che mi hanno portato a fare una mia edizione mi sono ancora così chiare; non posso certamente prendere la partitura in mano e dirle per ogni battuta cosa ho fatto o cambiato. Diciamo che per me si è ripresentato un problema molto frequente, particolarmente con le opere del Seicento, non solo quello italiano: adesso ho avuto ad esempio la possibilità di fare una produzione estranea all’ambiente italiano, quella del Dido and Aeneas di Purcell. Sono problemi legati al testo musicale, ai cantanti, ai musicisti e al luogo nel quale vengono eseguite queste composizioni. Nel caso specifico di Sartorio c’erano già problemi riguardo alla scelta tra la versione veneziana e quella napoletana, se fare un miscuglio delle diverse parti, in che modo farlo. Io non pensavo di vedere il professor Curtis questa sera; preferisco questo approccio (sperando di non far rizzare i capelli ad altri professori presenti): tutte le parti che appartengono ad un manoscritto o a una edizione successiva o versione successiva xy, metterle tutte alla fine. Avere davanti una partitura dove non si riusciva a capire a quale versione appartiene un certo brano, molto confusa da un punto di vista della chiarezza formale [l’edizione Monson] era un grande problema. Poi ritengo che ci siano in tutte queste opere problemi e domande per cui spererei di avere le risposte dai musicologi: ad esempio (come chiedevo a Dubowy) un’opera del 1677 a Venezia, quanti archi? Era suonata a parti reali? Se non era a parti reali, quanti violini? C’erano degli strumenti a fiato? Se sì, quali e quanti? Quali strumenti per il continuo? Queste sono domande per me musicista importantissime, senza precludere le altre questioni sollevate dai musicologi; torniamo dunque al punto di partenza, per cui mi dico «bene, devo eseguire quest’opera e cosa faccio?». Sono in una sala come quella di Innsbruck (900-1000 posti) con un’acustica piuttosto buona, il testo presenta moltissime ariette (abbiamo già abbandonato lo stile del declamato monteverdiano), oltre 70, come eseguirle? Come differenziarle? Eseguirle a parti reali? Evidentemente la tentazione (soprattutto avendo lavorato tanti anni con Jacobs) era quella di usare gli strumenti a fiato per sottolineare tutto, per dare diversi colori; penso invece (come Norbert Dubowy mi ha spesso ripetuto, tanto da convincermi) che sarebbe meglio lasciare la maggior parte di questi strumenti a fiato a casa, e cercare di sperimentare con gli altri strumenti. Una cosa che ad esempio ho voluto è un’orchestra d’archi piccola (3 primi, 3 secondi, 1 viola, 1 viola tenore, 1 violoncello, 1 violone e una batteria di continuo variegata). Giorgi Passando invece alla produzione di Dido and Aeneas cui accennava prima, e che verrà rappresentata in Italia solamente a Ferrara, in giugno, lei com’è intervenuto sul testo? Purtroppo io non sono riuscito a reperire materiale diretto, ma solo informazioni, e so che ha ricostruito il testo. Questo è interessante perché il libretto di Dido and Aeneas è particolare: riporta un prologo non musicato e parti o personaggi non musicati. Poi, nella messa in scena, quale dimensione ha privilegiato? Quella attoriale/gestuale, quella coreografica, quella scenografica? A cosa ha puntato? Cremonesi Beh, devo premettere che naturalmente io mi sono occupato della parte musicale, già alquanto problematica; il lavoro coreografico e di regia è stato fatto da una coreografa tedesca piuttosto quotata in Germania ma non solo, Sascha Waltz, e per le persone che avessero la possibilità di vedere questo spettacolo è veramente uno spettacolo molto, molto bello. È danza moderna, si può essere più o meno d’accordo, ma c’è una poesia dentro che io trovo molto importante, perché possiamo ricostruire un mondo, e potremmo forse ricostruire anche un mondo perfetto come quello dell’epoca, ma se ci mancasse la poesia che corrisponde a qualcosa che sta dentro a noi oggi, credo che lì avremmo qualche problema. Comunque, ritornando alla questione sollevata, come lei ha detto c’è questo libretto e fin dal primo incontro con Sascha Waltz mi sono dimostrato molto interessato al progetto, anche alla ricostruzione dell’opera da un punto di vista musicale, così come era stata forse pensata. Ho preso semplicemente il libretto e nel Prologo, ad esempio, ho deciso di inserire tutte le musiche strumentali e le danze e i cori. Alle parti in recitativo non ho messo mano. Prima di tutto, voglio chiarire che tutta la musica aggiunta nel Prologo è musica di Purcell, è semplicemente stata tagliata e presa da un coro o dall’altro, per poter veramente sovrapporre il testo alla musica. Alcune volte ho preso musica da opere o semioperas diverse di Purcell, ho veramente tagliato 3, 4, 5 battute e poi le ho messe insieme, per cui ad esempio ci sono un paio di cori dal King Arthur che probabilmente nessuno riconoscerebbe in quanto tali, perché sono veramente frammentari. Ma non volevo comporre qualcosa di nuovo. I recitativi sono un grande problema, come in Monteverdi, che fare? Possiamo cambiare qualcosa? Io fondamentalmente non sono una persona che prende il testo e non lo tocca, però devo dire che quando mi trovo davanti dei recitativi scritti come li scrive Monteverdi o come li scrive Purcell, semplicemente... tanto di cappello. Non so, ad esempio ho avuto la possibilità di fare una produzione l’estate scorsa, la ricostruzione di un pasticcio di Lorenzo da Ponte, L’ape musicale. Da Ponte scrisse questo libretto indicando nella prefazione tutte le arie necessarie per quest’opera, e scrisse anche i testi per i recitativi. Purtroppo, la musica per i recitativi non ci è pervenuta. È stata mai composta? E se sì, da chi? Non si sa. Fatto sta che per quella produzione ho composto io i recitativi. Ora, comporre recitativi di un’opera di quel periodo per Vienna, vuol dire osare quello che un buon assistente dell’epoca avrebbe fatto. Non potevo fare la stessa cosa per Purcell, non la farei nemmeno con Monteverdi. Questo per quanto riguarda i recitativi. Per quanto riguarda l’opera stessa, ho semplicemente aggiunto tutte le parti mancanti di danza, sempre con musica di Purcell, eccetto le ciaccone che sono ancora mie. Lui prevede delle ciaccone per le chitarre e quelle le ho scritte io. Per esigenze di regia, sempre su temi dall’opera, ho scritto una ciaccona per due bassi e basso continuo. Jacobshagen Grazie tante per questo intervento. Lei è stato forse il primo direttore/esecutore in questo convegno a esprimere chiaramente la sua preferenza per un’edizione aperta, cumulativa, con il massimo possibile di scelte aperte per l’esecutore. Cremonesi Sì, e in ogni caso voleva sottolineare una cosa, solamente per chiudere il discorso. Nelle conversazione con Angela Romagnoli e con Norbert Dubowy emergeva un cosa: sarebbe fondamentale unire le forze, invece di continuare a viaggiare separati. Grazie.
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Registrazione presso la Cancelleria del Tribunale di Pavia n. 552 del 14 luglio 2000 – ISSN elettronico 1826-9001 | Università degli Studi di Pavia | Dipartimento di Musicologia | Pavia University Press
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