La zona appenninica delle Quattro
Province (Pavia, Piacenza, Genova, Alessandria) (Immagine 1) ospita un repertorio di musiche e
danze tradizionali attualmente eseguite dal piffero e dalla
fisarmonica; tale repertorio, come tutti i repertori di musica
tradizionale, deve il suo mantenimento e la sua conservazione alla
trasmissione orale del sapere.
Gli argomenti che proporrò di
seguito sono frutto di ricerche sul campo da me effettuate durante
l’anno 2002-2003 a Cegni (PV) e nei territori limitrofi e
sono rielaborazioni delle preziose testimonianze di Stefano Valla,
musicista di tradizione e suonatore di piffero nella zona delle
Quattro Province.[1]
Brevi note
introduttive sugli strumenti musicali
Il piffero è un aerofono ad ancia
doppia munito di 7 fori e intonato su una scala di Sol maggiore non
temperata. Lo strumento è divisibile in 3 parti:
1. musotto (ancia doppia montata sul supporto
di legno detto "bocchetta")
2. corpo in legno
3. campana (Immagine 2)
I legni maggiormente utilizzati sono
il bosso e l’ebano e data la loro diversa consistenza
materica producono 2 timbri leggermente differenti tra loro;
l’analisi di tali timbri è stata verificata da me con lo
studio di spettrogrammi sonori di una stessa nota (Sol3)
e di uno stesso brano eseguito da Stefano Valla[2] il quale ha utilizzato la
medesima ancia. L’ancia, infatti, è molto importante
poiché è la parte dello strumento che dà origine al
suono; i suonatori di questo repertorio preferiscono costruirsi
personalmente le ance in modo tale da poterne adattare forma,
dimensioni e consistenza alle proprie esigenze.
In un’intervista effettuata a
Cegni,[3] Stefano Valla
mi ha mostrato passo per passo la sua tecnica di costruzione delle
ance evidenziando i passaggi di particolare importanza e quelli
maggiormente delicati (per esempio, l’inserimento di un osso
tra le due lamelle della canna non ancora formata, per creare il
foro necessario all’innesto dell’ancia sulla bocchetta
di legno) (Immagini 3 e
4).
Dall’inizio del XX secolo lo
strumento "accompagnatore" del piffero è la fisarmonica; fino
a tale data, però, il sostegno armonico al piffero era
affidato alla cornamusa che con i suoi bordoni garantiva un
appoggio sonoro adeguato per i balli di tradizione popolare
eseguiti nel territorio delle Quattro Province (si veda di
seguito).
Il passaggio dalla cornamusa alla
fisarmonica e il conseguente cambiamento sonoro che ne
risultò,[4]
contribuirono a dar vita ad un
repertorio di danze più recente, i cosiddetti "balli da
liscio" (si veda di seguito).
Repertorio da piffero e
fisarmonica
1. I balli
Una parte consistente del repertorio
da piffero e fisarmonica comprende un corpus di danze
tradizionali come Monferrine, Alessandrine, Gighe e un
corpus di danze più recenti denominate balli "lisci"
come Valzer, Polche, Mazurche. I primi sono balli di gruppo con una
coreutica precisa che tuttavia presenta alcune varianti in base al
paese in cui viene eseguita;[5] i secondi, invece, sono i più noti
balli di coppia.
Tali danze vengono effettuate in
diversi contesti tradizionali: durante feste di paese o dei
coscritti, o durante feste rituali come matrimoni e carnevali.
2. Occasioni rituali
a. Matrimonio
Nelle Quattro Province esiste un
corpus di canti attestati che risalgono ad un periodo molto
antico; dal 1854 al 1888, Costantino Nigra[6] fece una ricerca sul
territorio piemontese con lo scopo di rilevare i canti conosciuti
fino a quel momento dalla popolazione locale. Egli intitolò la
sua raccolta "Canti popolari del Piemonte" e la indicizzò
inventando una serie di titoli convenzionali adatti per ogni
argomento trattato nei canti raccolti.[7]
Il rituale del matrimonio nelle
Quattro Province[8] prevede
una prima parte, denominata "Levar della sposa" in cui i due
suonatori di piffero e fisarmonica attendono la sposa fuori dalla
sua casa paterna e intonano i canti appartenenti al titolo
convenzionale la Sposa per forza (Nigra, 37); tali canti
invitano la sposa a lasciare la casa in cui è cresciuta e i
"vizi"[9] della madre per
andare in casa del marito (e della suocera!). La Sposa per
forza narra quindi di ragazze obbligate a maritarsi contro la
loro volontà; si tratta dei tanto rinomati "matrimoni di
interesse" di un tempo.
Dopo aver "chiamato" la sposa fuori
da casa i due suonatori accompagnano il corteo verso la chiesa dove
li attende un altro gruppo di persone.
Dopo la cerimonia nuziale i suonatori
accolgono gli sposi con musiche del repertorio (sia strumentali che
vocali) e con il corteo di invitati si prosegue verso il pranzo di
nozze. Il pranzo viene intervallato da musiche dedicate agli sposi
e momenti di ballo (sia balli antichi che balli lisci di coppia).
Al termine del pranzo viene suonato il cosiddetto "Levar di
tavola", brano strumentale lungo circa 9 minuti che ha
un’importanza rituale molto forte nel repertorio delle
Quattro Province.
Al termine del pranzo è
consuetudine proseguire con la festa da ballo che dura in genere
fino a tarda notte; è in questa occasione che vengono eseguiti
i balli del repertorio da piffero e fisarmonica alternando i
più antichi con quelli più recenti.
b. Carnevale
Il Carnevale possiede una valenza
rituale molto forte nel repertorio delle Quattro Province.[10]
Il Carnevale è considerato una
parodia del matrimonio e possiede connotazioni più profonde
riguardanti il rito della fertilità accompagnata alla morte
metaforica dell’inverno e alla nascita della primavera; il
Carnevale è, di norma, un momento in cui il sovvertimento
delle regole e l’idea di trasgressione sono molto forti. La
vicinanza temporale con la Quaresima, che impedisce
l’esercizio dell’attività dei suonatori e la
conseguente sospensione delle danze popolari, rende più
significativo ed evidente il contrasto tra i due momenti rituali
valorizzando, quindi, i significati simbolici che il Carnevale
porta in sé.
L’idea di morte e resurrezione
e il sovvertimento delle regole stanno alla base anche della
manifestazione del Carnevale di Cegni dove il ballo della Povera
Donna è il simbolo allegorico centrale. Tale ballo ha
preso il suo nome da una donna alla quale hanno ammazzato il
marito, secondo l’interpretazione maggiormente diffusa a
Cegni.[11]
Le maschere fisse che partecipano al
rituale sono il Brutto e la Moglie (o Povera
Donna da cui prende il nome il ballo finale), i Genitori
della sposa (o dello sposo, a seconda dei casi) e gli
Arlecchini che sono maschere molto colorate tipiche del rito
carnevalesco.
Nella fase iniziale del rituale il
Carnevale si presenta come una parodia del rito del matrimonio, con
i due suonatori che attendono la coppia di "sposi" (il
Brutto e la Moglie) fuori dalla loro casa e dedicano
loro, talvolta, qualche canto rituale del filone della Sposa per
forza (si veda sopra).
Il rito, poi, prosegue con un
percorso per le vie di paese di tutto il corteo dei partecipanti e
i suonatori in testa che suonano Sestrine (o Marce da
strada, musiche strumentali di accompagnamento agli spostamenti
del corteo); il percorso ogni tanto viene interrotto da soste nei
cortili delle case dove vengono eseguiti dei balli tradizionali in
accompagnamento a cibi e bevande offerti dai padroni di casa. Al
termine del percorso, il corteo, le maschere e i suonatori si
riuniscono in un piazzale dove viene eseguito il ballo della
Povera Donna. Tale ballo ha un’importanza fondamentale
nel rito del Carnevale poiché costituisce il momento
allegorico più evidente; viene danzato esclusivamente dal
Brutto e dalla Moglie e per questo può essere
descritto come un ballo "di corteggiamento".
Tuttavia, si può asserire che
questo ballo presenta anche un’allegoria della morte e della
resurrezione: musicalmente e coreuticamente è diviso in tre
sezioni (ABA) che, nella versione del Carnevale di Cegni del 2003,
vengono ripetute 2 volte.[12] Nella prima e terza parte la musica
è ritmata e veloce e sostiene un ballo basato sui passi di
un’Alessandrina in cui i due ballerini si avvicinano e
allontanano in un gioco di corteggiamento; la parte centrale crea,
sia musicalmente che coreuticamente, un contrasto molto forte
espresso dalla linea melodica del piffero, molto lenta, e da
accordi tenuti della fisarmonica. È in questa fase che avviene
il contatto, espresso da un abbraccio in posizione seduta, tra uomo
e "donna" come apoteosi del corteggiamento e come metafora della
fertilità della primavera, in contrasto all’inverno.
Questo momento rappresenta anche il simbolo della morte (del marito
o del figlio della Povera Donna) e assume, quindi, anche un
connotato religioso; questa fase è seguita da una metaforica
resurrezione espressa dalla ripresa del primo tema veloce e ritmato
e dai passi di danza dell’Alessandrina.
Secondo i diffusissimi canoni di
travestimento e sovvertimento dei ruoli tipici carnevaleschi, nel
Carnevale di Cegni la sovversione dei valori viene espressa nella
"mascherata" in cui sia la Moglie che la Madre della
sposa sono uomini travestiti da donna. A proposito dell’idea
di evasione dalla realtà espressa dal palese sovvertimento
delle regole, «il ballo della Povera Donna rimanda […]
alla contemplazione collettiva della "malattia"
dell’individuo momentaneamente sottratto alla normalità
sociale, alla salute o salvezza decretata dalla
norma».[13]
Una variante del Carnevale
tradizionale è il cosiddetto Carnevale Bianco che viene
eseguito il 16 agosto di ogni anno a Cegni; durante il Carnevale
Bianco non viene effettuato il percorso di paese, ma viene solo
presentato al pubblico il ballo della Povera Donna
accompagnato da una festa di balli tradizionali. Il Carnevale
Bianco è la variante estiva del carnevale tradizionale
invernale; è una tipologia nata nei primi anni ’70 del
secolo scorso per iniziativa di un’Associazione del luogo che
voleva "trasportare" in estate il rituale dell’inverno per
poter mostrare ad un pubblico di turisti in cosa consiste il
Carnevale di Cegni e soprattutto il ballo centrale della Povera
Donna.
Stile del
piffero
Il repertorio del piffero delle
Quattro Province, oltre a presentare un vasto numero di brani
cantati e ballati, differenti tra loro per struttura, melodia e
funzione sociale, possiede una costante che vede nel particolare e
caratteristico stile del piffero la sua colonna portante.
Per "stile del piffero" intendo
l’insieme e la combinazione di varianti timbriche e
abbellimenti utilizzati per dare allo strumento maggiore
espressività e «umanità».[14]
Senza gli abbellimenti, il suono del
piffero sarebbe privato di un tratto distintivo fondamentale per il
suo timbro particolare; gli abbellimenti si distinguono sia a
livello sonoro sia, di conseguenza, per la diversa tecnica di
esecuzione. Per cercare di approfondire lo studio timbrico di tali
abbellimenti e varianti timbriche ho ritenuto utile analizzarli con
spettrogrammi sonori di cui riporterò qualche esempio.
Abbellimenti
Un metodo molto efficace per produrre
abbellimenti sulla linea melodica principale sono i cosiddetti
"colpi di lingua" che, a seconda che si effettui un movimento in
verticale, orizzontale o misto, dànno origine a suoni
ribattuti più o meno staccati.
Il mordente e
l’acciaccatura sono abbellimenti molto utilizzati nel
repertorio da piffero anche se la peculiarità che crea una
leggera differenza con la musica "colta" è l’intonazione
alle volte poco percepibile della nota o delle note brevi
dell’abbellimento. Il motivo di ciò è da cercare
nella rapida esecuzione di tali note che è causa di una
«non perfetta coincidenza tra il colpo di lingua e il
movimento delle dita»;[15] con ogni probabilità, un’altra
motivazione di questo fenomeno è da ricercare nel fatto che il
piffero ha una scala non temperata e tale caratteristica viene
esaltata nel momento in cui le note sono eseguite in modo rapido,
con un ritmo molto veloce.
Varianti timbriche
Oltre agli abbellimenti, per rendere
"personale" e "umano" il timbro del piffero, i suonatori ricorrono
alle varianti timbriche le cui esecuzioni si manifestano su diversi
livelli di tecnica attraverso l’uso discriminato
dell’emissione di fiato. A questo livello si può
differenziare il cosiddetto suono mangiato o
masticato caratterizzato da un timbro che, se associato alla
voce, può dare come risultato sonoro sillabe come
vèm o vàm. In sostanza il cosiddetto
suono masticato può sembrare il prodotto, appunto, di
una "masticazione"; riporto, di seguito, la testimonianza diretta
di Stefano Valla:
…le note acute
devono fare "ti", mentre nella mano bassa, la nota non deve fare
"ta", ma "dèm" (o "vèm), che è poi il cosiddetto
suono masticato.[16]
Dallo spettrogramma allegato
(Immagine 5) si può notare come questa
tipologia timbrica sia caratterizzata da un andamento "morbido" e
"ondulato" senza pause di silenzio né stacchi netti; il suono,
a tratti, è contraddistinto da una presenza maggiore e netta
di armonici inferiori (colore grigio scuro), probabilmente generati
dall’emissione del fiato attraverso un particolare movimento
della mandibola. Tale movimento dà origine a dei brevi suoni
vibrati che producono l’effetto di un timbro "masticato".
Attraverso l’emissione di fiato
si può ottenere anche il vibrato prodotto dal diaframma,
contraddistinto da un suono vibrato in modo lento e distribuito su
note lunghe e tenute, caratteristica che lo differenzia dal
mangiato che, in genere, viene praticato sulle note di breve
durata.
Un’altra tipologia di "variante
timbrica" consiste nel timbro drammatico, secondo un termine
coniato da Stefano Buscaglia[17] in riferimento ad un particolare timbro
di Ernesto Sala, suonatore di piffero di Cegni.[18] Per "timbro o suono
drammatico" si intende la ricerca di suoni non temperati che,
attraverso abbellimenti non codificati dall’esecuzione molto
veloce intorno alla nota principale, producono l’effetto di
un suono volontariamente "sporcato".
Caratteristica del piffero, come di
altri strumenti a fiato, è anche la possibilità di
creare, su una stessa nota, un timbro più "aperto" o "chiaro"
e uno più "chiuso" o "scuro". Ciò avviene tramite la
diteggiatura, ovvero l’apertura dei fori o la chiusura degli
stessi e si può effettuare sulle note re, mi,
fa, sol, e la. Anche queste diverse
possibilità timbriche vengono scelte in base al gusto del
suonatore, a ciò che il brano in quel momento richiede e,
soprattutto, alla praticità e alla comodità di
esecuzione. Per esempio, se la nota da suonare è un mi
inserito in un abbellimento, quindi da eseguire velocemente,
sarà controindicato suonare il timbro chiuso
poiché comporta la chiusura di più fori e di conseguenza
un tempo maggiore nell’esecuzione. Se, invece, la nota da
suonare è di lunga durata, allora sarà possibile e
più agevole effettuare la chiusura di più fori. La
differenza timbrica che ne deriva è evidente e rappresenta
un’ulteriore possibilità di rendere "personale" e
"individuale" il suono del piffero.
L’utilizzo di queste tecniche
durante l’esecuzione del repertorio non è mai fisso ma
costituisce un potente mezzo a disposizione del suonatore di musica
tradizionale per personalizzare ciò che suona; il repertorio
di piffero e fisarmonica (come ogni repertorio di musica popolare)
si fonda su un insegnamento orale non basato su tecniche scritte e
questo permette di effettuare combinazioni variabili ed
estemporanee di abbellimenti e varianti timbriche che rendono
sempre diversa ogni esecuzione (sia di un singolo suonatore sia tra
diversi suonatori).
Lo studio dei numerosi abbellimenti e
delle varianti timbriche per il suonatore di piffero è un
argomento vasto e denso di significato. Ogni suono, infatti, dal
più evidente al meno percettibile, possiede
un’importanza il cui valore può essere esaltato solo nel
momento in cui il suonatore possiede la piena consapevolezza di
ogni suono da lui prodotto. In questo modo potrà raggiungere
la massima espressività e ottenere lo scopo di «far vivere l’anima del
piffero».[19]
Trasmissione orale e Didattica
Il repertorio da piffero e
fisarmonica, per mantenersi vivo nel corso degli anni, deve
necessariamente fare affidamento alla trasmissione orale e alla
didattica che permettono di tramandare, oltre alle musiche del
repertorio, anche le tecniche necessarie per
l’esecuzione.
In passato, in una realtà
più povera rispetto ai giorni attuali, lo studio del piffero
implicava l’acquisto dello strumento, fattore di non poca
rilevanza sul piano dell’apprendimento personale e di non
poco peso economico, e il pagamento delle lezioni private. Per
questi motivi imparare la tecnica del piffero e il suo repertorio
dal punto di vista musicale non era cosa accessibile a tutti.
Infatti, solitamente il sapere veniva tramandato da padre a figlio
o da nonno a nipote. Come spiegano Citelli e Grasso,[20] i vantaggi che si
ricavavano dall’apprendere la tecnica di tale strumento in
famiglia erano molti: in primo luogo si aveva la possibilità
di esercitarsi sullo strumento del padre, il quale, oltre allo
strumento in sé, forniva anche lezioni private e gratuite, in
secondo luogo c’era la prospettiva di sostituire il padre
qualora questi avesse abbandonato l’attività di
suonatore,e in questo modo il guadagno rimaneva assicurato alla
famiglia. Molti aspetti sociologici della vita attuale sono
cambiati: prima di tutto in questi ultimi anni si è assistito
ad un arricchimento generale della popolazione e ciò ha fatto
decadere il motivo primario per cui un uomo era incentivato ad
imparare il mestiere, ovvero la povertà. Oggi, chi impara a
suonare il piffero è spinto da scelte artistiche e non da
problematiche economiche; quindi anche l’apprendimento si
presume venga svolto in modo attivo da parte del principiante senza
essere dettato da altri tipi di esigenze se non quelle di
affermazione della propria personalità.
Un’altra conseguenza di questo
cambiamento delle condizioni sociali si può riscontrare nel
fatto che oggi, a differenza degli anni passati, si assiste ad un
atteggiamento più generoso da parte degli insegnanti di
piffero i quali si prefiggono lo scopo di tramandare un repertorio,
senza temere la concorrenza. Infatti in passato il repertorio da
piffero si imparava direttamente dalle occasioni in funzione, in
quanto il suonatore stesso, se da una parte trovava soddisfazione
nell’insegnare il suo sapere, dall’altra era geloso di
tutta la fatica fatta a propria volta per imparare il repertorio,
temendo che il suo allievo diventasse più abile e lo
sostituisse nel mestiere, privandolo di una fonte di sostentamento
economico.
Per questo, al giorno d’oggi
l’approccio all’apprendimento della tecnica e del
repertorio del piffero assume una valenza differente rispetto al
passato. L’apprendimento di un repertorio orale comporta una
grande capacità, da parte del principiante, di memorizzare
linee melodiche, tecniche e aneddoti che non trovano riscontro in
fonti scritte; l’ascolto attento è condizione basilare
per poter dapprima comprendere, successivamente apprendere e di
conseguenza tramandare il repertorio.
Per meglio esemplificare la didattica
odierna, basata sulla trasmissione orale del sapere e quindi
soggetta a variazioni da insegnante a insegnante, è opportuno
descrivere il metodo didattico di Stefano Valla.
Stefano Valla ha appreso la tecnica e
il repertorio del piffero da Ernesto Sala, suonatore di piffero e
da Andrea "Taramla" Domenichetti, suonatore di fisarmonica.
Soprattutto quest’ultimo, però, ha svolto un ruolo
fondamentale non solo per quello che riguardava la trasmissione del
repertorio e delle melodie, ma anche dei modi di vivere della sua
epoca e del contesto in cui tale musica veniva suonata. Questo
particolare rapporto ha implicato alcune conseguenze sul piano
dell’apprendimento e della comprensione: prima di tutto non
vi erano ore fisse in cui il giovane Stefano andava a casa di
Domenichetti a imparare a suonare il piffero, bensì capitava
che si incontrassero a casa di "Taramla" nel pomeriggio e
restassero insieme anche fino a notte inoltrata. Durante il tempo
passato a contatto con l’insegnante, Valla non ha imparato
esclusivamente a suonare il piffero, ma attraverso «un
passaggio continuo, costante, quotidiano, intimo»[21] con chi trasmette il
sapere musicale «passavano il contesto, i racconti di modi di
vivere, di situazioni di vita e di stile» in cui
«l’interpretazione, la memoria e la melodia
coincidono».[22]
Questa testimonianza è la conferma del fatto che la
trasmissione orale del sapere musicale non era solo un fatto
esclusivamente musicale, ma anche un insegnamento di storie e di
aneddoti.
A questo proposito mi sembra
indicativa una frase detta da Andrea Domenichetti e riportata
testualmente da Valla:
La musica non scritta
è musica cervellotica che morde direttamente sulla
fase.[23]
Questa testimonianza dimostra come la
musica di trasmissione orale, ed in questo specifico caso, la
musica da piffero, sia cervellotica in quanto deve tutta la
sua trasmissione alla memoria individuale e collettiva, e
«morda direttamente sulla fase»,
poiché si riempie di significato ogni volta che è
eseguita, senza tuttavia presentarsi mai uguale nel momento in cui
viene suonata in funzione.
Didattica di Stefano Valla
Stefano Valla, oltre ad essere un
suonatore di piffero molto attivo nella zona delle Quattro Province
e all’estero, dedica parte della sua vita a insegnare le
musiche, le tecniche e gli aneddoti legati alla storia del piffero
a persone di diversa età e provenienza, interessate a tali
argomenti. Nella didattica, Valla segue sia norme che egli stesso
ha appreso dai suoi maestri, sia alcune fasi, frutto
dell’esperienza personale, che ritiene indispensabili per
l’apprendimento e per la comprensione del repertorio. Tali
fasi, però, non sono da considerarsi staccate l’una
dall’altra e perfettamente consequenziali, ma tutte
strettamente legate e, alle volte, addirittura contemporanee.
Va precisato che, durante queste fasi
di apprendimento, Valla insegna ai suoi allievi come costruirsi le
ance. Questo momento, che anche in passato rivestiva un ruolo di
grande importanza, secondo Valla è indispensabile per la
completezza di un suonatore da piffero, in quanto ogni tipologia di
ancia deve rispondere alle esigenze individuali di ogni suonatore e
il fatto di non essere in grado di costruirsele costituisce un
limite alla propria potenzialità sonoro-espressiva.
L’approccio al piffero e al suo
timbro richiesto da Valla ai suoi allievi consiste
nell’ascolto sia di registrazioni passate del repertorio da
piffero, sia delle occasioni in funzione che si attuano durante
l’anno. Dopo tale operazione di introduzione e di conoscenza
del repertorio, il passo successivo prevede l’utilizzo del
flauto dolce che, in questa fase iniziale,[24] come d’altronde era
prassi fare anche in passato, è utile poiché
l’insufflazione dell’aria in uno strumento privo
d’ancia risulta più semplice.
A questo punto subentra la fase
imitativa, caratterizzata proprio dall’imitazione dei
"gesti" e del suono del maestro; in questa fase, infatti, si
apprendono la diteggiatura e alcuni brevi incisi melodici.
Da questo momento l’allievo
è musicalmente pronto per utilizzare il piffero e affrontare
la difficoltà dell’ancia. In questa sede, o fase
dell’emissione del fiato, l’allievo impara ad
emettere note lunghe per abituarsi a usare l’ancia imparando,
così, a utilizzare il suo potenziale d’aria per
finalizzarlo alle proprie esigenze e capacità.
Una volta acquisite queste conoscenze
"tecniche" indispensabili per emettere un suono chiaro e pulito,
l’insegnante invita l’allievo ad apprendere le melodie
a memoria. Ciò avviene secondo una pratica imitativa in cui
l’insegnante suona un brano musicale suddividendolo in brevi
frasi melodiche che l’allievo riproduce.
Dopo che l’allievo ha appreso a
memoria una melodia, Valla la analizza dandole un senso, trovando,
per esempio incisi melodici di domanda e risposta, in modo tale che
l’allievo non suoni mettendo freddamente note in fila,
bensì dia un senso musicale alla melodia.
A questo punto
dell’insegnamento l’attenzione di Valla si incentra sul
rapporto con la fisarmonica; tale relazione sonora è
indispensabile ai fini di una buona riuscita dell’esecuzione
poiché l’affiatamento musicale tra i due suonatori
determina una base solida per il popolo che partecipa attivamente
alle occasioni in funzione (per esempio, i ballerini, durante la
danza, attendono precisi segnali musicali dai due suonatori per
poter effettuare determinati movimenti). Il suonatore di piffero,
per essere completo, deve conoscere la ritmica della fisarmonica
per poi essere in grado di creare una comunicazione sonora efficace
con il suo compagno.
Il tempo che richiede tale
insegnamento non ha durate determinate, bensì varia in base
alla capacità e alla velocità di apprendimento di un
allievo; Valla sostiene che si può arrivare ad imparare la
tecnica e il repertorio del piffero in almeno 5-6 anni, se
l’allievo è abile e ha voglia di apprendere, ma si
potrebbe anche non impararlo mai in modo completo.
Stefano Valla, come il suo maestro
Andrea "Taramla" Domenichetti, non effettua una sola ora di lezione
ad orari fissi, bensì sostiene che per far apprendere questo
tipo di repertorio, con i suoi vissuti e le sue tradizioni, sia
necessario un rapporto più spontaneo tra maestro e allievo; in
questa maniera, le ore di lezione diventano, solitamente, anche 4 o
5 consecutive. Questo modo di trasmettere il repertorio è
perfettamente coerente con l’idea di Valla che «dietro
il suonatore esiste la vita, il suo quotidiano»[25] e in quanto tale, è
condicio sine qua non per apprendere il repertorio in tutte
le sue sfaccettature.
Il debutto dell’allievo avviene
durante l’apprendimento, in un momento che non si può
decidere a priori poiché dipende dalla bravura e
dall’emotività dello stesso.
Secondo Valla, il problema
dell’affrontare il pubblico è una questione che non va
sottovalutata in quanto è il primo momento in cui il
principiante mostra non solo la sua abilità tecnica, ma anche
il suo vissuto e la sua emotività. Pur essendo consapevole che
il confronto con il pubblico è una questione personale, Valla
ritiene che, comunque, il debuttante vada aiutato a vincere la
paura; per mettere in atto ciò, si approfitta di
un’occasione di festa in cui il debuttante suona un solo
brano, sostenuto dal fisarmonicista del suo maestro. L’idea
di Valla è quella di un approccio al pubblico lento e
graduale, senza strappi che potrebbero limitare le
potenzialità dell’allievo. Così, man mano che il
principiante acquisisce sicurezza, verranno aumentati anche i suoi
interventi sonori, inizialmente sempre all’interno di feste
in cui il suo maestro è il suonatore principale; poi, quando
sarà pronto e con più capacità di controllo sulle
proprie emozioni, potrà sostenere un’occasione in
funzione completa senza più alcun tipo di sostegno.
Con ciò, Valla è
consapevole del fatto di non potersi sostituire all’allievo,
bensì sostiene che il «superamento del vetro tra il
suonatore e il pubblico è un fatto personale che non si
può insegnare»;[26] in sostanza, il maestro può solo
arrivare a rendere consapevole l’allievo del "problema"
fornendogli più mezzi possibili per superarlo.
Durante il Carnevale di Cegni del 1
marzo 2003, oltre a Valla hanno suonato anche due suoi giovani
allievi, che si sono alternati al loro maestro suonando il
repertorio dei balli da piffero.
La tradizione e il
contesto sociale
Ogni suonatore di musica tradizionale
opera in un contesto sociale molto particolare: il suo contatto
diretto con la popolazione del luogo, la sua partecipazione alla
maggior parte delle feste di paese o ai riti annuali, lo rendono
una figura di riferimento indispensabile per il mantenimento di
quella determinata tradizione.
Ma cosa si intende per
tradizione? Hobsbawm[27] sostiene che il concetto di tradizione
è collegato con l’idea di passato e distingue la
tradizione inventata da quella autentica sostenendo che la prima
sottintende un rapporto discontinuo e fittizio con il passato.
L’affermazione di una tradizione inventata avviene attraverso
la ripetitività degli elementi simbolici caratteristici di
quella determinata cultura con il rischio che l’idea di un
cambiamento o di un’innovazione all’interno della
tradizione siano visti come fattori-limite per la preservazione del
sapere.
Hobsbawm afferma che una tradizione
inventata si distingue da una autentica poiché la prima si
prefigge lo scopo di recuperare il materiale andato perso e,
quindi, denota una rottura con il passato; la seconda, invece,
cerca di adattare al presente un passato ancora vivo senza, quindi,
la necessità di inventare nulla che vada a sostituire qualcosa
di mancante.
Un’altra distinzione tra le due
tipologie di tradizione si trova nel fatto che la tradizione
inventata tende a dare «definizioni aspecifiche e vaghe dei
valori, dei diritti e degli obblighi inculcati dal senso di
appartenenza al gruppo»; la tradizione autentica, invece,
offre delle «pratiche sociali specifiche e fortemente
vincolanti».[28] Da
queste due diverse definizioni di tradizione si può
comprendere come la prima tipologia sia una ricerca
dall’esterno di qualcosa andato perso, mentre la
seconda nasca da un’esigenza dall’interno di
tramandare un sapere e di mantenerlo vivo nel presente, seppur con
qualche inevitabile modifica.
L’idea di tramandare una
tradizione autentica invita a porsi qualche domanda: qual è il
limite oltre il quale spingersi per modificare quella tradizione
senza rischiare di snaturarla? Fino a dove si può ampliare e
allargare il sapere tramandato ai fini di un’attualizzazione
o di un rinnovamento?
Un repertorio di tradizione autentica
va incontro ad inevitabili modifiche, anche se queste ultime non
minano i significati profondi della tradizione da cui provengono.
Una tradizione autentica, in quanto tale, non è mai caduta in
disuso e quindi, attraverso il filtro umano di chi la pratica,
è soggetta a continue innovazioni per mantenersi viva e
attuale.
Le innovazioni che formano
un’identità sono le risultanti di un processo che si
effettua dall’interno secondo un obiettivo perseguito
in modo costante:
La formazione
dell’identità è dunque un potente mezzo di cui i
gruppi dispongono nella lotta per le risorse; ma, sotto un altro
profilo, è essa stessa un obiettivo (non più soltanto un
mezzo) che i gruppi perseguono costantemente. Ovvero, se è
consigliabile rintracciare nei conflitti e nella competizione delle
risorse i condizionamenti delle varie forme di identità, pare
opportuno anche soffermarsi sulle ragioni intrinseche
dell’identità, sulla logica che ispira […] le sue
varie manifestazioni.
Prospettiva esterna, dunque, e prospettiva interna.[29]
È nell’interesse di una
comunità di persone voler difendere dall’oblio la
propria tradizione; è l’esigenza di voler mantenere viva
la propria identità (in questo caso specifico del repertorio
da piffero e fisarmonica si tratta di identità
musicale).
Intorno agli anni ’70 del
secolo scorso, con il diffondersi di un certo benessere economico,
in contrasto con il periodo precedente caratterizzato dalla
povertà, si è sviluppata l’idea di innovare il
"vecchio" e di superarlo, rompendo così quel legame con una
condizione sociale ed economica che portava a mantenere viva ogni
tipo di tradizione locale.
Nel repertorio da piffero e
fisarmonica delle Quattro Province il legame con il passato,
intorno agli anni ’60, si è molto affievolito, tuttavia
non si è verificata una rottura netta con il passato,
poiché in quegli anni, Ernesto Sala manteneva vivo il
repertorio attraverso le feste popolari e i rituali. I giovani
(come Valla) lo ascoltavano e cercavano di carpirne le melodie. Per
questioni che saranno discusse in seguito, poche persone,
all’epoca, erano incentivate ad imparare il repertorio locale
del piffero e della fisarmonica; negli anni ’70, però,
gli studi etnomusicologici e le ricerche sul campo (mi riferisco,
in questo caso, a Bruno Pianta che ha effettuato interviste e
registrazioni a Sala stesso), hanno ridato un considerevole vigore
a queste tradizioni popolari. Infatti in quel periodo i giovani che
avevano ascoltato il loro repertorio locale da Ernesto Sala (prendo
come esempio sempre Stefano Valla), hanno fortemente voluto
mantenerlo vivo e preservarlo dall’oblio. Così, oggi,
è nata una nuova generazione di suonatori che, forti
dell’esempio del loro maestro Valla e del predecessore Sala
di cui possiedono registrazioni, stanno tuttora imparando le
melodie e i rituali della loro tradizione.
Questo discorso introduttivo sul
contesto sociale in cui opera un suonatore di tradizione è
utile per specificare meglio la figura di Stefano Valla e il ruolo
che copre all’interno del suo repertorio.
Stefano Valla. Professionista
di tradizione tra presente, passato e futuro
Stefano Valla, oltre a suonare il
piffero a Cegni, è impegnato in Festival Internazionali di
musica popolare, fa parte di un gruppo di canto polifonico genovese
(il trallallero) e insegna in stage di danza tradizionale in
Italia.
Valla non svolge altre attività
lavorative al di fuori di quella di suonatore e trova sostentamento
economico nell’esercizio della sola musica. Valla è da
considerare, quindi, un musicista professionista a tutti gli
effetti, a differenza di Ernesto Sala che svolgeva anche il lavoro
di agricoltore. Citando Alan Merriam, professionalità
«[…] significa devozione totale alla professione e
dipendenza economica dalla sola musica […]».[30] La scelta dei
professionisti avviene attraverso uno scambio relazionale diretto o
indiretto tra il professionista stesso e la società di
appartenenza; Valla si è affermato nella sua tradizione come
suonatore da piffero grazie alle sue competenze e abilità, ma
anche grazie alla società che l’ha riconosciuto come
tale, direttamente o indirettamente. Il ruolo sociale di Valla
è da considerarsi status acquisito, che, secondo una
definizione di Merriam, è da distinguersi dallo status
assegnato:
Lo status
assegnato viene dato a prescindere dall’abilità
dell’individuo, e si conosce già al momento della
nascita di questo. Lo status acquisito, invece, viene dato
sulla base di qualità speciali e non si raggiunge con la
nascita ma con la competizione e lo sforzo.[31]
La differenza sostanziale tra i due
stati sociali si trova, prevalentemente, nell’appartenenza o
meno ad una famiglia di suonatori; i genitori di Valla non erano
musicisti di tradizione, quindi la sua affermazione in qualità
di suonatore è dipesa esclusivamente dalle sue risorse
personali e non da un background familiare.
Come accennato precedentemente,
l’interscambio tra suonatore e popolazione è
imprescindibile per il mantenimento di una cultura tradizionale: la
società riconosce l’importanza della figura del
musicista, il quale ricambia la fiducia offrendo alla popolazione
tutto il suo sapere.
Ma che cosa si intende con il termine
sapere? Nel caso di un repertorio di natura popolare, il
sapere è quel bagaglio di memorie, di valori, di significati,
di musiche (in questo specifico caso) che fa parte di ricordi
condivisi di una determinata comunità:
[…] tutte le
comunità, per essere tali, devono elaborare una "struttura
connettiva" che leghi gli individui mettendoli in grado di pensarsi
nella forma di un "noi". Tale struttura connettiva è
costituita […] da valori comuni, da un lato, e dal ricordo di
un passato condiviso, dall’altro.[32]
Se non c’è un luogo, una
figura, un tempo di riferimento nel passato, non può esistere
la memoria. Tuttavia, per mantenere viva la memoria è
necessario applicare due processi indispensabili:
a) la ripetizione;
b) l’attualizzazione.
La ripetizione è necessaria in
quanto tramanda le strutture portanti e significative di quella
tradizione evitando di perderle con il passare del tempo;
l’attualizzazione è un processo attraverso il quale quei
riti, quei simboli del passato vengono modificati in base al
presente per mantenerli vivi e per evitare una riproposizione
fredda e atemporale del repertorio tramandato.
In sintesi, l’evocazione di un
passato avviene attraverso quelle che Maurice Halbwachs chiama le
tappe del ricordo:[33]
1. in primo
luogo è necessario un riferimento a specifici luoghi e a
specifici tempi nel passato;
2. in
secondo luogo deve esistere un gruppo che sia, in qualche modo,
legato e in stretta relazione con questo passato;
3. in terzo
luogo è necessaria una continua attualizzazione della memoria
tramandata.
Per poter tramandare il passato,
inoltre, una comunità necessita di un referente,[34] di una figura che svolga
il ruolo da tramite tra il passato e il presente e
che ne evochi la memoria.
Attualmente, nella zona del piffero
delle Quattro Province, Ernesto Sala è la figura del
passato a cui fare riferimento per trarre esempio e Valla
è la figura del presente che ha il ruolo di
ponte con il passato. Per continuare con i giochi di
parole, Sala è il passato a cui la popolazione si
àncora per riconoscere una propria identità culturale,
Valla è il mezzo tramite il quale il passato prende
forma nel presente.
Ernesto Sala, ai suoi tempi, era la
figura-simbolo del repertorio delle Quattro Province a cui la
popolazione faceva riferimento per una ricerca della propria
identità musicale. Valla, nonostante la sua giovane età,
a Cegni è considerato il detentore del repertorio da piffero,
anche se la figura di Sala è ancora viva nei ricordi di chi
l’ha conosciuto. In diverse interviste, Valla mi ha ribadito
spesso il concetto che la sua "colpa" (e ribadisco: "colpa" tra
virgolette), è quella di «non essere vecchio
abbastanza»; questa frase, dall’apparenza ironica e
spiritosa, mette in evidenza come l’età, non in quanto
tale ma in termini di "presenza" sul territorio, sia una condizione
importante per il riconoscimento sociale di un suonatore. La
differenza tra i due suonatori, in questo senso, è
riscontrabile anche nel tema del ricordo: il ricordo e la memoria
fanno acquisire alla persona ricordata (in questo caso, Ernesto
Sala) una sorta di potenza e di magia nei confronti della
popolazione su cui egli aveva esercitato un’influenza
significativa quando era in vita. Da una parte, Sala è una
figura ferma nel ricordo, ormai immutabile; dall’altra, Valla
è un portatore dinamico di musica, ed è considerato un
esempio in evoluzione riconosciuto dalla società di cui è
membro. Egli desidera rispolverare il passato filtrandolo
attraverso la sua esperienza e sostiene che prima di far evolvere
il repertorio verso il futuro, sia necessario avere una base solida
in quello passato per evitare così che quest’ultimo
venga snaturato e, di conseguenza, perso.
Prendendo spunto da una terminologia
usata da Fabietti,[35]
Valla (e prima Sala) può essere considerato un centro
tramite il quale si irradiano i rami della memoria verso una
periferia? I concetti di centro e periferia
sottintendono un unico punto di partenza dominante su diversi punti
di ricezione; presuppongono l’esistenza di un ruolo attivo
(centro) e uno passivo (periferia). Nel caso del
repertorio musicale del piffero e della fisarmonica, la musica
è condicio sine qua non per permettere la sussistenza
di tale tradizione, ma il ballo, il popolo che è a conoscenza
dei passi da eseguire e che danza alle feste, è
anch’esso condizione indispensabile senza la quale il
repertorio sarebbe incompleto. Valla, in questo senso, può
essere considerato il detentore della musica, colui che offre il
terreno su cui erigere gli "alberi della tradizione", ma non
bisogna tralasciare l’aspetto di collaborazione che si
innesca nel momento in cui una popolazione intera decide, in modo
più o meno cosciente, di mantenere vivo il suo repertorio.
La relazione esistente tra passato e
presente si palesa, dunque, con il rapporto tra Ernesto Sala e
Stefano Valla, con la trasmissione orale tra maestro e allievo o
tra anziano e giovane; in un qualsiasi repertorio di tradizione
orale, come quello del piffero e della fisarmonica delle Quattro
Province, il passaggio tra il passato e il futuro è
strettamente correlato con l’esistenza del presente. Un
presente desideroso di sapere, di mantenere e di conservare le
proprie tradizioni (qualsiasi esse siano), getta, volontariamente o
involontariamente, le basi per la sopravvivenza nel futuro di tali
costumi e usanze. Sala, Valla e successori formano, quindi, una
catena di memorie, abitudini, costumi e tradizioni che
consegnerà al futuro i valori e la storia di una
comunità.
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