Prassi critica e edizione esecutiva: problemi e obiettivi
Il titolo di questo convegno allude in maniera alquanto diretta ad una tensione più o meno palese tra musicologia e prassi esecutiva, due ambiti della cultura musicale apparentemente distinti, ma in sostanza accomunati dall’interesse nei confronti di un’attività artistico-culturale che non ha ragione d’essere senza la sua dimensione ‘performativa’. Non accade, infatti, raramente di sentire esecutori inveire contro le elucubrazioni intellettuali dei musicologi e questi ultimi considerare i primi chiacchieroni ingenui e superficiali. Il problema di fondo di questo contrasto non è però agevole da comprendere se si rimane ancorati a stereotipi che sembrano ancora evocare la distinzione medievale tra musicus e cantor. Sicuramente un po’ di rivalità tra gli studiosi attivi in ambito universitario e i pratici esiste, ma in fondo essa fa anche parte di una dinamica sociale fruttuosa pure dal punto di vista scientifico. Il dialogo resta comunque necessario per affrontare questioni comuni, e per questo convegno è stato scelto non a caso il tema dell’edizione critica come realizzazione editoriale del testo musicale, una questione con la quale sia musicologi sia esecutori si confrontano in maniera più o meno consapevole. Sotto tale aspetto, i termini della questione sono forse più comprensibili se si pensa alla rivalità delle due ‘amiche’ cui fa riferimento il titolo del convegno come ad una dinamica caratteristica di due funzioni della cultura musicale:[1] da una parte la funzione ‘filologo-editore’, che come tale si interessa all’opera musicale nella sua dimensione storica e offre un testo musicale che, a seconda della prospettiva adottata, dovrebbe approssimarsi il più possibile all’intenzione del suo autore o comunque alla sua identità testuale originaria, e dall’altra la funzione ‘esecutore’, che, partendo dalle stesse premesse di autenticità, offre invece la realizzazione sonora del testo, fruibile come evento unico (oggi comunque sempre più riproducibile con lo sviluppo dei mezzi audiovisivi). È importante parlare di funzioni piuttosto che di discipline o di figure professionali, dato che lo stesso individuo può essere ‘filologo-editore’ ed ‘esecutore’, sia che si tratti di un musicologo accademico che abbraccia la prassi, sia di un esecutore che sviluppa sempre più competenze filologiche e cura edizioni. Nella prima metà del Novecento l’autore di un’edizione critica – si pensi ai diversi Denkmäler – era un musicista spesso (ma non sempre) dotato di formazione accademica, giuridica o filologica.[2] Questi offriva un testo musicale che come ‘monumento’ poteva essere destinato ad essere letto e analizzato come una lingua morta in ambito universitario oppure eseguito da musicisti generalmente non avvezzi a questioni testuali o a problemi di prassi esecutiva storica e perciò in fondo dipendenti dalle edizioni critiche (e quindi dal musicologo stesso). L’atteggiamento paternalistico dell’accademico nei confronti del pratico è evidente ancora negli anni Cinquanta-Sessanta in quelle edizioni di musica antica per così dire ‘guidate’ che cercavano di sviluppare nel musicista il senso della prassi esecutiva storica. L’autore dell’edizione si sentiva spesso obbligato ad offrire tutta una serie di indicazioni, nel testo stesso o nei diversi paratesti, finalizzate ad un’interpretazione storicamente corretta.[3] Questo senso di dipendenza dell’esecutore dall’autore dell’edizione critica si è sempre più attenuato nel corso degli ultimi decenni del Novecento e questo principalmente, ma non solo, per la formazione sempre più storico-filologica di esecutori che, sulla base di competenze mediamente superiori a quelle dei loro colleghi di cinquant’anni prima, giudicano in maniera spesso diffidente, o comunque con più autonomia critica, le edizioni di una musicologia che, in proporzione, non si è sempre evoluta in senso pratico. Questo ovviamente riguarda quel settore della musica ‘antica’, che in ogni caso oggi sta espandendo sempre di più i suoi interessi di prassi esecutiva storica all’Ottocento. Le cose vanno diversamente per il tipo di esecutore che potremmo chiamare ‘tardo-romantico’: se si esclude l’uso occasionale di qualche Urtext, spesso di dubbia qualità, questo tipo di esecutore tende mediamente ad interessarsi poco a questioni testuali (si pensi al ruolo che ancora oggi rivestono nei conservatori italiani le revisioni di Casella o Schnabel delle sonate di Beethoven o quella di Mugellini del Clavicembalo ben temperato di Bach). Così il destino delle edizioni critiche rischierebbe di ritrovarsi in una impasse a dir poco paradossale: da una parte ignorate dai musicisti di tipo ‘tardo-romantico’ per scarso interesse filologico, dall’altra snobbate, proprio per un pronunciato interesse testuale, dalla diffidenza e dall’indipendenza di musicisti più consapevoli dal punto di vista filologico. Ma questa è la visione forse un po’ pessimista di una situazione complessa e sfaccettata che, osservata più da vicino, rivela non poche implicazioni metodologiche. A monte del problema c’è una questione di fondo che può essere formulata semplicemente con la domanda «che cosa deve contenere un’edizione critica e a chi è indirizzata?». Che l’edizione critica debba presentare il testo musicale è cosa ovvia, ma quale testo? Il concetto romantico-positivista di autenticità, connesso con una falsa etimologia al concetto di autore, ha resistito alle bufere neocriticistiche e poststrutturaliste e riesce ancora oggi a mantenere un certo consenso. Il problema è capire che cosa si intenda con il concetto di autentico: la volontà d’autore? e in questo caso, quale volontà? La prima o l’ultima? Oppure l’idea dell’autenticità si riferisce al testo stesso nella sua originaria dimensione e variabilità storica, al di là di una presunta volontà d’autore? L’estrema mobilità del testo in una tradizione, come per esempio nella musica medievale o in quella operistica barocca, in cui non è sempre facile dare la priorità autoriale ad un solo testimone e in cui la mouvance della dimensione testuale-esecutiva è comunque già insita nell’intenzione dell’autore, ha messo in parte in crisi l’idea di edizione critica basata sul metodo stemmatico e in alcuni campi introdotto la prassi dell’edizione basata sul miglior testimone, o comunque su un testimone.[4] Tale concezione filologica, spesso interpretata in maniera semplicistica, ha avuto diverse conseguenze nell’ambito delle edizioni di musica antica. Ed in fondo, tra l’idea di un’edizione del miglior testimone, soprattutto se accompagnata ad una rinuncia alla recensio della tradizione, e la prassi del facsimile vi è solo un passo. Se, infatti, il compito del filologo-editore si deve ridurre semplicemente all’emendatio di un testimone, a questo punto l’edizione appare fatica sprecata in un mondo musicale nel quale gli esecutori possono leggere la notazione antica e riconoscere gli errori da soli (e questo al di là delle competenze storico-filologiche individuali). E si aggiunga anche il fatto che le edizioni critiche generalmente non presentano più la realizzazione del basso continuo o la risoluzione degli abbellimenti, cosa che motiva ben poco anche l’esecutore di strumenti non antichi, quello che ho chiamato ‘tardo romantico’, assai meno abituato ad intervenire autonomamente sul testo. In un certo senso, se c’è veramente una crisi dell’edizione critica e se questa crisi non ha a che fare solo con fattori economici, ci si può chiedere se questo non derivi anche da una certa deresponsabilizzazione del musicologo nei confronti del testo musicale, un fatto che fa comodo non solo al musicologo stesso (perché fare un’edizione musicale è un lavoro lungo e faticoso), ma anche all’editore, dato che un Urtext o un facsimile sono più veloci da realizzare e da lanciare sul mercato. E la prassi di leggere dall’originale, sostenuta da non pochi musicologi – per esempio Margaret Bent per ciò che riguarda la musica del Quattro-Cinquecento –,[5] contribuisce senza dubbio a favorire questo processo di svalutazione dell’edizione moderna rispetto al facsmile. Non si tratta di un fenomeno nuovo, se si pensa all’immagine pessimistica che ne dava Philipp Brett che, negli anni Ottanta, vedeva un futuro nel quale il filologo musicale si limitava (a mo’ di segretario dell’esecutore di musica antica) ad azionare la fotocopiatrice e a preparare la tisana.[6] È chiaro che l’output relativamente magro di edizioni critiche non riesce a soddisfare il fabbisogno di una scena concertistica e discografica sempre più assetata di quello che possiamo chiamare ‘nuovo repertorio antico’, ma d’altra parte ci si chiede anche perché gli esecutori rinuncino spesso ad usare edizioni critiche esistenti – edizioni basate sul vaglio dei diversi testimoni – e si prendano anche il disturbo di un’escursione ad fontes spesso accidentata. Nella sua incisione delle partite di Bach uscita nel 2000, il clavicembalista Siegbert Rampe ha volontariamente deciso di non usare l’edizione critica della Neue Bach-Ausgabe. I motivi vengono spiegati da Rampe non solo nel libretto che accompagna l’incisione, ma anche nel suo contributo al Bach-Handbuch, nel paragrafo dal titolo «Fragen zum Notentext».[7] Richard Douglas Jones, curatore dell’edizione e dell’apparato critico, uscito nel 1978, aveva considerato alcune varianti manoscritte presenti in 5 esemplari a stampa delle partite come spurie. In particolare, l’inversione del tema nella giga della terza partita, presente in tre degli esemplari, non gli era sembrata convincente dal punto di vista compositivo e quindi non era stata neanche presa in considerazione per una riproduzione in appendice al testo. Un anno dopo però Christoph Wolff ha fatto presente che le correzioni apportate in uno degli esemplari erano della mano di Bach, che probabilmente volle tra l’altro mutare, dopo la stampa del 1727, il trattamento del tema principale nella seconda parte da tonale a reale, modificando così in parte il tessuto contrappuntistico del brano.[8] Si può certo discutere sul fatto se veramente la «Fassung letzter Hand» debba in questo caso aver la meglio, ma il torto principale di Jones è forse stato quello di non trascrivere varianti così sostanziose nell’apparato critico, che avrebbe comunque documentato un’importante fenomeno testuale-compositivo. D’altra parte Rampe avrebbe dovuto nel 1999, anno dell’incisione e della pubblicazione del Bach-Handbuch, conoscere l’aggiunta ‘riparatrice’ all’apparato critico pubblicata nel 1997 da Jones, il quale non solo offriva sulla base delle nuove conoscenze un resoconto dettagliato delle varianti ora considerate d’autore, ma ne trascriveva le parti che recavano la nuova ornamentazione o la sezione in questione della giga. Insomma, dalla ricerca della cosiddetta ‘autenticità d’autore’ è risultato un tipico fenomeno filologico, vale a dire l’esclusione di varianti testuali sostanziali considerate irrilevanti in quanto solo parte della storia della ricezione. Tale atteggiamento si è però rivelato fatale nel momento in cui esse, in seguito ad un’analisi più accurata delle fonti, sono risultate parte integrante della volontà d’autore. Questo dimostra che, se è vero che non ha senso parlare di un’edizione critica definitiva, l’accuratezza di un’edizione e il livello d’informazione di un apparato critico contribuiscono sicuramente alla sua ‘attualità’ e alla sua maggiore accettazione da parte dei musicisti. Non meraviglia perciò che un’edizione come quella dell’Idomeneo di Mozart curata da Daniel Heartz nel 1972, il cui apparato critico è uscito solo nel 2005, redatto da Bruce Allan Brown, sia stata in fondo accettata da un direttore come John Eliot Gardiner per la sua incisione del 1990 nonostante una recensio lacunosa. All’origine di questa edizione vi è un problema di fondo comune a non pochi volumi della Neue Mozart-Ausgabe. Molti degli autografi mozartiani prima conservati alla Preussische Staatsbibliothek di Berlino e ritenuti scomparsi dopo la seconda guerra mondiale vennero per così dire ritrovati alla fine degli anni Settanta alla Biblioteca Jagiellońska di Cracovia e furono resi consultabili solo dopo qualche anno agli studiosi occidentali. A Cracovia sono conservati il primo ed il secondo atto dell’autografo di Idomeneo. Si tratta della partitura che Mozart utilizzò per la prima esecuzione a Monaco e nelle riprese successive. Il ritrovamento degli autografi ha sicuramente aggiunto nuove informazioni sulle modifiche effettuate nel primo e secondo atto, ma non ha rivoluzionato l’immagine dell’opera fornitaci dalla Neue Mozart-Ausgabe. Heartz ha lavorato con tale acribia sulle fonti a disposizione (libretto, corrispondenza, copie) che la maggior parte delle sue ipotesi sono state confermate dagli autografi. E l’incisione di Gardiner rappresenta, con qualche piccola eccezione, la realizzazione sonora della Neue Mozart-Ausgabe con quasi tutti i brani riportati in appendice. Certo, finché gli esecutori conserveranno sempre più gelosamente le partiture approntate per le loro esecuzioni, non sarà sempre facile capire, almeno in dettaglio, i motivi che li spingono ad approntare un’edizione nuova. Per un caso come ad esempio la nuova realizzazione di Giulio Cesare in Egitto di Sartorio da parte di Attilio Cremonesi da poco uscita su CD sarà probabilmente possibile sentire qui la viva voce del direttore. Ma già dal punto di vista strettamente filologico, uno sguardo all’edizione approntata nel 1991 da Craig Monson[9] sembra soddisfare poco sia il musicologo sia l’esecutore. Le fonti principali a disposizione sono, per quanto riguarda i testi, i libretti della prima veneziana del 1677 e dell’esecuzione napoletana del 1680, che mostrano numerose discrepanze. Ancora maggiori discrepanze mostrano i due manoscritti principali, uno conservato a Napoli e quindi collegato all’esecuzione napoletana, e una raccolta di arie conservata a Venezia che raccoglie tra l’altro i brani omessi o variati a Napoli ma che, al contrario del manoscritto napoletano, non presenta quasi i ritornelli strumentali e i recitativi. Dato che entrambi i testimoni sono incompleti, Monson ha optato per una mescolanza. Il testimone principale è il manoscritto napoletano, ma quando questo si allontana dalla versione del libretto di Venezia si prende in considerazione il testimone veneziano, che Monson presume più vicino all’intenzione di Sartorio. Alcune delle arie veneziane sono scritte però per un altro registro e Monson presuppone, per motivi che non riesce a dimostrare, che esse siano state trasposte rispetto a quelle napoletane, e quindi rispetto a quello che lui considera l’originale. Il problema è che Monson non si pone la questione se la versione di Napoli sia veramente d’autore o no (cosa molto improbabile) e presuppone che i recitativi napoletani siano rimasti identici a quelli veneziani. Insomma, l’idea di rimanere ancorati alla prima veneziana ha creato un testo abbastanza ibrido. Sarebbe stato forse più sensato basarsi sulla versione napoletana e riportare le arie veneziane non presenti a Napoli in appendice. Ad accrescere la voglia del lettore di andare a guardarsi gli originali contribuiscono poi numerosi errori nella trascrizione del testo poetico, di cui manca del tutto una vera edizione, un uso degli accidenti a dir poco problematico (reso ancora più ‘accidentato’ dalla decisione di non riportare in apparato le discrepanze tra il testimone principale, cioè il manoscritto napoletano, e l’edizione) e la realizzazione del basso continuo che, al di là della sua qualità, sembra oggi essere un elemento visivo di disturbo per l’esecutore (anche se su questo si può discutere). Un’edizione lacunosa sembra essere in ogni modo uno dei motivi principali per i quali l’esecutore ‘informato’ decide di approntarne una nuova, ma i casi più frequenti sono in genere quelli delle edizioni con pochi testimoni, dove – come ho già accennato – l’accesso alle fonti dà l’impressione di essere meno complicato (anche se non lo è). In ogni caso è improbabile che di fronte ad un’irreprensibile edizione critica come quella della Johannes-Passion di Bach realizzata da Arthur Mendel per la Neue Bach-Ausgabe, e corredata da un apparato critico a dir poco monumentale, il musicista si prenda la briga di ripetere l’arduo percorso del musicologo. È chiaro però che la sua prospettiva davanti ad un’edizione critica sarà non soltanto filologica, ma anche pragmatica. Molte delle differenze riscontrabili fra edizione ed esecuzione riguardo al testo musicale non sono in effetti comprensibili senza prendere in considerazione il loro diverso statuto ontologico e di conseguenza il diverso atteggiamento dei loro rappresentanti. Richard Taruskin nella sua critica al fenomeno dell’autenticità sostiene, citando e parafrasando lo storico tedesco Leopold von Ranke, che il compito dell’esecutore non può essere quello di ricostruire «wie es eigentlich gewesen» («come è andata realmente»), ma, se siamo fortunati, «wie es eigentlich uns gefällt» («come ci piace realmente»), in quanto l’esecuzione deve tener presente il suo sistema produttivo senza cadere nel museale.[10] La conseguenza di tale affermazione – sulle cui linee generali c’è un certo consenso – è che, se l’autore di un’edizione critica deve offrire dalla sua prospettiva ‘autentica’ tutta una serie di informazioni che mostrino i vari aspetti e problemi della tradizione testuale (tutto questo agevolato dall’ampia cornice discorsiva dei paratesti a sua disposizione), l’esecutore non può eseguire una tradizione, o presentare musicalmente un problema filologico, ma deve fare una scelta pragmatica e non sempre conforme alla cosiddetta ‘verità storica’. Questo si vede soprattutto nel momento in cui l’esecutore si trova di fronte una composizione frammentaria e rimasta incompiuta e non può semplicemente presentarla come tale o – come spesso si fa nel campo delle ricostruzioni di frammenti delle arti figurative – con integrazioni che stilisticamente contrastano con il frammento, il che provocherebbe nell’ascoltatore una sensazione più d’estraniamento che di autenticità. Le scelte di tipo pragmatico sono anche evidenti quando, nel caso ad esempio di un’opera presente in più versioni, gli esecutori, come spesso avviene, optano per una mescolanza che irrita molti musicologi. E al musicologo votato all’organicismo estetico il pragmatismo rischia spesso così di apparire come un’eresia epistemologica. D’altra parte a questa critica si può anche obiettare argomentando che l’idea di ‘versioni’ distinte e diverse l’una dall’altra presuppone una concezione dell’opera d’arte e della sua identità di stampo classico-romantico, estranea alla cultura della musica vocale del Sei-Settecento, dove il cambiamento strutturale e il rimaneggiamento erano il risultato di un continuo adattamento al sistema produttivo. Dalla complicatissima ricostruzione della genesi e della storia della Johannes-Passion di Bach oggi conosciamo 4 versioni,[11] ma a parte il fatto che noi in genere per diversi motivi ascoltiamo un miscuglio tra la prima e la quarta versione (ovvero la prima con la strumentazione della quarta), ci si può veramente chiedere se Bach avesse in mente Fassungen ben distinte. L’apparente disinvoltura dei pratici nei confronti delle fonti può forse mettere il filologo in agitazione, ma essa può rivelarsi in fondo, a seconda dei repertori, molto più ‘storica’ del rispetto fanatico per l’integrità dell’opera d’arte. D’altra parte un’obiezione legittima che può essere avanzata in questo caso è che l’esecutore moderno, al contrario dell’esecutore sei-settecentesco, sbandiera molto spesso ideali storico-positivistici – espressi da formule tipo «esecuzione filologicamente corretta» e «con strumenti originali» e così via – che però, scontrandosi con il sistema produttivo del suo tempo, rischiano di trascinarlo in uno stato di schizofrenia. Non dimentichiamo poi che lo statuto dell’esecuzione, attraverso la riproduzione audio o audio-visiva, tende sempre di più ad acquisire una responsabilità di tipo quasi testuale. Questo è particolarmente evidente sia nella tendenza a presentare su CD, come in un’appendice, diverse redazioni di un testo o brani sostitutivi concepiti dall’autore per esecuzioni successive alla prima, sia nell’influsso che certe scelte esecutive, una volta fissate sui mezzi audiovisivi, possono avere sulla prassi successiva. Un piccolo esempio filologico può dare l’idea di questo fenomeno. Qualche anno fa ho ascoltato ad Amburgo Michael Schneider che dirigeva con il suo ensemble La Stagione alcune arie e duetti di Hasse. Tra questi c’era il duetto «Se mai turbo il tuo riposo» da Cleofide, un duetto basato sul testo metastasiano e che, come quasi tutti i duetti di Hasse e di questo periodo, è scritto in un tempo lento, presenta una sezione dialogica più una sezione simultanea nella prima parte (A), una sezione intermedia (B), e poi il da capo. Quello che mi ha colpito dell’esecuzione amburghese è che a partire dalla sezione simultanea il tempo mutava in un allegro scatenato, esteso poi alla sezione intermedia. Dato che in quel periodo mi occupavo di duetti dell’opera seria, questa struttura del tutto anomala, che sembrava essermi del tutto sfuggita nell’analisi delle opere di Hasse e minava la mia tassonomia, ha scatenato la mia curiosità e non pochi dubbi. Ho preso come riferimento l’incisione di William Christie, realizzata nel 1986 per la casa discografica Capriccio, e vi ho ritrovato gli stessi tempi di Schneider. Non mi restava che esaminare in dettaglio la tradizione manoscritta. La tradizione di Cleofide presenta quattro testimoni principali, oggi rispettivamente a Monaco, Lipsia, Berlino e Dresda. Solo Dresda presentava il cambio di tempo nel duetto, con l’indicazione «presto» comunque scritta da una mano posteriore, non identificabile con quella di Hasse. Molto probabilmente si tratta di un’aggiunta avvenuta a Dresda durante le numerose riprese di quest’opera, e non escludo piuttosto tardi, forse verso gli anni Sessanta, quando i duetti presentano spesso un cambio di tempo in allegro. Christie ha avuto a disposizione tutti i testimoni dell’opera, ma ha scelto questa variante probabilmente perché conferisce al lungo e languido duetto un certo slancio ritimico e, soprattutto, ne accorcia la durata, anche se si può discutere sul fatto che l’indicazione «presto» vada estesa anche alla sezione centrale. Un tale esempio è soprattutto significativo per il fatto che la sua scelta sembra aver fatto scuola, come si desume dall’esecuzione amburghese di Schneider, che probabilmente aveva l’edizione preparata da Christie o ha aggiunto il cambio di tempo sulla base della sua incisione. Non è da escludere che la variante adottata da Christie sia d’autore, anche se non autografa, ma il problema risiede nel fatto che l’incisione, pur avendo potenzialmente assunto un’importanza quasi testuale (soprattutto in mancanza di un’edizione critica o di un’incisione alternativa), non giustifica e forse non può giustificare dettagliatamente per iscritto queste scelte per informare l’ascoltatore. Sicuramente l’idea di un’«esecuzione» o meglio un’«incisione critica» che, sulla falsariga dell’edizione, renda conto in dettaglio anche in un paratesto delle scelte effettuate è un’utopia, anche se sempre più incisioni giustificano alcune scelte di tipo testuale; in genere però descrivono problemi filologici più generali. In alcune foto pubblicate nei primi dischi dell’incisione integrale delle sinfonie di Mozart realizzata da Christopher Hogwood a partire dal 1978 il direttore viene ritratto con il primo violino Jaap Schröder e il musicologo Neal Zaslaw. La presenza del musicologo in questa impresa monumentale era soprattutto motivata dal fatto che all’epoca di queste registrazioni molte delle prime sinfonie non erano ancora disponibili nella Neue Mozart-Ausgabe. Zaslaw ebbe soprattutto la funzione di preparare alcune delle edizioni sulla base degli autografi o di copie, qualora gli autografi non fossero stati disponibili (questo è almeno quello che si evince dal suo commento). Il fatto che negli ultimi dischi il direttore sia ritratto in posizione titanica, con il primo violino sullo sfondo e senza più traccia del musicologo, non deve far pensare che Zaslaw si fosse tirato in disparte. Anzi, proprio nelle ultime incisioni, il musicologo americano ha permesso anche all’incisione di superare la Neue Mozart-Ausgabe: nel caso della sinfonia parigina KV 300 presentando, sulla base di allora recenti ricerche di Alan Tyson, l’andante in 3/4 (adesso ritenuto il movimento lento originario della sinfonia), con la parte del fagotto originale che mancava nelle stampe a disposizione per la Neue Mozart-Ausgabe e che qui era stata ricostruita per congettura; nel caso della Sinfonia praghese KV 504 si è potuto prendere in considerazione l’autografo mozartiano conservato a Cracovia, non disponibile ai tempi dell’edizione critica realizzata da Friedrich Schnapp e László Somfai nel 1971. E dato che Somfai stesso ha partecipato all’edizione per la registrazione della sinfonia praghese, l’incisione si è alla fine configurata come il risultato di un fitto dialogo tra due musicologi e un direttore.[12] La stretta collaborazione tra musicologi e musicisti è un fenomeno che sta sempre più prendendo piede nella scena musicale internazionale, e qui a questo convegno partecipano sia musicisti che hanno contatti con i musicologi sia musicologi che hanno esperienze di lavoro con i musicisti. Quindi lo scopo del nostro incontro non è tanto quello di riconciliare due gruppi professionali, quanto quello di instaurare un dialogo sulle modalità di una pratica culturale che tenga presente le esigenze della musica sia come testo musicale, sia come evento sonoro. Il tema specifico qui affrontato, quello della musica vocale italiana tra Sei e Settecento, è in realtà molto più vasto di quanto non sembri a prima vista e presenta alcune problematiche particolari. Già il fatto che la musica in questione sia vocale ha conseguenze di non poca portata per il carattere stesso dell’edizione e della realizzazione pratica. La doppia identità testuale dell’opera musicale vocale pone non pochi problemi di filologia letteraria spesso sottovalutati, che chiamano in causa competenze non necessariamente previste nella formazione musicologica o in quella musicale. Da questo punto di vista la musica vocale su testi italiani non ha in sé uno statuto molto diverso da quella in inglese o in tedesco, ma la sua vasta diffusione nella maggior parte dei paesi europei, dove l’italiano è nelle corti la lingua per eccellenza della musica vocale, rende la sua tradizione un fenomeno molto più articolato rispetto a quella della musica francese, esportata tutt’al più in qualche centro dell’Europa Settentrionale per un breve periodo, e in parte controllato attraverso la stampa dei testi. Quest’ultimo fattore mette in luce anche una differenza significativa tra il repertorio italiano e quello francese, vale a dire la preponderanza schiacciante della tradizione manoscritta nel repertorio vocale italiano rispetto alla cultura della stampa. Questo ha conseguenze notevoli sulla conservazione dei testi e sulla loro dinamica culturale, dato che la stampa tende a conferire all’opera musicale uno statuto testuale più stabile (anche se non ne esclude la variabilità). E il carattere del dramma per musica come evento non solo musicale, ma pure teatrale pone anche questioni concernenti la messa in scena, un aspetto al quale la stessa nostra cultura di stampo positivista è refrattaria ad attribuire uno statuto testuale forte, da difendere con le armi dell’autenticità (la contemporanea presenza di strumenti sei-settecenteschi nell’orchestra e di docce e cabine telefoniche sul palcoscenico sembra oggi scandalizzare pochi). È da augurarsi in ogni caso che dalle numerose discussioni di questo convegno emergano idee e proposte di lavoro che, al di là del repertorio specifico qui trattato, servano da stimolo per una riflessione su ulteriori tradizioni compositive ed esecutive. È solo dalla comunicazione tra musicologi e musicisti che può attuarsi l’ironico scambio di coppia contenuto nel titolo di quest’introduzione. Auguriamoci quindi che la prassi guadagni un po’ in spirito critico e le edizioni in sensibilità pratica.
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