«Il 25 settembre 1264, sul far del giorno, il
Duca d’Auge salì in cima al torrione del suo castello
per considerare un momentino la situazione storica. La trovò
poco chiara. Resti del passato alla rinfusa si trascinavano ancora
qua e là. Sulle rive del vicino rivo erano accampati un Unno o
due; poco distante un Gallo, forse Edueno, immergeva audacemente i
piedi nella fresca corrente. Si disegnavano all’orizzonte le
sagome sfatte di qualche diritto Romano, gran Saraceno, vecchio
Franco, ignoto Vandalo. I Normanni bevevan Calvados.
Il Duca d’Auge sospirò pur senza
interrompere l’attento esame di quei fenomeni consunti.
Gli Unni cucinavano bistecche alla tartara, i
Gaulois fumavano gitanes, i Saracineschi chiudevano persiane. I
Normanni bevevan Calvados.
«Tutta questa storia» disse il Duca di
Auge al Duca di Auge «tutta questa storia per qualche giuoco
di parole, per un po’ di anacronismi: una miseria! Non si
troverà mai un via d’uscita?».
Con queste parole si apre il romanzo Les fleurs
bleues [I fiori blu] di Raymond Queneau. «Quante
storie per un paio di anacronismi» verrebbe talora da
sospirare allo storico della musica, al filologo e a chi si
confronta quotidianamente con la prassi esecutiva della musica
medievale. È inevitabile produrre anacronismi quando si suona
o si canta quel repertorio, ma possiamo almeno chiederci per quale
tipologia di anacronismo vogliamo deciderci e perché.
I musicisti che si interessano al repertorio
medievale hanno ormai gli strumenti necessari per studiarlo e
conoscerlo a fondo. Tuttavia, il tipo di esecuzione non
dipenderà solo da quanto essa sia informata storicamente ma
anche dai gusti estetici personali, spesso piegati
all’organico a disposizione al momento e al pubblico, quindi
al mercato.
Sia gli interpreti, sia il pubblico hanno
un’immagine preconcetta dell’epoca che noi, in mancanza
di un termine più preciso, chiamiamo «medioevo».
Dall’umanesimo in avanti, attraverso l’illuminismo, il
romanticismo francese o tedesco e i movimenti di revival del
medioevo che si sono avvicendati fino ai giorni nostri, molto
è stato detto e scritto sul medioevo. E tutto questo ha
lasciato le sue tracce sul fruitore odierno, che eredita i
cliché di un medioevo primitivo, mistico, crudele, ingenuo e
‘oscuro’, come viene più sovente aggettivato.
Più di una volta mi è stato chiesto, ad esempio: «Ma
nel medioevo, esisteva già la musica?». E se nel 2003 su
un giornale svizzero un lettore dichiarò che era ora di
finirla con questa «tecnologia medievale dell’energia
nucleare», va da sé che il termine «medioevo»,
per estensione, venga ormai associato a tutto ciò che suona
inadeguato ai tempi, vetusto, persino ridicolo.
I fruitori della musica medievale, cioè
interpreti, pubblico e l’industria discografica possiedono
una propria immagine del medioevo, proprie aspettative su ciò
che immaginano essere la musica medievale e questa
eterogeneità di immagine si riflette sulla pratica musicale
attuale. Lo stesso brano può presentarsi in un modo
completamente diverso a seconda delle scelte del gruppo che lo
esegue. Paradigmatico è il caso della ballata monodica
Lucente stella che’l mio cor desfay, tramandataci da
un’unica fonte, sul folio 22 del cosiddetto Codice
Rossi (Biblioteca Vaticana, Rossi 215), risalente al 1370 circa,
che contiene musica italiana anonima profana, monodica e
polifonica.
Il testo di Lucente stella si inserisce
stilisticamente nella tradizione del Dolce Stil Novo. Nel secondo
piede della ballata «gli atti tuoi prometton salute a chi si
specchia nel tuo bel viso», la donna idealizzata porta salute
e quindi conoscenza a chi si riconosce nel suo viso. L’amore
come via della salute. Questa è l’idea fondamentale
dell’amor cortese. In questo senso Lucente stella,
nonostante le inflessioni veneziane rivelate dal testo, non è
poesia popolare. È importante ricordare che il canto monodico
nel corso del medioevo è prima di tutto una recitazione
poetica e questo implica che l’interpretazione musicale si
orienti sul testo. Un’interpretazione che si basa sul
manoscritto, che non è nient’altro che una linea
melodica su un testo poetico, si preoccuperà di declamare il
testo nella maniera più intelligibile e rispettosa
possibile.
Altre interpretazioni non si accontentano di questo,
ma cercano di arricchire la ballata aggiungendo voci strumentali o
allungando la durata del brano con pre-, inter- o postludi
strumentali, come ad esempio nella registrazione del gruppo
Micrologus del 1988.
Su un accompagnamento di percussioni, cerca di
emergere una voce forte e un po’ monotona. Durante tutto il
brano, il tamburo riproduce una pulsazione regolare. Le finezze
dell’originale mensurale vengono letteralmente
‘abbattute’ dall’uniformità del nuovo
ritmo.
La sonorità di questa incisione evoca quella di
certa musica popolare. L’associazione musica
medioevale-musica popolare è molto diffusa, poiché si
tenta di trovare nella seconda ciò che si ignora nella prima,
ossia come suonava. Specie nell’ambito
dell’interpretazione della musica italiana del Trecento
è diffuso un simile orientamento. Nella musicologia questo
fenomeno ha una lunga tradizione. Durante il suo discorso di
rettorato a Göttingen nel 1930, Friedrich Ludwig osservò:
«Accanto alla gracile e raffinata arte polifonica dei
madrigalisti italiani, un’impetuosa corrente di canto
popolaresco religioso rumoreggia nell’Italia del
Trecento». È di quella «corrente di canto» che
si nutrono le interpretazioni quando non si tratta di gracile
polifonia ma appunto di musica monodica del Trecento. Ludwig a sua
volta si appoggiava ad una certa tradizione. Già Raphael Georg
Kiesewetter nel 1838 alludeva alle «melodie
popolareggianti» dei trovieri francesi del Duecento e
chiamò i canti dei trovatori «veri canti popolari».
Se oggi la musica medievale è interpretata in chiave
popolareggiante, però, non lo si deve né a Ludwig né
a Kiesewetter, ma alle comparazioni fra melodie popolaresche
moderne di varie regioni e un certo repertorio medievale. È
facile immaginarsi quanto questo possa risultare problematico.
Nel 1991 il gruppo Alla Francesca incise la ballata
Lucente stella in una versione puramente strumentale che
restituisce il testo monodico in forma ornamentata. Un flauto dolce
di bambù è chiamato ad ornare la monodia originale.
È indubbio che la scelta dello strumento solista dipenda dalle
idee dell’interprete sul medioevo. Forse involontariamente
l’effetto prodotto è quello di certe musiche di
meditazione in voga negli anni Ottanta (New Age).
Un’interpretazione simile rafforza nell’uditore
l’idea di un medioevo mistico e meditativo.
L’esecuzione lascia anche pensare alla musica giapponese o
indiana, creando ancora un ponte fra musica medievale e la
cosiddetta world music. Questa incisione mette in rilievo
due aspetti dell’immagine moderna del medioevo:
l’aspetto mistico-meditativo e l’aspetto esotico,
tralasciando completamente l’elemento fondamentale: il
testo.
Nel 1995, il gruppo Micrologus riprese Lucente
stella facendo precedere la melodia originale da un brano
strumentale, inventando un contrappunto ritmicamente monotono e un
postludio assai lungo alla fine. Invece della recitazione monodica
di una poesia, si ascolta una composizione polifonica
contemporaneo-medievale, neo-medievale. Il ritmo mensurale
dell’originale viene semplificato in un modello ritmico
ripetitivo dell’accompagnamento strumentale. La tipica forma
della ballata in cinque parti – ripresa, due piedi, volta e
seconda ripresa – diventa un modello tripartito:
introduzione, parte principale, postludio, una sorta di forma
classica, più familiare agli uditori. Invece di proporre una
delle immagini stereotipate del medioevo, l’esecuzione adatta
il brano al gusto moderno, offrendo all’uditore un modello di
riferimento a lui più vicino, quello classico.
Le tre interpretazioni che abbiamo sentito mostrano
tre idee differenti dello stesso brano originale. La libertà
nella scelta si spiega con le lacune sulla pratica musicale del
Trecento. Certuni hanno però la tendenza ad esagerare queste
lacune per giustificare le proprie scelte stilistiche. Vorrei
citare ad esempio alcune frasi di un’intervista rilasciata da
una suonatrice di viella: «Suonare una canzone esoterica di un
trovatore, non partendo da musica scritta, ma solo da una poesia
criptica, difficile da capire, pone numerose difficoltà
perché si è costretti a prendere delle decisioni e
comporre una parte». In questa dichiarazione l’arte
trobadorica viene etichettata come «esoterica», e si
suggerisce erroneamente l’idea che di questo repertorio non
esista alcuna traccia scritta. In realtà, sono trasmesse quasi
300 melodie. In confronto a una produzione totale di circa 2500
poesie trobadoriche non è molto, certo, ma sempre meglio di
niente. Più avanti si afferma che la poesia sia difficile da
capire, il che è vero se non la si affronta seriamente. A
partire da questi presupposti si è legittimati a comporre
qualcosa di completamente nuovo! L’ignoranza viene esagerata
al di là del vero, al fine di acquistare totale libertà
sull’interpretazione. È la stessa strumentista a
dichiarare più avanti che: «suonare musica medievale
è come cucinare senza ricetta».
Ciascuna delle interpretazioni esprime delle idee
personali sul medioevo o tenta di familiarizzare il pubblico con un
repertorio assai remoto. È comprensibile che gli
ensemble cerchino repertori meno noti ma accattivanti per il
pubblico – in questo caso la musica medievale. Al contempo
è evidente la preoccupazione di tenere conto delle abitudini
d’ascolto odierne e di riproporre al pubblico ciò che
risponde alle sue aspettative di ‘sound’ medievale,
quel ‘sound’ a cui è stato educato negli ultimi
cinquant’anni di prassi esecutiva di quella musica.
L’ascoltatore si attende un organico variegato e un po’
esotico o un bordone permanente che fa da sottofondo
all’intero brano. Questo sì che è medievale! È
chiaro che non è il pubblico ad aver stabilito questi criteri
stilistici, ma sono i vari ensemble. Cito dal sito internet di un
gruppo di musica medievale: «Il medioevo, l’epoca in cui
si sprofondava nel fango, che odorava di lana bagnata e in cui
mancava la carta igienica. Ma c’era di più della miseria
e della peste bubbonica. Quell’epoca era piena di musica, di
suoni e strumenti che oggi sono quasi dimenticati. Il nostro
obiettivo è di presentare la musica del medioevo nella maniera
più autentica possibile, mantenendo sempre l’aspetto
più importante – vale a dire lo "Swing"!».
Così si creano le aspettative: la musica medievale si basa
sullo «swing»: viene ritmizzata in modo da interessare un
certo pubblico. Immagino che le interpretazioni di questo gruppo
facciano onore a queste premesse…
Il programma di un CD con musica medievale viene
confezionato come una scatola di cioccolatini, assortito con un
po’ di tutto ma non troppo. Se un brano è troppo corto,
si canta due o tre volte di seguito. Ma chi ne ha determinato la
durata? L’industria musicale coi titoli «tre
minuti» per la radio. D’altra parte, se possiede molte
strofe (il più lungo di cui ho conoscenza è di Guillaume
de Machaut, con 36 strofe), allora non si canterà tutto ma si
comincerà a tagliare per arrivare alla durata
‘ideale’, procedimento però che non si adatta in
tutti i casi. Tutte queste modificazioni sono concessioni al
pubblico, al mercato. Mettendo al centro dell’interesse la
musica stessa e non le aspettative del pubblico, non è
necessario scegliere strumenti esotici o aggiungere linee,
introduzioni o postludi neo-medievali. Non si deve rimediare a una
presunta deficienza di questa musica che nasce dal presupposto che
il testo tràdito non contenga che una piccola parte delle
informazioni occorrenti per una soddisfacente esecuzione.
Lontana da me l’idea di postulare un purismo
sterile e di pretendere che solo l’interpretazione monodica
senza accompagnamento sia lecita. Questa forma di esecuzione ha
però due grossi vantaggi: si ascolta quello che è
trasmesso nel manoscritto, percependone l’origine poetica. I
rifacimenti nello stile del secondo esempio, con Micrologus,
suggeriscono all’uditore un originale fittizio (questa
versione è due volte più lunga delle altre), che può
esser copiato da un altro gruppo come vero originale, come è
successo con questo brano. L’uditore crede dunque di
ascoltare un originale medievale, quando in realtà si tratta
di una composizione nuova che da numerosi punti di vista non
può ritenersi soddisfacente. Mi spiego. Non sono composizioni
veramente contemporanee, ma nient’altro che timidi
compromessi in stile medievale, paragonabili a un capanno di caccia
neogotica. Questo è il risultato di una certa paura
dell’anacronismo, in cui si tenta di diminuire la distanza
temporale fra quella musica e l’uditore odierno. Ma queste
nuove composizioni in molti casi non raggiungono la qualità
dell’originale, creando uno squilibrio all’interno
delle singole parti dell’esecuzione, e tra un pezzo e
l’altro. Una composizione moderna è sempre concepita per
una determinato organico. Nella musica medievale mancano
informazioni inequivocabili a questo riguardo. Il risultato è
sovente un certo eclettismo, una globalizzazione infelice e
arbitraria nella scelta dei mezzi – al fine di piacere al
pubblico e di vivacizzare un programma altrimenti
‘noioso’ – che né esteticamente né
storicamente riesce a convincere.
Per l’interprete di musica medievale non si
tratta di ritirarsi dal mercato, di rinchiudersi in una torre
eburnea e mangiare pappa di miglio invece del BigMac, ma di non
proporre al pubblico un repertorio precotto e pronto al consumo. Ci
vuole coraggio per infrangere le consuetudini della storia della
prassi esecutiva, che spesso ha celebrato oppure banalizzato la
musica medievale invece di comprenderla come fenomeno musicale al
pari di altri e presentarla di conseguenza.
Credo sia giunto il momento di liberarsi di certi
retaggi degli ultimi decenni e di ripensare a tutte le concessioni
fatte al pubblico. Solo allora sapremo se l’astrazione della
fonte grafica potrà essere vivificata per mezzo
dell’esecuzione sonora, senza tentare di adattare il brano al
pubblico, ma al contrario, cercando quasi di adattare il pubblico
alla musica, avvicinandoci a questa con i mezzi oggi disponibili,
accettando l’inevitabile anacronismo e sottoponendo le
vecchie abitudini ad uno sguardo critico, poiché questi
«fenomeni logori» – come dice Queneau –
impediscono di veder chiaro l’oggetto.
Le prime riproposizioni della musica medievale
all’inizio del Ventesimo secolo furono degli arrangiamenti
estremi, come ad esempio la strumentazione di un organum del XIII
secolo per grande orchestra e coro. Si riteneva che la musica
medievale, seppur storicamente interessante, fosse composta in
maniera ‘primitiva’. Oggi si dice di avere una maggiore
stima di questa musica (basti leggere il programma di un CD), ma
molte interpretazioni mostrano una grande sfiducia negli originali.
Questo dubbio non viene espresso, ma è implicito
nell’esecuzione. Siamo meno sinceri dei pionieri della musica
medievale del primo Novecento e meno coerenti degli storici
dell’Ottocento come un Viollet-le-Duc, che dopo aver studiato
l’architettura gotica a fondo, lavorò con la ghisa per
rimediare alle presunte debolezze delle costruzioni originali. Gli
interpreti moderni rinforzano i loro brani con preludi, interludi o
postludi e non con la ghisa, ma non dicono di farlo perché non
si fidano dell’originale. Al contrario: diranno che si tratta
di musica molto preziosa e la presenteranno come se questi brani
fossero difettosi ed essi fossero stati costretti a intervenire a
loro modo.
Il pericolo è che la prassi esecutiva della
musica medievale finisca in una via senza uscita, perché
verrà il giorno in cui l’interesse per un flauto di
bambù sarà svanito e il bordone avrà perso il suo
profumo medievale. D’altra parte, delle composizioni dei
maestri del medioevo non abbiamo scoperto le infinite ricchezze che
ancora celano, ma abbiamo grattato solo in superficie. Tutte queste
opere stupende, prodotto di un’arte altamente raffinata, sono
da ripensare, da riscoprire, anche da parte di noi musicologi! Le
condizioni di lavoro non sono mai state così favorevoli,
considerato che possiamo disporre di ottime edizioni critiche, di
stupendi facsimili, di eccellenti studi musicologici e iconografici
e via dicendo. Non è più necessario fingere che non si
sappia abbastanza e che si sia costretti a copiare quello che si
è fatto durante i cinquant’ anni passati. Queste
interpretazioni, già diventate storiche, hanno una loro
legittimità e sono da rispettare e intendere come prodotti del
loro tempo, ma non possono costituire un modello interpretativo,
oggi.
Non nego che ci siano ancora molti aspetti della
pratica che rimangono oscuri, ma questo non ci legittima a
sfigurare la musica del Medioevo con delle aggiunte doppiamente
anacronistiche e musicalmente mediocri. Il musicista ben informato
ha il dovere di cercare e proporre una forma della rappresentazione
artisticamente autentica (non parlo chiaramente di autenticità
assoluta, poiché la ricostruzione precisa di un originale non
sarà mai possibile), cioè un’interpretazione che
sarebbe soddisfacente anche se non si trattasse di musica di
un’epoca così remota come il medioevo. Intenzionalmente
critico qui la mediocrità di coloro che diffondono questo
repertorio, che al contrario esigerebbe ottimi interpreti,
considerato l’alto grado di astrazione. Questa musica è
quasi come la poesia (trattandosi perlopiù di un repertorio
vocale) e pretende l’interpretazione di un poeta che si
limita all’essenziale e non fa impiego di versi
superflui.
Per amore del vero, devo anche dire che ci sono
giovani interpreti che lavorano già in questa direzione e
lasciano ben sperare che il mercato non sia il criterio assoluto
per le loro scelte interpretative: non incoraggiano, ad esempio, la
diffusione di vecchi cliché, come l’associazione musica
medievale = musica popolare, impiegando quindi strumenti esotici o
un bordone perpetuo. Il lavoro di questi ensemble preconizza la
bella «strada lattea del cielo», per citare un celebre
madrigale di Johannes Ciconia, che condurrà finalmente alla
comprensione profonda di questa poesia musicale così
affascinante.
Questa speranza trova un’immagine adeguata nei
«fiori blu» che alla fine del romanzo di Queneau spuntano
qua e là dal fango della storia:
«Une couche de vase couvrait encore la
terre, mais, ici et là,
s’épanouissaient déjà de
petites fleurs bleues».
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