Giovedì 19 e venerdì 20
febbraio scorsi si è svolto a Cremona il Seminario di studi
Tracce di una tradizione sommersa: i primi testi lirici
italiani tra poesia e musica, promosso dalla Facoltà di
Musicologia e dal Dipartimento di Scienze musicologiche e
paleografico-filologiche dell’Università degli Studi di
Pavia. L’evento aveva suscitato una forte aspettativa
nell’ambiente dei letterati e musicologi interessati alla
cultura romanza in genere. Gli specialisti hanno infatti
partecipato numerosi – come rilevava Cesare Segre in apertura
dei lavori – gremendo la sala "Alfredo Puerari" del Museo
Civico "Ala Ponzone" di Cremona.
Motivo di tale attesa erano
soprattutto i due documenti oggetto del Seminario: due preziose
testimonianze di una tradizione molto antica di poesia profana in
lingua di sì, per di più congiunta alla notazione
musicale. La prima di esse – consistente in due componimenti
amorosi trascritti tra il dodicesimo e tredicesimo secolo sul
verso di una pergamena ravennate – era stata riportata
solo da pochi anni all’attenzione degli studiosi da Alfredo
Stussi. La seconda testimonianza, invece, era rimasta del tutto
trascurata, sebbene Anna Riva ne avesse segnalato la presenza
nell’archivio di Sant’Antonino di Piacenza già nel
1992 e poi nuovamente nel 1997, nel suo catalogo dei manoscritti
dell’archivio ecclesiastico piacentino. Claudio Vela,
venutone a conoscenza appunto grazie al catalogo della Riva, ne ha
poi intuito il forte interesse storico, richiamando
l’attenzione degli studiosi, in primis quelli
direttamente coinvolti nel Seminario. Si tratta di un frammento di
poesia volgare annotato verso l’inizio del tredicesimo secolo
sulla coperta di un manoscritto della biblioteca antoniniana
(ABCSA, cass. 49, framm. 10).
L’interesse dei due reperti
risiede innanzitutto nella loro vetustà e nelle potenziali
implicazioni circa gli esordi della poesia in lingua italiana e le
modalità della sua diffusione ed esecuzione. Il frammento
piacentino preserva infatti la musica relativa ad una breve
porzione del testo poetico, con quest’ultimo chiaramente
sottoposto alla notazione. Nella pergamena ravennate, diversamente,
una notazione senza testo è vergata in modo corsivo sul
medesimo lato che accoglie anche i versi amorosi, ma, come è
risultato evidente ad un esame più attento, essa registra con
ogni probabilità la musica destinata ai medesimi versi.
L’idea di una diretta associazione tra i due testi (poetico e
musicale), sostenuta con vari argomenti e a partire da diversi
punti di vista dai relatori del Seminario, non era mai stata presa
in seria considerazione in precedenza, ed è stata
indubbiamente motivo di rinnovato interesse nei confronti del
documento riscoperto dallo Stussi.
A suscitare ulteriormente
l’attenzione per le due testimonianze si aggiungeva infine la
loro problematica collocazione in seno alle principali direttrici
della tradizione letteraria volgare coeva. Le caratteristiche
formali e tematiche dei due testi evidenziavano infatti un rapporto
quanto meno ‘obliquo’ con l’esperienza poetica
dei Siciliani e, d’altro lato, una certa vicinanza alle
tradizioni d’Oltralpe.
***
La prima giornata, presieduta da
Cesare Segre si è aperta col saluto del Direttore del
Dipartimento Maria Caraci Vela, e ha visto nell’ordine le
relazioni di Claudio Vela, Anna Riva, Teresa De Robertis, Piera
Tomasoni, Daniele Sabaino e Massimiliano Locanto. La seconda
giornata si è aperta con l’ultima relazione, di Sofia
Lannutti, ed è stata poi dedicata alla Tavola Rotonda che ha
visto succedersi, sotto la presidenza di Domenico De Robertis, gli
interventi di Pietro Beltrami, Luciano Formisano, Lino Leonardi,
Maria Luisa Meneghetti, Francesco Filippo Minetti, Maria Teresa
Rosa, Rodobaldo Tibaldi. Previsti anche gli interventi di Angelo
Stella e Agostino Ziino, poi impossibilitati a presenziare.
La relazione d’apertura di
Claudio Vela (Nuovi versi d’amore delle origini con
notazione musicale in un frammento piacentino) – il cui
titolo riprende quello del saggio di Stussi che diede
notorietà alla carta ravennate – si incentra sul reperto
che ha rappresentato, da un certo punto di vista, la maggiore
novità del Seminario (il frammento piacentino). Vela riassume
dapprima brevemente le vicende che hanno portato al suo
ritrovamento, cogliendo opportunamente l’occasione per
ricordare l’importanza dei cataloghi di archivi e biblioteche
ai fini della ricerca. Nelle intenzioni espresse dallo stesso Vela,
la relazione si prefiggeva il compito limitato di rendere noto il
testo e di proporne una prima lettura ed interpretazione. In
realtà la trascrizione semidiplomatica, la ricostruzione del
testo, l’analisi metrica e linguistica, l’esegesi e la
proposta di edizione interpretativa approntate dallo studioso, pur
costituendo l’inizio di un lavoro che dovrà ancora
proseguire, ne pongono le basi essenziali, e in modo
metodologicamente impeccabile. Vela propone una struttura metrica
con ritornello di un settenario doppio, e quattro strofe costituite
da un numero variabile di settenari doppi – con varie
escursioni anisosillabiche – ed endecasillabi (più
precisamente: una strofa tetrastica di un endecasillabo iniziale
più tre settenari doppi monorimi; due strofe tristiche di
settenari doppi monorimi; una quarta strofa tetrastica di tre
settenari doppi più endecasillabo finale monorimi, col primo
settenario doppio mancante del secondo emistichio). Un assetto
formale, quindi, senza riscontro esatto nella produzione lirica
volgare coeva, ma i cui singoli aspetti sono tutti facilmente
reperibili in essa. Sul piano linguistico Vela individua un
ibridismo di forme prettamente settentrionali ed altre più
geograficamente diffuse, forse interpretabile come la
settentrionalizzazione di un testo originariamente non
settentrionale. Nella sua lettura, poi, la terza strofa sarebbe
pronunciata da un interlocutore (la bella) differente da quello
delle strofe circostanti (l’amante). Si ipotizza così
l’appartenenza del testo ad un genere ben caratterizzato
– il contrasto – e quindi a quel filone dialogico il
cui punto di arrivo sarebbe «l’arte più consumata
di un Cielo d’Alcamo». In conclusione la relazione
allude suggestivamente alla possibilità che il testo del
frammento piacentino testimoni un’antica tradizione poetica
nord-italiana dal carattere popolareggiante, della quale ci è
rimasta per il resto ben poca traccia.
La relazione di Anna Riva (I testi
latini del frammento piacentino) offre una panoramica sul
contesto nel quale è inserito il componimento piacentino. La
presenza di un testo volgare all’interno della biblioteca
antoniniana rappresenta un caso unico: la collezione libraria di
Sant’Antonino, formatasi come strumento funzionale alla
scuola capitolare della basilica, contempla infatti essenzialmente
testi latini. La Riva si sofferma sulla tipologia del testo cui
è annessa la coperta contenente il frammento volgare,
sforzandosi anche di identificare gli altri testi presenti su di
essa. Il corpo principale del manoscritto (un trattato grammaticale
del XIII secolo), entrò a far parte della biblioteca
piacentina con ogni probabilità all'inizio del secolo XIII,
insieme ad un altro gruppo di codicetti della stessa disciplina. La
Riva nota come in questo secolo siano registrate diverse nuove
accessioni nel fondo delle opere grammaticali, in relazione al
mutare dei programmi di insegnamento e all'evoluzione della
disciplina. Quanto ai testi annotati sulla coperta, vergati da mani
diverse ma tutte del XIII secolo, la studiosa vi scorge annotazioni
e appunti di maestri, utili ai fini delle lezioni o di interesse
personale.
Agli aspetti più prettamente
paleografici è invece dedicata la relazione di Teresa De
Robertis (Osservazioni sulla scrittura della carta ravennate e
del frammento piacentino). Dopo aver ulteriormente chiarito la
natura del manoscritto in questione (un libercolo di pochi fogli,
di un tipo molto diffuso nelle scuole capitolari medievali, ma
estremamente deperibile) la studiosa avanza, sulla base del
confronto tra le varie mani complessivamente presenti e delle loro
caratteristiche grafiche e morfologiche, una datazione della
scrittura del testo volgare attorno al primo quarto del Duecento.
Quanto invece alla scrittura della carta ravennate, le osservazioni
della De Robertis non mirano tanto a rettificare o raffinare la
datazione già proposta da Petrucci e Ciaralli (tra il 1180 e
il 1210), quanto ad individuare significative analogie morfologiche
con la scrittura del testo volgare del frammento piacentino.
Piera Tomasoni (La lingua dei
versi d’amore ravennati. Consuntivo delle prime
interpretazioni) si incentra sulla componente linguistica del
primo – e più lungo – dei due componimenti poetici
(siglato con la lettera A dallo Stussi) della carta ravennate,
proponendo un sunto, ma anche una critica, delle varie ipotesi
formulate in altre sedi. In particolare vengono presi in esame e
messe a confronto il fondamentale studio di Stussi in «Cultura
Neolatina» del 1999 e quello di Castellani nel capitolo
conclusivo della sua Grammatica storica della lingua
italiana (2001). I due contributi, nota la Tomasoni,
interpretano in modo divergente il marcato ibridismo che
caratterizza il testo, nel quale fatti grafici e linguistici
ascrivibili con sicurezza all’area settentrionale coesistono
assieme ad altri decisamente afferenti all’area mediana e
meridionale, senza che uno di questi aspetti sia qualificabile come
originale. Stussi ipotizza una stratigrafia dovuta all’opera
di più copisti, i cui effetti sarebbero anche visibili in
diversi errori grafici, linguistici e metrici, e propende per
l’ipotesi di un prodotto settentrionale passato attraverso la
penna di un copista mediano attivo a Ravenna. Diversa la visione di
Castellani, che rifiuta la premessa di Stussi di un ibridismo per
trasmissione: il testo sarebbe un originale, non una copia, e la
sua collocazione geografica e letteraria dipenderebbe quindi
dall’interpretazione della lingua dell’autore, che
secondo Castellani rispecchierebbe la condizione del più
antico romagnolo. La Tomasoni evidenzia puntualmente vantaggi e
limiti delle due ipotesi, soffermandosi in particolare su quella
del Castellani, a verifica della quale suggerisce un confronto con
gli antici testi volgari ravennati raccolti da Giancarlo Breschi in
un volume di prossima pubblicazione.
La parte musicologica del Seminario
è rappresentata dalle relazioni congiunte di Daniele Sabaino
(Intonazioni d’amore in lingua di sì. Riflessioni e
ipotesi sul rapporto musica-poesia nella carta ravennate e nel
frammento piacentino) e Massimiliano Locanto (Osservazioni
paleografico-musicali per la datazione e la localizzazione della
carta ravennate e del frammento piacentino). La scelta di
riunire le due esposizioni in una sola nasce anche dalla
collaborazione e dallo scambio reciproco che hanno costantemente
caratterizzato il lavoro di ricerca dei due relatori. La parte
principale della relazione (Sabaino) riguarda la ricostruzione del
testo musicale della carta ravennate. Sabaino illustra punto per
punto le ragioni paleografiche che hanno indotto a riconoscere
nella scrittura neumatica vergata di seguito ai versi amorosi, la
musica da adattare ad essi. Identifica quindi un nesso tra la
disposizione della notazione sulla pagina e la struttura musicale,
e tra questa e la struttura poetica. Il testo musicale, di
difficile lettura sia per il cattivo stato di conservazione, sia
per la natura corsiva della scrittura, è quindi decifrato e
ricostruito. Vengono proposte e discusse diverse possibilità
di abbinamento musica-testo, per giungere infine ad una proposta di
trascrizione. Il risultato trova significativi riscontri nelle
ipotesi circa la struttura poetica che Sofia Lannutti aveva
autonomamente e precedentemente formulato. In particolare risulta
avvalorata dall’aspetto musicale l’ipotesi della
Lannutti seconda la quale il secondo componimento trascritto sulla
pergamena (una strofe di 5 versi, etichettata come testo B dallo
Stussi), non costituirebbe un testo autonomo, ma sarebbe stato
aggiunto al testo A, come suo refrain.
L’aspetto più strettamente
paleografico-musicale è approfondito invece dallo scrivente,
che individua nella notazione della carta ravennate e in quella del
frammento piacentino due differenti esiti del processo di
ibridazione delle notazioni italiane settentrionali con la
notazione detta ‘metense’, una varietà assai
diffusa e multiforme, ma originaria della Lorena. La relazione si
allarga quindi ad alcune considerazioni circa la diffusione di
questo modello grafico nell’Europa tra dodicesimo e
tredicesimo secolo. Rispetto alla datazione, si mostra come
l’esame paleografico-musicale non consenta di giungere a
conclusioni certe, ma offra nondimeno diversi elementi che
avvalorano le ipotesi basate sull’esame della scrittura
verbale.
Spunti suggestivi provengono dal
confronto dello stile melodico dei due brani musicali, che mostra
una forte affinità a quello liturgico, in particolare dei
tropi nord-italiani e aquitani, ma che sembra anche riflettere
alcune caratteristiche proprie di altri repertori, come quello del
laudario cortonese. Altrettanto interessante è la forte
analogia tra le due melodie dal punto di vista
dell’ornamentazione e della distribuzione melismatica.
La relazione di Maria Sofia Lannutti
(Poesia cantata, musica scritta alle origini della lirica
italiana) chiude il Seminario con un’ampia riflessione
che mira ad inserire le due testimonianze nel frammentario quadro
della lirica volgare tra dodicesimo e tredicesimo secolo. Dopo aver
adeguatamente dimensionato la portata delle due testimonianze
rispetto all’annosa questione del ‘divorzio’ tra
poesia e musica nella lirica romanza, ed aver ulteriormente
chiarito i termini stessi della questione, la Lannutti pone a
confronto le strutture formali dei due componimenti con la
produzione lirica volgare sia italiana che d’Oltralpe. Da
questo punto di vista è interessante la corrispondenza
individuata tra la struttura del componimento ravennate, che
nell’ipotesi della Lannutti comprende tanto il testo A quanto
il testo B di Stussi, con quest’ultimo in funzione di
refrain, e un genere metrico tipicamente oitanico (la
chanson à refrain). Similmente, la studiosa riscontra
forti similitudini tra la struttura metrica del frammento
piacentino e quella del genere oitanico della rotrouenge.
Dopo un’interpretazione complessiva della canzone ravennate,
la relazione giunge infine ad un tentativo di contestualizzazione
dei due componimenti nel quadro di una produzione lirica, non
necessariamente settentrionale, articolata in due distinti filoni:
uno dal carattere semiaulico – nel quale si inserisce la
carta ravennate – ed uno più popolareggiante – cui
afferisce il frammento piacentino; filoni la cui assenza nelle
sillogi che tramandano la poesia italiana del Duecento si deve
evidentemente all’opera di selezione dei compilatori.
Gli interventi della Tavola Rotonda e
la discussione finale (che ha visto coinvolti anche Pär
Larson, Maria Caraci Vela, Furio Brugnolo, Umberto Carpi e Irmgard
Lerch) hanno poi ulteriormente allargato la riflessione a
problematiche di ampio respiro, toccando punti e avanzando proposte
e suggerimenti che qui è impossibile riassumere
individualmente. Nel complesso, gli interventi sono stati
sostanzialmente concordi nel giudicare che i due documenti, sebbene
non modifichino gli assetti storiografici attualmente consolidati,
si pongono come preziose testimonianze di un filone profano i cui
esiti furono probabilmente secondari rispetto a quelli della
tradizione confluita nei canzonieri, ma che ebbe comunque un posto
nella cultura volgare italiana del Duecento, i cui confini e il cui
peso vale la pena di approfondire ulteriormente.
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