Eseguire dal facsimile: un’alternativa possibile all’edizione critica?
La mia riflessione sull’uso dei facsimile nella pratica musicale relativa ai repertori di cui stiamo trattando nasce in parte nell’ambito della mia attività musicologica, in parte però, ed è una parte importante, dalla mia esperienza pregressa di musicista e dalle occasioni di collaborazione e di contatto che cerco di mantenere con il mondo dell’esecuzione storicamente informata, come oggi si usa dire. Una breve premessa autobiografica mi permetterà, spero, di chiarire meglio le motivazioni per cui non considero il facsimile come un’alternativa valida per l’esecutore rispetto all’edizione critica, pur riconoscendo una serie di vantaggi nell’utilizzo di materiale coevo alla musica che si vuole studiare o eseguire. La mia formazione musicale (che mi ha portata poi alla scelta della musicologia come studio universitario) è cominciata negli anni Settanta, quando in Italia la ‘musica antica’ era ancora un fenomeno assolutamente esotico, ed era anche piuttosto faticoso, soprattutto per dei ragazzi, procurarsi materiale di studio relativo al repertorio prebachiano. Nei negozi di musica si trovavano solo le edizioni in uso nei conservatori, dove, com’è noto, si vedeva con grande sospetto qualsiasi allontanamento dai programmi ministeriali e dalla tradizione (una situazione per fortuna oggi un po’ meno rigida). In questo quadro esistevano però già le collane della Forni, disponibili presso alcuni negozi specializzati (l’Hortus Musicus di Roma era per noi tutti, ad esempio, un riferimento importantissimo). È poi abbastanza naturale che, se a 12 anni si suona in un gruppo che si chiama La Fontegara, a 15 si finisca per acquistare e leggere con gran piacere ed entusiasmo l’edizione anastatica dell’omonimo trattato, e si cresca quindi nella convinzione che solo l’approccio diretto ai testi antichi garantisca una ‘verità’ di interpretazione. Proseguendo nella formazione musicale specifica (da flautista dolce), la consuetudine con gli ‘originali’ è aumentata, sia per comodità (erano sempre più disponibili le anastatiche, contro pochissime edizioni moderne ragionevolmente utilizzabili, cioè non subissate da aggiunte editoriali prolisse e inutili se non dannose), sia per convinzione, sia per obbligo: per esempio, una delle tappe importanti del curriculum di flauto dolce presso la allora Civica Scuola di Musica di Milano era, per la musica d’insieme, la lettura anche a prima vista di polifonia del Quattro e Cinquecento in notazione antica e in parti staccate. Esercizio indubitabilmente utilissimo non solo per un approccio al dato tecnico della notazione, ma anche per svincolarsi dalle costrizioni ‘solfeggistiche’, portato inevitabile della formazione musicale tradizionale (almeno in Italia). Lo studio musicologico a Cremona ha poi ulteriormente incrementato la dimestichezza con manoscritti e stampe d’epoca, fino al punto che a tutt’oggi per me è estremamente più facile leggere una partitura operistica del Sei o Settecento alla tastiera se ho sul leggio un manoscritto oblungo piuttosto che un’edizione moderna. Da questo tipo di esperienza si ricavano certamente quelli che sono i grandi vantaggi di una lettura diretta del materiale consegnatoci dalla storia, sui quali peraltro anche la musicologia si interroga da qualche tempo: per citare almeno un esempio, nel recente articolo sulle edizioni critiche di musica medievale e rinascimentale di Margaret Bent uscito nel secondo volume dell’Enciclopedia della Musica Einaudi, l’autrice richiama fortemente l’attenzione sul solco incolmabile che divide il Notenbild, l’aspetto grafico (che non è un semplice dato estetico) dei manoscritti o in genere dei testimoni d’epoca e quello delle partiture moderne, che inevitabilmente lo deformano. Vorrei a questo punto sintetizzare alcuni dei punti di forza dell’uso delle riproduzioni:
- eseguendo dal facsimile si accede direttamente ad un testo ‘in lingua originale’ – metafora molto usata sia dai musicisti sia dai musicologi – senza le deformazioni, appunto, che ogni traduzione comporta; - non si perdono le sfumature grafiche che possono essere, in qualche caso, segnali di una specifica volontà d’autore rispetto a particolari problemi esecutivi. Per esempio, si discute molto se i raggruppamenti delle note nelle partiture sei-settecentesche possano avere un senso rispetto al fraseggio. Probabilmente in molte situazioni i raggruppamenti sono casuali, mentre per alcuni autori e in alcuni manoscritti potrebbero risultare indicativi se non addirittura prescrittivi; di certo, uniformando nella scrittura moderna questo aspetto, si perde la possibilità di prenderlo in considerazione; - a seconda del tipo di materiale, partiture e parti d’epoca possono perfino risultare praticamente più leggibili e utilizzabili dei corrispettivi moderni (meno girate, per esempio, o più comode per l’esecutore); - per il repertorio di cui ci occupiamo, l’assenza della fastidiosissima realizzazione del basso continuo è un grosso vantaggio: nessun esecutore con un minimo di consapevolezza oggi utilizza la realizzazione di un curatore, che di fatto è solo un intralcio, obbliga a faticosi lavori di collage, indirizza spesso e volentieri verso soluzioni stilisticamente poco convincenti, aumenta inopinatamente il numero delle pagine ed è inoltre affatto superflua per tutta una porzione di strumenti del continuo (liuti, arpe ecc.); - la disomogeneità grafica di molti manoscritti, lungi dall’essere una difficoltà, risulta per l’occhio avvezzo al materiale d’epoca molto più ‘suggestiva’ dell’uniformità della notazione moderna. Tuttavia non sempre è così: ci sono casi di stampe del Sei o del primo Settecento (penso alle edizioni di cantate o di musica strumentale composte a caratteri mobili) in cui l’effetto grafico, pur ‘antico’, non è sostanzialmente differente da quello delle pagine moderne; ma le pagine manoscritte oppure incise a molti musicisti ‘parlano’ in maniera diversa (torniamo alla questione della lingua originale); - infine, in molti casi con il ricorso al facsimile si supera la fastidiosa sensazione che nelle edizioni moderne l’errore o la manipolazione del curatore siano sempre in agguato.
Ho cercato di sintetizzare qui alcuni elementi che possiamo considerare relativamente oggettivi; si tratta spesso, è vero, di sensazioni del musicista, ma indubitabilmente sono sensazioni molto diffuse e che poggiano su alcuni elementi di fatto. Se approfondiamo un po’ la riflessione, però, emerge anche il lato problematico dell’uso del facsimile. L’esecuzione dal facsimile non è per forza ‘più consapevole’ e migliore di quella condotta su una buona edizione critica; è convinzione illusoria il fatto che l’accesso al facsimile renda tutto sommato superflua la presenza di una buona edizione critica. La retorica del facsimile è espressione di una certa ‘comodità’ di pensiero, ma non regge se sottoposta a una disamina ponderata. Sull’opposizione facsimile-edizione critica vorrei qui proporre alcune idee molto semplici, nate per me nel tempo dall’incontro tra la familiarità con le partiture antiche e la maggior coscienza storica e culturale acquisita con l’esperienza di studio e ricerca. Innanzi tutto è equivoco il concetto stesso di ‘originale’, come i filologi ben sanno, senza però che questa consapevolezza sia veramente diventata merce corrente. È molto ingenuo ritenere che un prodotto purchessia di alcuni secoli fa sia di per sé un documento più fedele alla volontà dell’autore o – se non si vuole per forza riconoscere a questa un ruolo decisivo (sappiamo che per alcuni repertori, come l’opera, il discorso può essere molto complesso) – più conforme ad abitudini esecutive di un ambiente, in altre parole più ‘vero’ di un’edizione moderna per il solo fatto di essere ‘più vecchio’. Stabilire che cosa sia veramente il mitico ‘originale’ rispetto alle opere che vogliamo eseguire è operazione a volte estremamente complessa dal punto di vista filologico e intellettuale. Un manoscritto o una stampa d’epoca possono essere paradossalmente molto meno ‘originali’ della partitura scaturita da un serio lavoro di ricostruzione filologica. Temo che molto di frequente ci si trovi di fronte ad una sorta di feticismo dell’originale, senza essersi domandati in via previa cosa significhi questa parola rispetto al materiale musicale. È quasi commovente leggere sui CD di opere con tradizioni estremamente complesse la dicitura «revisione dal manoscritto originale», dove sappiamo che almeno 5 o 6 testimoni si contendono la palma di questa fantomatica ‘originalità’; ancor più simpatici sono quei casi di clamorose cantonate addirittura sulla paternità delle partiture, perché pur di accedere direttamente ai manoscritti non ci si è preoccupati di controllare la letteratura musicologica, e pensando di proporre uno scoop si incide come inedito di un certo autore un’opera che da 20 anni è stata con certezza attribuita ad un altro [il riferimento è a esempi concreti, che non cito per non innescare inutili polemiche ad personam che non sono certo lo scopo di questo intervento]. L’insidiosa equazione «antico = originale», alquanto perniciosa all’atto pratico perché in grado di produrre esecuzioni assai poco storicamente informate ma contrabbandate come tali, è alimentata in gran parte proprio dalla ormai considerevole disponibilità di edizioni in facsimile. E infatti, strettamente collegato con il problema del feticismo dell’originale (che è un po’ alla radice di tutte le considerazioni in negativo che si possono fare sul costume di eseguire dal facsimile, peraltro) è quello della eccessiva facilità con cui ormai sono disponibili i materiali. Se alcuni anni fa anche procurarsi un’edizione anastatica comportava un certo grado di fatica e l’esercizio di una pur modesta ma utile attività di ricerca bibliografica, ora il mercato ci mette molto più facilmente a disposizione un’ingente mole di partiture: tra le collane di SPES, Garland, Fuzeau, per citare solo tre giganti del facsimile, il musicista ha a disposizione con un colpo di mouse tutto quello che vuole. Ma l’eliminazione della fatica della ricerca comporta, di fatto, un drastico abbassamento della soglia di coscienza dei problemi: si tende a fidarsi delle scelte dell’editore (inteso come casa editrice) – che, è chiaro, propone ‘l’originale’ di quella tal composizione – si leggono a malapena le introduzioni, comunque sempre molto succinte e, ahinoi, non di rado anche piuttosto superficiali per scelta editoriale, e si affronta baldanzosamente la partitura molto spesso senza il bagaglio culturale necessario per gestire con piena coscienza un prodotto complesso come un manoscritto o una stampa musicale dei secoli passati. Non ci si domanda perciò a che cosa servisse quel testimone specifico, quale fosse lo scopo della compilazione di quel determinato manoscritto, se si possa pensare ad una partitura d’uso o se invece si è di fronte ad un bel manufatto da far troneggiare sugli scaffali di una prestigiosa collezione, ecc. ecc.; insomma, tutte le domande che invece il curatore di un’edizione critica ha il dovere di porsi e di chiarire poi al suo lettore. Un altro elemento che nella pratica risulta di gran peso è il diverso atteggiamento che si ha nei confronti dei possibili errori se si ha di fronte un ‘originale’ oppure un’edizione moderna. Mentre in media il musicista è cosciente del fatto che nelle partiture a stampa attuali gli errori sono una possibilità concreta, sia pur sporadica, di fronte ad una partitura d’epoca si riscontrano spesso due atteggiamenti opposti. Da un lato c’è una notevole difficoltà ad accettare la possibilità che anche nel Sei o nel Settecento occorressero di quando in quanto errori di stampa o di scrittura, oppure a riconoscere che alcuni dettagli della partitura fossero allora impliciti, col risultato di assistere in questo caso a esecuzioni di musica del pieno Seicento con tutte le sensibili abbassate perché, per esempio, nel facsimile delle sonate di Dario Castello mancano a volte i diesis in cadenza (il Verbo dell’Originale è sacrosanto e non si può intervenire). Da un altro lato invece riscontriamo un atteggiamento di eccessiva disinvoltura: quello che non si capisce è sbagliato per forza, e si cerca una soluzione di solito più vicina possibile alla nostra ‘normalità’. Questo vale per situazioni armoniche eterodosse, oppure, spesso, anche per il testo verbale, che non di rado presenta espressioni poco consuete o francamente incomprensibili senza un lavoro di approfondimento linguistico. Così si normalizza allegramente, qualche volta anche a dispetto di un serio lavoro svolto in collaborazione col povero musicologo che si è rotto la testa per dare un senso al libretto, e in sede di esecuzione si trova il testo smontato perché il musicista ha controllato sull’originale e ha deciso che c’era un errore (semplicemente magari perché la sua consuetudine con la metrima o la mitologia non è tale da permettergli di addentrarsi con disinvoltura nei risvolti dei testi ‘barocchi’). Ancora, un’insidia frequente del ricorso al facsimile è l’apparente correttezza dei manoscritti o delle stampe, dove però si annidano errori non sempre di immediato riconoscimento. Pensiamo anche al fatto che la tipologia di musicisti che utilizza questi pur affascinanti materiali è estremamente varia. Sotto questo aspetto non è assolutamente di secondaria importanza, ad esempio, che siano anche molti i colleghi non di madrelingua italiana a cimentarsi, peraltro con ottimi risultati musicali, nell’esecuzione di repertorio vocale italiano del Sei e Settecento. A questo proposito mi viene in mente un caso, che penso chiarisca bene cosa voglio dire. Ho curato l’esecuzione e poi anche l’edizione di un oratorio di Antonio Draghi, lo Jephte, che sopravvive in un unico manoscritto della collezione Leopoldina (Biblioteca nazionale di Vienna), pubblicato anche in facsimile dalla Garland. Come spesso accade per i manoscritti leopoldini, l’aspetto esterno del testimone è molto accurato e in bella scrittura, cosa che porta fatalmente chi esegue direttamente da quello ad un atteggiamento psicologico di grande fiducia in quel documento. Quando Jephte finalmente cede alle preghiere dei suoi fratelli e accetta di combattere Amon accanto a loro, il testo verbale in partitura recita: «Sì, sì, che i vostri pianti sono l’acque dilette onde lo sdegno mio pongo in eterno oblio». Questa frase ha senso solo in apparenza, ma credo che nessun esecutore leggendo dal facsimile avrebbe sentito il bisogno di correggerla: i non italiani, perché «dilette» è una parola italianissima, che conoscono, suona molto bene, è musicale e ha un significato grazioso; gli italiani, perché – non se ne abbiamo a male gli amici musicisti – non sempre hanno il sesto senso necessario su questioni di natura storica, mitologica o letteraria, dovendosi concentrare su altri aspetti. A me questo «dilette» non convinceva affatto, e lo avevo corretto ope ingenii in «di Lete», molto più sensato rispetto al contesto della frase; ho avuto poi conferma della correttezza dell’ipotesi quando ho potuto confrontare il testo della partitura con quello di un libretto successivo, in cui la frase recita «Sì sì, che i vostri pianti | sono l’acque di Lethe | onde in eterno oblio | pongo lo sdegno mio». C’è comunque una variante rispetto alla partitura (che si riferisce alla prima esecuzione), ma è chiaro che quel «dilette» anche in partitura va senz’altro corretto. Credo però che errori di questo genere, insidiosi, non per forza ovvii, siano assai difficili da individuare in base alla semplice lettura dell’‘originale’; la soluzione di queste ambiguità necessita da un lato, preferibilmente, di un lavoro di collazione seria tra testimoni, dall’altro, comunque, della mediazione intellettuale di un editore, che ovviamente può essere anche il musicista stesso, se ha le competenze e il tempo per affrontare il lavoro rigorosamente. In conclusione, dato che queste considerazioni vogliono semplicemente offrire alcuni spunti di riflessione e non pretendono di aver affrontato in modo organico e definitivo il problema – che presenta tra l’altro sfaccettature assai cangianti a seconda dei repertori – mi sentirei di affermare che la lettura dal facsimile, pur con tutti i vantaggi che può presentare (soprattutto per repertori cameristici, con pochi esecutori e pezzi di piccole dimensioni), non solo non sostituisce l’edizione critica, ma rischia a volte di generare esecuzioni basate su notevoli fraintendimenti. Come ho appena detto, la mediazione intellettuale (e aggiungerei culturale, in senso lato) dell’editore è spesso e volentieri indispensabile, e in ogni caso, se il lavoro è svolto con coscienza ed onestà, è comunque utile, è un valore aggiunto. Le tante edizioni in facsimile sono uno strumento utilissimo per lo studio, storico-musicologico oppure pratico, ma non dovrebbero diventare, come invece purtroppo succede, una specie di ‘trucco’ per aggirare la necessità di rispondere seriamente a tutte quelle domande che qualsiasi documento del passato inevitabilmente ci pone.
[All’intervento, molto compresso in sede di convegno per problemi organizzativi, è seguito un breve ma intenso dibattito, che purtroppo non è possibile restituire perché non erano state effettuate le registrazioni in sala. Gli argomenti trattati sono però stati ripresi nel corso delle giornate successive, e risultano agli atti negli altri momenti di discussione, per esempio nel corso della tavola rotonda] |
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