Recensione a cura di Maria
Caraci Vela
Johannes
Ockeghem. Actes du XL Colloque international d’Études
humanistes, edités par Philippe Vendrix, Paris, Klinksieck,
1998
Antoine
Busnois, Method, Meaning and Context in Late Medieval Music,
ed. Paula Higgins, Oxford, Clarendon Press, 1999
Le due miscellanee, uscite a poca distanza
l’una dall’altra, hanno avuto origine entrambe da un
convegno di studi: un Colloque di Tours (3–8 febbraio 1997)
per la prima (d’ora in avanti O), e una Busnois Conference
dell’University of Notre Dame (8-11 novembre 1992) per la
seconda (d’ora in avanti B).
I due volumi, pur concepiti con impostazione e
criteri non identici, nascono da uno stesso humus, toccano problemi
analoghi, sono molto vicini per interessi e metodi, e hanno in
comune la presenza di nove studiosi (A. Atlas, J. van Benthem, D.
Fallows, B. Hagg, A. Linmayr-Brandl, H. Meconi, L. Perkins, M.
Picker, e R. Wexler); entrambi sono aperti da una introduzione a
firma di un musicologo che ha dato negli ultimi decenni
continuativi e autorevoli contributi sull’argomento, ovvero
Leeman Perkins per O e Paula
Higgins per B. Mentre il titolo
della miscellanea O rimanda
semplicemente al convegno del ‘97, quello di B sembra
proporsi di fare il punto sulle attuali prospettive della ricerca e
di privilegiare riflessioni di carattere metodologico.
I contributi si dispongono all’interno di
cinque sezioni, secondo il tipo di interessi che è prevalente
in ciascuno («Few of the essays, in fact, could adequately be
described as exclusively methodological, critical, or contextual;
some of them blend all three approaches, and all of them share the
distinction of having responded to the problematic of the research
situation itself, rather than to abstract paradigms or
metanarratives arbitrarily imposed on the subject-matter»,
avverte nella introduzione Paula Higgins). Resta forse poco
comprensibile al lettore il criterio col quale la griglia è
stata predisposta, data l’ aggregazione sotto stessi titoli
di ambiti di ricerca assi diversi fra loro. Se, infatti, la Part
I. Music, ceremony and ritual in the late Middle Ages è
indubbiamente una sezione compatta, al cui interno i singoli saggi
trovano la loro logica collocazione, non così avviene per la
Part III (Issues of Authorship, Attribution, and
Anonimity in Archival and Musical Sources), che mescola nel
titolo campi epistemologici del tutto distinti, e accosta tre
contributi di critica stilistica e attribuzionistica a uno di
ricerca d’archivio; o, analogamente, la Part V,
Busnois’s Legacy, i cui saggi sono prevalentemente
impostati su problemi di stile e attribuzione e assai meno sulla
ricezione della musica di Busnois. Il lettore attento agli
interessi esplicitati nel titolo del libro avrebbe molto gradito
che nella Part II (Intertextual, contextual, and
hermeneutic approaches to late medieval musical Culture)
venisse affrontato il problema della intertestualità in
maniera sistematica, e che si offrissero indicazioni di metodo
utili a far chiarezza in un campo su cui la riflessione
musicologica – e non solo musicologica – ha in tempi
recenti prodotto moltissimo. In relazione alla polifonia del
Quattrocento, il termine designa un fenomeno essenziale e veramente
complesso, osservabile da svariati angoli visuali; analizzarlo
sistematicamente sarebbe stato di giovamento per una comprensione
più chiara e senza equivoci dei vari significati nei quali
esso ricorre nei saggi di B. Un
contributo del genere sarebbe stato certamente importante anche per
la miscellanea O, in cui il
problema dell’intertestualità, pur non godendo del
privilegio di una apposita sezione, è inevitabilmente una
forte presenza trasversale. L’analisi dei rapporti
intertestuali offre chiavi di lettura preziosissime e una grande
ricchezza di informazioni, ma esige di essere condotta con metodi
adeguati. Ben poco ci dice l’intertestualità se non
riusciamo ad individuarne la direzione o se non ne comprendiamo la
natura, quanto mai differente nei singoli casi.
L’intertestualità – fenomeno
inscindibile dallo sviluppo delle tecniche compositive nella
polifonia medioevale e rinascimentale (nel mottetto dell’Ars
Antiqua non meno che nel madrigale del tardo Cinquecento) –
può configurarsi in maniere e con valenze diversissime,
secondo epoche e repertori; può essere un procedimento
intenzionale legato alla volontà di un compositore, noto o
anonimo; può andare dalla citazione esibita in posizione
enfatica (all’inizio, alla fine, o in uno degli svincoli
interni della forma) a quella appena accennata, che Pasquali faceva
rientrare nella categoria dell’arte allusiva (sulla quale, in
maniera indipendente e da punti di vista diversi, hanno già
sollecitato l’attenzione sia C. Reynolds, nel «Journal
of American Musicological Society», XLV, 1992, sia la
sottoscritta in «Studi Musicali», 1993); può
rinviare ad un modello fuori dall’Autore, o entro
l’opera del medesimo. Il rapporto intertestuale può
limitarsi ad un solo elemento, o usarne molti, che hanno valore e
sono portatori di riferimenti e significati, allusi non solo in se
stessi, ma anche in quanto combinati con altri. Ma può
esistere anche intertestualità non intenzionale, qualora un
formulario musicale memorizzato e diffuso condizioni i normali
processi di composizione o interferisca con quelli di trasmissione
della musica. Il grado di complessità del fenomeno e il
livello di consapevolezza nel ricorso alla citazione possono essere
assai diversi, e la loro valutazione può non essere semplice,
come la ormai abbondante bibliografia in proposito ha messo in luce
(si pensi per esempio alla tipologia offerta dal repertorio
frottolistico ampiamente illustrata da Francesco Luisi in
«Musica e Storia», IV, 1996), così come diversissimo
può essere il tipo di rapporto che il ricorso alla citazione
ha con la cultura di un determinato milieu. Se dunque è
certamente salutare rifiutarsi di far rientrare automaticamente
ogni occorrenza intertestuale nella categoria della
æmulatio cosciente, è altrettanto certo
che sottovalutare la portata del fenomeno – che nel
Quattrocento (e non solo) è strutturalmente connaturato ad
ogni tipo di attività creativa – vorrebbe dire
semplicemente privarsi di uno strumento fondamentale per la
comprensione del processo compositivo nella musica medioevale e
rinascimentale, e dei suoi legami con la cultura e la storia.
Sulla complessità del fenomeno e
l’esigenza di non appiattirlo, ma di indagarlo e comprenderlo
adeguatamente, si incontrano nelle due miscellanee frequenti, anche
se non sistematiche, riflessioni. JEFFREY
DEAN (Okeghem’s Valediction? The meaning of
Intemerata Dei mater) proprio sulla base degli evidenti
rapporti intertestuali tra la messa Mi Mi e il mottetto
Intemerata, considerato l’opus magnum della
maturità di Ockeghem, avanza l’ipotesi, affascinante ma
indimostrabile, della composizione della messa come ex voto
dopo una grave malattia del musicista intorno al 1470, e della
composizione del mottetto, che con la messa ha evidenti rapporti
intertestuali, nel 1478, in previsione della morte e «intended
for performance as a pendant to the Missa My My, in place of
‘Deo gratias’ at the end of mass». Anche
MARTIN PICKER (Reflections on
Ockeghem and Mi Mi) sottopone ad attenta disamina i rapporti
che collegano il virelai Presque transi, la messa Mi
Mi e il mottetto Intemerata Dei mater tra loro e con
composizioni di altri musicisti fino ben entro il Cinquecento, ma
giunge a conclusioni del tutto diverse («Moreover, the motto
of the mass forms part of Ockeghem musical vocabulary and is
probably not an intentional allusion to Presque transi
despite their common parentage»). Conclusioni che lasciano un
certo margine al dubbio (dalla constatazione che «Ockeghem has
a propensity for what might be called self-reference», non si
evince automaticamente che il fenomeno sia del tutto involontario e
non significante), anche se il saggio, ricchissimo di osservazioni
interessanti, è molto ben argomentato. Sempre in O, ANDREW
KIRKMAN (Quinti Toni in context: Currents in three-voice
Mass writing in the later fifteenth century), che porta avanti
un’indagine alla quale ha già dedicato nel ‘95 un
libro importante, ritiene che nei repertori di cui si è
occupato «a clear distinction between
‘freely-composed’ and ‘derived’ Masses is
impossible to draw», e che la casistica vada da «Masses
encased in an armature of regularly-reiterated melodic/rhythmic
units» a messe in cui «material which is demonstrably
borrowed dissolves into the free discourse of motivic lingua
franca»: un concetto che sarebbe utile mettere a fuoco,
per capire se corrisponde ad una reale tipologia
dell’intertestualità involontaria o semplicemente alla
proiezione della nostra attuale difficoltà di comprensione.
ERIC JAS (Ockeghem as Model)
esamina casi di intertestualità all’interno del
corpus di Ockeghem e tra quello e le opere di compositori
della generazione immediatamente successiva, e offre un buon
contributo metodologico, prospettando una chiara distinzione di
tipologie molto utile all’indagine (a: Intabulations; b:
Compositions alluding to Ockeghem by means of short quotations or
musical style; c: Compositions drawing their cantus prius factus
from, or reworking a secular piece by Ockeghem).
L’intertestualità fra composizioni di
Ockeghem e di Busnois (tema ampiamente sviscerato dalla musicologia
quattrocentista degli ultimi anni) è toccata nel contributo di
ANDREA LINDMAYR-BRANDL
(Ockeghem’s motets: Style as an indicator of authorship.
The case of Ut heremita solus reconsidered), che arriva ad
escludere la paternità di Ockeghem per Ut heremita
solus in base ad argomenti di critica stilistica. Una eventuale
esplorazione dei nessi intertestuali che si ponesse con rigore
metodologico e con argomenti di critica testuale il problema della
direzione di tali rapporti e considerasse lo stile del musicista
non come un monolito inattaccabile ma come una realtà
passibile di movimento ed esposta a sollecitazioni varie, avrebbe
potuto o fornire le necessarie conferme all’assunto, o magari
orientare in maniera diversa le conclusioni del saggio (esposte in
forma dubitativa). Con Text, Tone ansd Symbol: Regardind
Busnoys’s conception of In hidraulis and his Presumed
Relationship to Ockeghem’s Ut heremita solus,
JAAP VAN BENTHEM esamina il problema
col sussidio della gematria («while acknowledging the
ypothetical nature of my analysis», come peraltro
espressamente ammette), e fa emergere per il lettore, con una
esegesi indubbiamente alquanto ardua da seguire, il tessuto di
relazioni nascoste che lega fra loro i due mottetti. Il contributo
di SEAN GALLAGHER (Syntax and
style. Rhytmic patterns in the music of Ockeghem and his
contemporaries, su cui si avrà occasione di ritornare)
ricorda la funzione costruttiva di molte ricorrenze intertestuali
non legate a procedimenti coscienti, e insiste sul sussidio che a
suo avviso esse possono dare alla critica stilistica e
all’attribuzionismo.
Un argomento per il quale l’analisi degli
intrecci intertestuali è divenuto il principale percorso di
ricerca è quello delle messe l’homme armé
del tardo Quattrocento. La decifrazione dei rapporti che il gioco
dei richiami motivici, mensurali, formali e compositivi di varia
natura documenta in maniera rilevante si giova spesso della
presenza di paratesti (tropature, canoni, dediche, chiose e
aggiunte manoscritte) attraverso i quali spesso riemerge un
intreccio di richiami che alludono ad avvenimenti, circostanze,
personaggi, occasioni liturgiche o politiche. Un penetrante
tentativo di interpretazione è stato dato per le sei messe di
Napoli da un recente contributo – ignoto agli studiosi di
entrambe le miscellanee (come sembra essere destino per tutto
quanto nel nostro campo non si produca in inglese) – da
Lorenz Lütteken (Ritual and Krise. Die neapolitanischen
«L’homme armé»-Zyklen und die Semantik der
Cantus firmus-Messe, in Musik als Text, Kassel,
Bärenreiter, 1997, pp. 207-218). La musicologia internazionale
degli ultimi decenni si è occupata ampiamente della genesi
delle prime messe l’homme armé e delle dirette
relazioni – documentate proprio della rete dei rapporti
intertestuali – fra Ockeghem, Busnois e Dufay. Sulla base di
ricerche condotte da angoli visuali a volte ben differenti, sono
state proposte ipotesi sull’origine della melodia
l’homme armé (chanson rustique o
cittadina? melodia popolare o creazione di un compositore, magari
Busnois?); della chanson combinativa a tre voci del codice Mellon
(venuta dopo la diffusione di un monodico ‘canto di
leva’, oppure portatrice per prima di quella melodia nel suo
Tenor?) e della sua versione strumentale a quattro voci nel codice
casanatense 2856, nonché dei loro possibili compositori; sui
rapporti fra le chansons e le prime messe (di grande interesse
è la parodia nel Tu solus Altissimus del Gloria
di Busnois); sulla successione cronologica delle prime tre messe
(Dufay-Busnois-Ockeghem, come alcuni sostengono, o piuttosto
Ockeghem-Busnois-Dufay, secondo un’ipotesi argomentata dalla
sottoscritta nel 1975 e ribadita nel ’93, che, in maniera
evidentemente poligenetica, altri hanno riproposto di recente).
Anche sulla straordinaria fortuna del Tenor l’homme
armé e sui suoi rapporti con la storia le opinioni sono
diverse: si insiste sempre sul legame con i progetti di crociata
antiturca del duca di Borgogna (1454) o di Pio II (1464), ma
esistono anche altre ipotesi. Per esempio quella formulata da
Agostino Magro, sulla possibilità che Ockeghem avesse scritto
la sua messa nel 1454 per la traslazione a Tours delle reliquie di
S. Martino, santo soldato. Per la messa di Regis, poi,
dall’analisi dei diversi cantus prius facti usati e
dai dati documentari a nostra disposizione, si può risalire ad
altra eventuale occasione liturgica. Chi insiste molto
sull’ipotesi antiturca assegna un ruolo centrale alle sei
messe del codice VI E 40 della Biblioteca Nazionale di Napoli,
accompagnate dalla dedica a Beatrice d’Aragona regina
d’Ungheria, con menzione esplicita delle imprese militari di
Mattia Corvino in favore della cristianità. Diversi studiosi
delle due miscellanee accostano, tangenzialmente o diffusamente,
questi problemi. Hanno occasione di trattare dell’uso della
prolatio maior nella messa di Ockeghem sia Bonnie Blackburn in
O sia Alexander Blachly in
B, in saggi su cui si
tornerà piu oltre, mentre il contributo di ROB C. WEGMAN (Mensural Intertextuality in the
Sacred Music of Antoine Busnois) ospita un «Excursus:
L’homme armé Revisited» in cui, accogliendo
un’ipotesi a suo tempo formulata da Taruskin, l’autore
ritiene possibile assegnare a Busnois la chanson combinativa a tre
voci, ma impossibile, per motivi di stile e di usi mensurali,
collocarla isieme a quelle che il musicista scrisse negli anni
’60. L’ipotesi di Wegman è che la chanson sia
stata scritta negli anni ’50, forse in relazione con una
giostra del tipo di quelle, diffusissime, ‘del
saraceno’, una delle quali risulta infatti essersi tenuta a
Bruges, alla presenza di Carlo il Temerario, nel 1457. (Sulla
diffusione delle giostre del saraceno o delle corse
dell’homme armé nell’Europa tardo
medioevale – e particolarmente in quella mediterranea –
e sull’attuale persistenza di queste tradizioni in molti
luoghi, si possono reperire non poche altre testimonianze a
sostegno di quelle citate da Wegman.) Ipotizzate così le
origini della chanson, «In Busnois’s L’homme
armé mass those origins left a residue of meaning in the
sign C3, suggesting the composer’s personal acquaintance with
an earlier history». La ricostruzione di questa
continuità di usi mensurali (ma si ricordi che
l’attribuzione della chanson del codice Mellon a Busnois
è puramente ipotetica) diviene un dato stilistico
qualificante, che offre quindi a Wegman un ulteriore sostegno per
nuove attribuzioni a Busnois.
Col contributo di FLYNN
WARMINGTON (The Ceremony of the Armed Man: The Sword, the
Altar, and the L’homme armé Mass) un’altra
ipotesi nuova è formulata in base alla combinazione di
testimonianze del passato e della sopravvivenza attuale di antiche
cerimonie (alcune delle quali sono autentici fossili liturgici,
come per esmpio la messa detta ‘dello spadone’, che si
celebra all’Epifania nel duomo di Cividale). Lo Zibaldone
quaresimale (1457) di Giovanni Rucellai, che attesta la
tradizione della messa in armi nell’abbazia di S. Antimo (che
si riteneva fondata da Carlo Magno), è messo in relazione con
la documentazione su analoghe cerimonie liturgiche –
officiate dal vescovo o dall’abate e accompagnate dalla
ostensione di un’arma, come chiara allusione
all’impegno di difendere la fede – e particolarmente
con quella relativa alla celebrazione del Mattutino di Natale in S.
Pietro nel tardo Quattrocento, durante la quale l’imperatore
alla presenza del papa celebrante intonava in armi la quinta
lezione. Da Martino V in poi esiste una interessante documentazione
del dono della spada benedetta da parte del pontefice
all’imperatore o ad altra autorità sovrana da
sollecitare in difesa della cristianità. Interessante il caso
della spada mandata a Luigi XI da Pio II, che vi fece incidere due
suoi distici elegiaci (riprodotti nel saggio, ma con un errore di
stampa nel primo verso, che, per ovvi motivi grammaticali e
metrici, esige tua e non tuas). Sulla base di questa
documentazione, discussa con grande attenzione e riprodotta nelle
appendici, l’autrice si chiede se «Can we link any of
these ceremonies with the l’homme armé tradition
in France, Cambrai, and Burgundry?» Ipotesi attraente, ma non
suffragata da prove. Nessuna delle quattrocentesche messe
l’homme armé risulta in qualche modo legata alla
liturgia di Natale (se mai, come s’è detto prima, per
Regis e forse anche per Ockeghem si potrebbe postulare una
relazione con la festa di qualche santo guerriero), e di per
sé il testo annesso alla melodia dell’homme
armé difficilmente potrebbe intrattenere un qualche
rapporto con una occasione solenne in cui papa e imperatore fossero
fisicamente presenti o ufficialmente rappresentati.
Veramente sorprendente è invece il contributo di
MICHAEL LONG, Arma virumque cano:
Echoes of Golden Age. Assumendo come punto di riferimento
obbligato per la fioritura della tradizione l’homme
armé il progetto di crociata di Pio II, e perpetrando
disinvolte scorrerie in vari ambiti disciplinari, Long postula una
rivisitazione in chiave cristiana del mito dell’età
dell’oro in seguito alla caduta di Costantinopoli, e vede un
riferimento a Pio II (= Enea Silvio Piccolomini,
nomi, evidentemente, virgiliani) nel canone enigmatico scritto
sotto il Tenor della sesta messa di Napoli (ipotesi,
quest’ultima, avanzata con ben altro metodo di indagine anche
da Lütteken, nel lavoro precedentemente citato). Inopportuno
sarebbe segnalare una per una le aporie di un saggio, condotto
più sulle ali della fantasia che non su quelle del metodo. Ci
limitiamo a contestare i passaggi più sconcertanti. Non
c’è assolutamente nulla di inusuale nelle reiterazioni
della parola l’homme armé sotto la musica: che le ripetizioni di quelle
che Long chiama «brief syntactic units» non facciano
parte delle strategie poetico-musicali fino al XVI secolo è
affermazione che si commenta da sola. Che la melodia e il testo
dell’homme armé siano uno slogan propagandistico
antiturco è un’idea un po’semplicistica; sarà
inoltre il caso di non dimenticare che il collegamento di una o
più messe con gli eventi innescati dalla minaccia turca è
magari molto probabile, ma resta per ora solo un’ipotesi che
aspetta di essere dimostrata (l’unico riferimento esplicito
al ‘doubté Turc’ trovandosi nel cantus della
chanson combinativa a tre voci), sulla quale è alquanto
imprudente costruire grattaceli di altre ipotesi. La genealogia
virgiliana di Enea non parte da Saturno (certo un bisnonno in
moderni termini anagrafici, che tuttavia non designano
automaticamente funzioni fondamentali nella mitologia) il quale
è menzionato espressamente come capostipite non di Enea ma dei
re latini (ovvero dei nemici). Il mito di Saturno, divinità
molto importante nell’antico pantheon romano, non coincide
completamente con quello del greco Crono, anzi, ha diversi aspetti
peculiari, e Venere – che nella tradizione mitologica latina
non è proprio la stessa identica cosa di Afrodite –
nell’Eneide è figlia di Giove (cfr.
Aeneis I, 250 e X, 17) e non di Saturno.
L’interpretazione della miniatura con l’evirazione di
Saturno proposta da Long a sostegno del proprio vertiginoso
excursus esegetico, non ha molte probabilità di illustrare la
Chiesa orientale umiliata dai Turchi per via del cappello
orientalizzante di Saturno, dal momento che copricapi di tal foggia
erano entrati nella moda occidentale da svariati decenni (non
c’è neppure bisogno di consultare un repertorio
iconografico, gli esempi pittorici che vengono in mente, da Gentile
da Fabriano e Pisanello fino a Giorgione e oltre sono a bizzeffe);
l’arma di Giove non è una specie di scimitarra, ma
semplicemente la falce da Giove sottratta a Saturno, del quale
è notoriamente l’attributo fondamentale. A conclusione
di una disinvolta analisi numerologica ci viene proposto di leggere
l’incipit del testo dell’homme armé nella
prima linea della tavola di Tolomeo; se per caso non fossimo
convinti del risultato – che dà un L’O la e con ciò dimostra la
‘fondness’ di Busnois «for alphabet puzzles»
(cosa che altri hanno già dimostrato con più calzanti
argomenti) – dobbiamo ricordarci che «Giving the
unaspirated ‘h’ at the beginning of the French word for
man, the three-word incipit, ‘the armed man’, actually
consists of two, rather than three, sounding and visual letter
groups: Lo(m)me and arme.». Inoppugnabile
dimostrazione scientifica di ciò sarebbe il fatto che nel
New Growe Dictionary la voce di Lockwood sull’homme
armé è sotto la L, e non sotto la H. Chiudiamo qui la
disamina e facciamo presente che si comincia ad essere un po’
stufi della moda delle parole in libertà, con le quali si
può dire qualsiasi cosa perchè tanto tutte le
interpretazioni sono valide in quanto nessuna lo è. Ma forse,
più semplicemente – e forse argutamente –, lo
studioso, al quale siamo debitori di contributi in cui ha pur
dimostrato di saper applicare metodi di ricerca degni di rispetto,
ha voluto divertirsi a prenderci un po’ in giro.
Un qualche imbarazzo di fronte a questo modo di
procedere può forse celarsi nella Introduction a
B di PAULA HIGGINS, che fa un fugace riferimento ad
«occasional excesses of interpretative zeal» nella
miscellanra. Ma un analogo zelo sembra aver sfiorato anche lei
all’inzio della medesima Introduction, quando nel
virelai di Busnois Je ne puis vivre ainsi interpreta la
parola confort (au mains que j’aye en mes
dolours/quelque confort) come un doppio senso osé
(con - fort) e ne deduce che, data la concomitante
presenza dell’acrostico JAQUELINE DAQVEVJLE che rende
riconoscibile la dedicataria, il virelai «transgresses the
boundaries of polite courtly love discourse». Ci sembra strano
che l’illustre studiosa non abbia presente come
confort fosse parola già da secoli attestata nella
lirica cortese di lingua d’oïl (e spesso in frasi
analoghe o quasi identiche a quella che la impressiona), ma sempre
entro un codice altamente formalizzato, e soprattutto che trascuri
il ruolo normativo e cogente che ha nella cultura quattrocentesca
il rispetto dei registri espressivi legati alle singole forme
musicali e poetiche. Je ne puis vivre afferisce
all’ambito aulico e cortese, e l’inserzione di una
allusione oscena al suo interno non sarebbe stata considerata un
effetto dirompente ma solo una attestazione di ignoranza,
comportando uno slittamento sul piano della comunicazione
quotidiana del tutto gratuito e inconcepibile (per far pervenire
all’amante eventuali inviti a venire al dunque ci si sarebbe
serviti di un intermediario compiacente, non di un virelai).
Con l’acrostico poi Busnois non infrange certo «the
cardinal rule of courtly love: a commitment to absolute
secrecy», perchè la natura e gli scopi
dell’acrostico medesimo – il cui uso al tempo di
Busnois vantava già più di sedici secoli di storia
documentata, ed era anch’esso retto da consuetudini e modi di
impiego molto formalizzati – erano di portare messaggi
cifrati ma decodificabili, in un gioco raffinato
dell’allusione, così come era avvenuto nei casi di
Jacopo, Landini, Machaut nel secolo precedente ed era continuato ad
avvenire nel corso del Quattrocento.
Ci sembra un po’ eccessiva anche la
disinvoltura con la quale HONEY MECONI
(Ockeghem and the Motet-chanson in fifteenth-century
France), pensa che il mottetto di Dufay Je ne puis plus/
Unde veniet auxiilium mihi possa «easily be interpreted as
a cry of woe for lack of sexual potency», tanto più che
«it is coupled with a cantus firmus asking whence cometh my
help?» – (un bel problema prima del Viagra) –
«in steadily decreasing note values». Certo tra i
significati del verbo possum in latino e pouvoir in
francese c’è sempre stato anche quello della
capacità copulativa; significato che poteva esplicitarsi negli
opportuni contesti (ovvero in ambito documentario,
scientifico-medico, narrativo, per esempio): ma per pensare che nel
Quattrocento un mottetto politestuale di complessa struttura
compositiva – che afferiva, secondo una concezione radicata
da due secoli, allo stile alto della musica polifonica –
potesse farsi portatore di riflessioni sul vigore sessuale di
qualcuno bisogna essersi posti ben al di fuori del contesto
culturale di cui si sta parlando, considerato sostanzialmente
identico a quello attuale. Nel medesimo contributo apprendiamo
inoltre, a proposito del mottetto-chanson, che «The language
of vernacular is the language of women; Latin, the language of the
motet and the mass, is for the educated, for men. Joining mourning
to the chanson is joining it to a genre that is primarly concerned
with women: motet-chanson circulate overhelmingly in
chansonniers». A parte la singolare ma insostenibile idea
degli chansonniers come libri da gineceo, questo tipo di
riflessioni rispecchia la visione in bianco e nero di una
realtà culturale complessa com’è quella tardo
quattrocentesca, e produce di conseguenza una semplificazione
inaccettabile. Di diverso tenore è il contributo della stessa
studiosa in B, che tratta il
tema – su cui si sono interrogati anche altri, sempre nella
stessa miscellanea – della dubbia attribuzione a Busnois di
Fortuna desperata. Il saggio della Meconi (Poliziano,
Primavera, and Perugia 431: New Light on Fortuna desperata)
sottopone a uno scrutinio sistematico i testimoni, mettendo in
rilievo l’importanza del codice di Londra 16439, di origine
fiorentina, che tramanda varie opere di Poliziano, e in cui il
testo poetico di Fortuna desperata figura in una versione
che potrebbe essere quella originaria. Secondo l’ipotesi
della Meconi, il personaggio femminile che lamenta d’essere
stato ingiustamente diffamato potrebbe essere Nicoletta Vespucci,
la bellissima amante di Giuliano de’ Medici, ritratta da
Botticelli nella cosiddette Primavera (ma gli studi di
Claudia Villa, che la Meconi purtroppo non conosce, hanno sostenuto
con argomenti di grande interesse che il soggetto iconografico
è altro). Fortuna desperata, la cui attribuzione a
Busnois crea problemi d’ogni genere, sarebbe piuttosto opera
di un compositore fiorentino, probabilmente Felice di Giovanni
Martini (cui è ascritta la versione del codice C.G.XIII.27).
Una attenta analisi della tradizione dell’intonazione
primaria e delle composizioni che la riprendono (chansons e messe)
orienta MARTIN PICKER (Henricus
Isaac and Fortuna desperata), a ritenere che un compositore
italiano – forse proprio quel Felice di Giovanni Martini a
cui Frank D’Accone ha tentato di restituire una fisionomia
– sia stato l’autore della prima intonazione, e che in
seguito un ruolo assolutamente centrale per la fortuna del soggetto
sia stato giocato da Isaac e dal suo allievo Senfl. Il lunghissimo
saggio di JOSHUA RIFKIN (Busnois
and Italy: The Evidence of two Songs) affronta il problema
delle due composizioni su testo italiano tradizionalmente
attribuite a Busnois (Con tutta gentileça e Fortuna
desperata) e dell’ipotesi – mai provata – di
un soggiorno in Italia del musicista. L’attribuzione delle
due composizioni a Busnois – che, se dimostrata, avrebbe
fornito «a powerful reason for thinking that he spent a
portion of his career in Italy» – è respinta
facendo ricorso principalmente ad argomenti di natura codicologica.
Nonostante l’ampia e dettagliata disamina dei fenomeni della
tradizione, il metodo è incerto: Rifkin non accoglie la tesi
di Strohm secondo la quale il repertorio franco-fiammingo confluito
nel codice dell’Archivio capitolare di Segovia sarebbe
passato in Spagna nel corso dei rapporti fra le case di Asburgo e
di Aragona alla fine degli anni ‘90 del Quattrocento, e pensa
invece che si possa «regard the association between Segovia
and the Hasburg-Burgundian court discerned by Baker and Meconi as
chimerical at best» sulla base di indicazioni che sono
però parziali e semplicemente funzionali all’assunto del
suo saggio, e senza valutare la situazione dell’intero
repertorio. È inoltre ingenuo pensare di poter contestare il
valore di un codice (ancora quello di Segovia) con
l’argomento della sua lontananza geografica dal compositiore
in questione (Busnois), perché i testimoni sono tutti
relativamente buoni o meno buoni in base alla qualità delle
lezioni, che a sua volta non è automaticamente assicurata
dalla vicinanza cronologica e geografica agli autori. (come ricorda
una regola elementare di critica del testo). Il vasto saggio
fornisce comunque diversi spunti di riflessione; si veda per
esempio, un punto di vista (su cui sarebbe utile una più ampia
discussione) diverso rispetto a quello di Atlas, da cui Rifkin si
pone nel valutare il problema dell’attribuzione in presenza
di voci aggiunte o alternative («In pieces with an added
voice-part, then, ascription not specifically attached to that
voice clearly refer in the first instance to the original
composition – even if, in so doing, they implicitly stretch
the definition of that work to incorporate an unauthorized
accretion»).
In entrambe le miscellanee sono ben rappresentati i
saggi di analisi stilistica. ANDREA
LINDMAYR-BRANDL si direbbe particolarmente versata in questo
genere di studi. Del suo contributo in O si è già detto; in B (Rejois toi terre de France/ Rex
pacificus: An ‘Ockeghem’ Work reattribuited to
Busnois) l’oggetto dell’analisi è Rejois
toi, di cui si rivedono le ragioni dell’attribuzione ad
Ockeghem e si valuta la possibilità di assegnarlo, su basi
stilistiche, a Busnois, con il supporto delle acquisizioni recenti
di nuovi dati biografici. Come nel saggio in O, così in questo, giunta alla fine
del percorso la Lindmayr-Brandl non si sente di proporre alcuna
certezza. Vorremmo poter leggere le sue conclusioni («And
should none of this prove to be true? Then we have at least spent
some time on an anonimous composition worth being reconsidered and
reanimated for its own sake, even if only by a small group of
scholars interested in the musical life and culture of the
fifteenth century») non come sconsolata constatazione
dell’inanità di ogni pretesa interpretativa, o della
desolata irrilevanza sociale degli studi umanistici, ma piuttosto
come un’apprezzabile rivendicazione del valore disinteressato
del lavoro intellettuale.
Come sempre attratto da interessi di tipo
metodologico, ALLAN W. ATLAS
(Busnois and Japart: Teacher and Student?) individua cinque
«istinct kinds of intersections between the works of Japart
and those of Busnois; (1) shared tunes; (2) predilection for
combinative chansons; (3) use of ‘serials’ procedures;
(4) conflicting attributions; and (5) paired transmission in the
sources», con ciò proponendo un concorso di elementi
importanti per valutare possibili rapporti maestro-allievo e
dirimere eventuali problemi attributivi. Molto convincente sotto il
profilo metodologico è ll saggio di MARY
NATVIG (The Magnificat Groip of Antoine Busnois: Aspects
of Style and Attribution) che giunge alle sue prudenti
conclusioni dopo un percorso di analisi e valutazioni condotte con
grande rigore. HEINZ-JÜRGEN
WINKLER (Zur Vertonung von Mariendichtung in antiken
Versmassen bei Johannes Ockeghem und Johannes Regis) parte
dalla consolidata certezza che caratteristica qualificante
dell’età di Josquin sia «die Entwicklung von
Imitationstechnik und Textdarstellung als sinnfälliger
Verknüpfung einander nachahmender Stimmen und sinfälliger
Darbietung ihrer Texte» (Ludwig Finscher) per giungere,
attraverso l’analisi dei mottetti di Ockeghem e Regis –
e in particolare Intemerata Dei mater e Clangat
plebs – a mettere in rilievo come anche nella generazione
precedente analoghe pulsioni, che si realizzavano con altri
strumenti espressivi, fossero ugualmente presenti.
Diversi saggi danno ampio spazio all’analisi di
problemi di tecnica compositiva, di costruzione formale, di
sintassi musicale. Il contributo di ANNE-EMMANUELLE CEULEMANS (Une étude
comparative de la mélodie et de la dissonance chez Ockeghem et
chez Josquin Desprez) che in O figura nella sezione dedicata alla
teoria, parte da un assunto molto impegnativo, affrontato con
sicura conoscenza del repertorio e grande attenzione; restano
tuttavia alcune ingenuità (gli intervalli in percentuale nella
musica di Ockeghem avrebbero un senso se fossero ordinati in
relazione al contesto, non certo come degli assoluti; analogamente
la riflessione sull’uso dei valori notazionali non può
prescindere, di volta in volta, dalla mensura di riferimento, non
esplicitata nrgli esempi; resta incomprensibile poi il significato
che l’autrice dà al termine ‘nota
accentuata’, che non ha senso nella semiografia
quattrocentesca. Forse l’autrice pensa al suono su cui cade
la depositio, che comunque non è la stessa cosa di una
accentuazione). Sempre in O,
ALLAN ATLAS (Some Thoughts about
one-line Refrains in Ockeghem’s Rondeaux) propone
«the question of how music and abridged refrains might
interact in the rondeaux of Jean Ockeghem, not with the idea of
prescribing solutions, but in a spirit of inquiry: can we perform
Ockeghem’s rondeaux with abridged refrains today, and could
Ockeghem’s contemporaries have done so in the fifteenth
century?» e valuta, argomentandole puntualmente, le soluzioni
a suo avviso possibili per nove rondeaux, mentre MARY KATLEEN MORGAN, in un ampio saggio su:
Ockeghem’s Approach to Musical Process in the three-voice
Chansons, va ben addentro nell’analisi comparata delle
tecniche compositive di Ockeghem e di Busnois, portando avanti con
metodo sicuro le ricerche da lei fatte per la sua tesi dottorale
sulla chanson degli anni ‘70 del Quattrocento. Il saggio di
SEAN GALLAGHER, cui si è fatto
cenno in precedenza a proposito dell’intertestualità, si
occupa, più che di sintassi musicale, delle possibili funzioni
compositive di alcune microformule ritmiche ricorrenti, e mette a
punto un metodo di analisi che «by refining our knowledge of
Ockeghem’s style, can play a role in editorial decisions and
even attributive research» (sempre col beneficio del dubbio, e
solo se in un concorso di elementi, «where the patterns are
distinctive, both in themselves and in their combination with other
compositional parameters»).
Di particolare interesse sul piano metodologico
è il lavoro di PETER URQUHART
False Concords in Busnoys, che sottopone ad una analisi
stringente le chansons a tre voci di Busnois nel quadro comparativo
delle tecniche compositive coeve, alla luce di una attenta lettura
delle valutazioni di Tinctoris, insistendo sull’importanza di
porre i problemi nell’ottica del tempo e non,
anacronisticamente, su un piano teorico astratto ed avulso dalla
storia («Using concepts related to modern counterpoint
training – inversion, preparation or resolution – in
order to judge the acceptability of a particular dissonance or the
need for corrective editorial accidentals in Busnoys is clearly
misguided»). Il forte richiamo alla responsabilità
dell’editore moderno, che deve essere in grado di distinguere
tra il livello della tradizione e/o della prassi esecutiva antica e
il livello del pensiero d’autore, si accompagna alla proposta
operativa di sfruttare le risorse che la critica interna offre,
quando si guardi «at the repertory itself for clues hidden in
its patterns and in its internal consistency». Si fonda su di
una nuova e attenta lettura delle testimonianze teoriche, poste in
puntuale relazione con la prassi compositiva, anche RICHARD WEXLER (Simultaneous Conception and
Compositional Process in the Late Fifteenth Century), che
individua nella natura dello stile a cappella fondato sulla
imitazione strutturale, piuttosto che non in un improbabile
passaggio dalla composizione rigorosamente ‘successiva’
a quella ‘simultanea’ («that tends to ewoke
visions of momentous transformations having near mythic
proportions»), l’elemento più caratterizzante in
senso innovativo nella tecnica di composizione all’inizio del
Cinquecento.
Di problemi mensurali si occupano diversi contributi,
che ne trattano specificamente o tangenzialmente. Il già
citato saggio di WEGMAN enumera e
analizza gli ‘errori notazionali’ che Tinctoris
rilevava in Busnois, e trova conferma all’ipotesi, dallo
stesso studioso già formulata, di un rapporto stretto
(probabilmente diretto) con Domarto, formativo per Busnois, mentre
BONNIE J. BLACKBURN (Did Ockeghem listen to Tinctoris?)
esamina gli usi mensural di Ockeghem mettendoli a confronto con il
pensiero teorico di Tinctoris, e legge le critiche contenute nel
Proportionale musices e poi nel Liber de arte
contrapuncti, che si alternano alle manifestazioni di stima e
deferenza del Liber de natura et proprietate tonorum, come
testimonianze di un rapporto di reciprocità, entro il quale la
composizione della Missa prolationum sarebbe la possibile
prova della ricezione da parte di Ockeghem delle osservazioni a lui
dirette nel Proportionale. Anche ALEXANDER BLACHLY (Reading Tinctoris for
guidance on Tempo) tratta il problema della posizione critica
di Tinctoris e rileva la fluidità degli usi mensurali della
seconda metà del Quattrocento di contro alla rigorosa
definizione dei significati dei segni che all’inizio del
nuovo secolo sarebbe stata avanzata dai proporzionalisti. Non a
tutti le considerazioni dell’autore potranno sembrare
convincenti, soprattutto quanto al rapporto fra tactus e valori
della dissonanza, dove si profila un argomento circolare; ma il
saggio è comunque molto ben articolato e offre numerosi spunti
di riflessione.
La corretta interpretazione della virgula apposta al
tempus perfectum o imperfectum è al centro delle osservazioni
di molti studiosi di entrambe le miscellanee, in linea di massima
orientati – di contro alla tendenza che sostiene la diminutio
in duplum – a ritenere non regolarmente prescrittiva la
virgula, ma semplicemente indicativa (e non sempre) di una
accelerazione diversamente quantificabile. Vige un generale accordo
sul significato di proportio dupla in caso di relazione simultanea
verticale con altre segnature, col conforto di non poche
testimonianze teoriche del primo Cinquecento. MARGARET BENT, sulla base della sua indiscussa
competenza sui repertori inglesi e continentali del primo
Quattrocento, sostiene, con dovizia di esempi, la possibile valenza
di signum congruentiæ o di indicatore di
un’articolazione della forma musicale della virgula sul
tempus perfectum, e ripropone tali significati per alcuni casi
dell’età di Ockeghem, con l’avvertenza che
«The notational clues on wich these observations are based are
neither watertight nor consistent; indeed, it is my hope to offer
some means of addressing their apparent wayardness, not to propose
a consistent and tidy new solution to the problem». Proprio la
grande escursione di significato della virgula nei vari repertori
(si pensi per esempio al suo uso nel Coralis Costantinus) sembra
rafforzare l’idea che la sua interpretazione debba di volta
in volta essere valutata diversamente, secondo le situazioni
storiche e geografiche in cui ricorre.
Un gruppo di saggi di O si occupa di problemi relativi a codici
importanti e ai repertori in essi tràditi. CLEMENS GOLDBERG (Reading Laborde: the
Significance of Johannes Ockeghem’s chansons in the context
of the Chansonnier Laborde) analizza lo chansonnier,
«originating in the Loire valley and probably closely
connected to the king’s court in Tours», valuta la
presenza del nucleo di composizioni di Ockeghem al suo interno e
l’incidenza delle ricorrenze intertestuali, mentre
FABRICE FITCH (Le Codex Chigi et
les messes d’Ockeghem) torna su di un argomento centrale
nelle sue ricerche, con un contributo importante sul piano
codicologico, corredato da utili appendici. Del codice Chigi si
occupa anche EDWARD F. HOUGTON con un
contributo (Ockeghem’s Scribes then and now)
interessante dal punto di vista paleografico (l’autore ha
già dedicato agli aspetti specifici della scrittura mensurale
di Ockeghem in Chigi puntuali osservazioni in passato) ma in cui
affiorano il luogo comune della peculiare insufficenza della
scrittura musicale, il concetto antistorico della «definitive
edition or performance» – ritenuta magari possibile per
la musica di certe epoche – e soprattutto la confusione tra
il piano del testo e quello della prassi, con la immancabile
elevazione del disco a livello testuale. Ancora il codice Chigi,
insieme a quello di Vienna (Österr. Nationalbibl. 11883)
è al centro dell’interesse in tre saggi che trattano
della Missa Prolationum: quello di JAAP VAN BENTHEM (‘Vous nous voiez cy
attachez’. En découvrant la relation entre texte et
musique dans la Missa Prolacionum), che mette a frutto
l’esperienza maturata nella edizione degli Opera Omnia
di Ockeghem per trattare con mano leggera (concludendo con una
breve parodia della Ballade des pendus) problemi complessi
relativi alla tradizione della Missa prolationum e per
ipotizzare una originaria disposizione del testo, che sfugga alle
aporie dei due manoscritti che la tramandano; quello di
MICHAEL ECKERT (Canon and Variation
in Ockeghem’s Missa Prolationum) che analizza sotto
l’aspetto strutturale e stilistico la messa valutando
comparativamente i codici, e il denso contributo di MICHAEL FRIEBEL (Auf der Suche nach einer
Originalnotation), che analizza sistematicamente gli aspetti
notazionali della tradizione della Missa prolationum e i
comportamenti degli scribi, e formula in base a ciò nuove
ipotesi sulla originaria stesura della messa (in base alla
argomentata convinzione che «Zwei verschiedene Fassungen sind
uns erhalten, und beide sind – unabhängig von einander
– geprägt von dem Bemühen, die Messe in ihre
Notation zu überarbeiten»).
In entrambe le miscellanee un buon numero di saggi
è dedicato alla ricerca biografico-archivistica o alla
ricostruzione, su base documentaria non meno che sull’analisi
di codici e repertori, delle peculiarità liturgiche di
importanti sedi in qualche modo legate all’attività di
Busnois e Ockeghem. Le ricerche di BARBARA
HAGG negli archivi di Bruxelles, di cui si illustrano gli
esiti in B (Busnois and
‘Caron’ in Documents from Brussels) hanno fruttato
nuove conoscenze su Busnois, e permesso di sviscerare ulteriormente
– senza però che sia per ora possibile giungere ad una
soluzione – il problema spinoso dell’identità di
Caron, musicista interessantissimo e dalla fisionomia
inconfondibile, ma che sembra sfuggire ad ogni tentativo di
concreta identificazione storica; la medesima studiosa in
O (Music and Ritual from the
Time of Ockeghem. Evidence from Paris and Tours) si occupa,
sulla base delle testimonianze dei codici pertinenti, della musica
nel sevizio liturgico a Tours (S. Martin) e a Parigi (Sainte
Chapelle, Notre Dame e cappella di corte). Con Basilique,
pouvoir et Dévotion. Ockrghem à Saint Martin de
Tours, AGOSTINO MAGRO offre una
parte del patrimonio di nuove informazioni reperite nel corso di
un’ampia ricerca (poi sfociata in una tesi dottorale e in
alcuni recenti contributi), e RICHARD
WEXLER (The Politics of Ockeghem’s Canonicate)
raccoglie e valuta testimonianze sull’attività di
Ockeghem come diplomatico e sulla missione in Spagna del 1470,
mentre PAULA HIGGINS (Musical
Politics in Late Medieval Poitiers: A Tale of Two Choirmasters)
esamina in tutte le sue possibili implicazioni il caso della
competizione fra Busnois e Johannes Le Bègue per la
maîtrise di Saint-Hilaire a Poitiers. RICHARD SHERR (Music at the Cathedral of Bruges
in the time of Ockeghem) e EUGENE
SCREURS con ANNELIES WOUTERS
(Johannes Ockeghem et la vie musicale à la collégiale
Notre-Dame d’Anvers) illustrano l’attività
musicale legata alla liturgia in importanti sedi, col corredo di
ampia documentazione, e GAYLE KIRKWOOD
(Kings, Confessors, Cantors and Archipellano: Ockeghem and the
Gerson circle at St-Martin of Tours) studia l’ambiente
degli alti funzionari, consiglieri e confessori reali a Tours nel
corso del Quattrocento, segnato prima dalla presenza e poi dalla
continuità del pensiero di Jean Charlier de Gerson, e dalla
sua visione della cultura e della musica. Il contributo di
HOWARD MAYER BROWN (Music and
Ritual at Charles the Bold’s Court: The function of
Liturgical Music by Busnois and his Contemporaries, uno degli
ultimi portati a termine dal grande musicologo morto nel 1993),
prezioso per la ricchezza delle osservazioni, torna su di
un’idea già da Brown stesso avanzata con vigore in
passato, che ha aperto fruttuosi percorsi di ricerca molto battuti
dalla attuale musicologia medievalistica. «Since the chants on
which many masses were based gloss the meaning and explain the
liturgical propriety of particular cycles, we can also imagine that
songs on which masses were based had some similar connection with
the nature or the occasion of the polyphony, and we should
therefore seek to find those meanings». La abbondanza di
informazioni che il cantus firmus di una composizione polifonica
può dare al musicologo, la ricchezza delle possibili
implicazioni storiche e liturgiche, il significato che la sua
scelta poteva rivestire per il compositore e per gli ascoltatori,
sono l’oggetto della ricerca di JENNIFER BLOXAM (On the Origins, Context, and
Implications of Busnoy’s Plainsong Cantus Firmi: Some
Preliminary Remarks), che imposta alcune essenziali questioni
di metodo e tratta l’argomento con grande chiarezza e con
particolare attenzione alla organizzazione liturgica della corte
borgognona rispetto all’uso di Parigi.
Due sono i saggi di REINHARD
STROHM in O. Il primo
(«Hic miros cecinit cantos, nova scripta
reliquit») propone e illustra le testimonianze poetiche ed
epistolari di Petrus Paulus Senilis, segretario di Luigi XI,
relative ad Ockeghem, che offrono informazioni molto utili per una
migliore conoscenza del musicista nell’opinione dei
contemporanei; nel secondo (Portrait of a musician) si
ipotizza che un noto e bellissimo dipinto attribuito al Maestro di
Flémalle (S. Francisco, Museum of Fines Arts) possa essere un
ritratto di Ockeghem (ma di parere contrario, nella stessa
miscellanea, è Leeman L. Perkins, nel contributo
introduttivo). Ancora in O,
DON HARRAN (Nouvelles variations
sur O Rosa bella, cette fois avec un ricercare juif), si
interroga sulla iudea di Leonardo Giustinian – da un
lato valutando la possibile realtà storica del personaggio di
nome Rosa (secondo un’idea già avanzata da Fallows) e
dall’altro esplorando le valenze emblematiche di quel nome
– in una forma deliziosamente leggera, scandita non in
paragrafi, ma in ‘ricercar primo’ con sei variazioni
seguito da un ‘ricercar secondo’. La conoscenza della
bibliografia filologica su Giustinian è buona, ma è un
peccato che Harran non conosca i numerosi contributi in proposito
di Antonio Enzo Quaglio, e il suo saggio di edizione
nell’antologia dei Rimatori veneti del Quattrocento
(curata da A. Balduino nel 1980).
Sia Leeman L. Perkins sia David Fallows sono presenti
in entrambe le miscellanee con contributi che danno conto dello
stato degli studi sui due musicisti e discutono problemi legati
alla tradizione delle opere e alla valutazione
dell’autenticità. In O, PERKINS
traccia nell’introduzione (Jean de Okeghem, musicien
méconnu) una storia della ricezione di Ockeghem
ricomponendo il quadro complesso delle attuali direzioni della
ricerca, mentre FALLOWS (Ockeghem
as a song composer: Hints towards a chronology) discute il
corpus delle composizioni profane di Ockeghem e ne prospetta la
cronologia sulla base di un criterio stilistico piuttosto solido,
ovvero la evoluzione delle estensioni vocali. Ne traggono conferma,
per ragioni di coerenza tecnico-compositiva, anche le datazioni del
Requiem all’altezza del 1460 e della messa
Caput agli anni ‘50. In B è FALLOWS («Trained and immersed in all
musical delight»: Towards a New Picture of Busnois’s
Songs) ad illustrare lo stato della ricerca su Busnois, del
quale discute le attribuzioni proposte da Richard Taruskin e Don
Giller, richiamando l’attenzione sull’importanza degli
anni giovanili precedenti il servizio alla corte borgognona e dei
rapporti con la musica di Binchois e Ockeghem, mentre PERKINS (Conflicting Attributions and Anonimous
Chansons in the ‘Busnois’ Sources of the Fifteenth
Century) dà il quadro completo della tradizione delle
composizioni profane, ne discute il corpus sulla base di
considerazioni stilistiche e codicologiche, e suggerisce
indicazioni metodologiche per i problemi relativi
all’autenticità (molto interessante il caso della
tradizione di Je ne puis vivre, che attesterebbe una
rielaborazione d’autore).
I musicisti intorno ai quali il progetto delle due
miscellanee si è organizzato sono senza dubbio i due punti di
riferimento più importanti nel panorama musicale della seconda
metà del Quattrocento, e per molto tempo propro in quel
panorama sono stati visti come due poli correlati fra loro ma
antitetici: Busnois il ‘razionale’ e
‘matematico’, e Ockeghem
l’‘irrazionale’ e ‘mistico’, secondo
una formulazione accolta anche da Sparks nel molto divulgato
Cantus Firmus in Mass and Motet (1420-1520), che resta
tuttora un libro importante. Un’antitesi che la ricerca degli
ultimi vent’anni è venuta progressivamente svuotando di
significato, per tentare di ricomporre il quadro in una forma
nuova, più complessa e più ricca di implicazioni e di
utili chiavi di lettura. All’origine della concezione di
Ockeghem ‘irrazionale’ – legato immancabilmente
(ma senza alcun conforto di documentazione attendibile) alla
devotio moderna, – è da collocare
l’interpretazione di Besseler, della quale LAWRENCE F. BERNSTEIN (Ockeghem the mystic. A
german interpretation of the 1920s) ripercorre le tappe,
individuando i motivi e le occasioni che la fecero maturare nelle
frequentazioni universitarie di Friburgo prima, e di Heidelberg poi
(con le presenze di R. Klibansky ed E. Hoffmann e le discussioni
nate intorno alla edizione di Cusano), ossevandone la particolare
consonanza con gli orientamenti culturali e politici di Besseler
stesso e con lo spiritualismo pangermanico degli anni 30, e
seguendone l’affermazione attraverso l’opera di allievi
e seguaci come W. Stephan, P. H. Lang e M. Bukofzer. Di rilevante
interesse sono anche, nella stessa miscellanea, gli altri
contributi dedicati alla ricezione della musica di Ockeghem nel
passato: il già citato saggio di ERIC
JAS, che dedica importanti osservazioni alle testimonianze
offerte dall’intavolatura di Gonzalo de Baena (molto utili
sono le due tavole relative l’una alla diffusione della
musica di Ockeghem fino alla fine del secolo XVI, e l’altra
ai casi di aemulatio prodottisi nello stesso spazio
cronologico) e quello di WOLFGANG
THEIN (Zitat, Bearbeitung, Transformation. Spielarten der
Kompositorischen Auseinandersetzung mit Ockeghem in der Musik des
20. Jahrunderts) che esamina invece alcuni casi di ricezione
compositiva di Ockeghem nel ventesimo secolo (Luigi Nono, Harrison
Birtwistle, Ernst Krenek e György Ligeti), rilevandone la
diversità degli approcci e giungendo alla conclusione che
«Hält man die hier in den Mittelpunkt gestellten
Kompositionen nebeneinender, so wird deutlich dass –
abgesehen vom Zitatbezug Nonos – ein übergreifendes
Merkmal die durchaus verschieden gelagerten Bezugnahmen der
Komponisten verbindet: die Suche nach einem neuen Weg,
zunächst für die Komponisten selbst..., gleichermassen
und ins Allgemeine gewendet aber auch für das Komponieren
überaupt in Zusammenhang mit den verschiedenen Ansätzen
zur Neuorientierung, die sich der zu Ende gegangenen Epoche der
Klassich-romantischen Musiksprache und deren Implikationen
hinsichtlich Tonalität, Taktmetrik und Formenkanon
anschlossen».
Tutt’e due le miscellanee escono in curatissima
veste editoriale (O in
particolare si direbbe voler riverberare anche nella presentazione
degli Atti lo stile inconfondibile dei convegni di Tours) e sono
state provviste degli indispensabili indici analitici (indice di
nomi e di opere musicali citate, in O; di testimoni manoscritti e a stampa, di
composizioni di Busnois, e un indice generale, in B) nei quali però sono rimaste non
poche inesattezze che disturbano chi è abituato a fare uso di
questi preziosi sussidi per seguire il filo di un suo o altrui
percorso. Ma più che questo inconveniente –
probabilmente quasi inevitabile in volumi dalla struttura complessa
– spiace dover constatare ancora una volta i ricorrenti
limiti dell’informazione – più accentuati in
B, ma evidenti anche in
O – su quanto sui vari
argomenti è stato scritto in lingue diverse
dall’inglese. Operare selezioni è, naturalmente,
più che legittimo (nessuno è obbligato a citare tutto,
né a trovare tutto ugualmente valido e calzante); ma di un
filtro critico si devono comprendere le ragioni, che sono appunto
quelle che lo distinguono dal semplice disinteresse, e che comunque
dovrebbero essere valide anche nella selezione di quanto è
stato scritto in inglese. La situazione è forse ancora
più grave per i riferimenti interdisciplinari (storia
dell’arte, storia della letteratura, storia della cultura,
delle istituzioni, delle liturgie, filologia romanza, italiana,
mediolatina), dove i lavori in inglese che sono citati, per validi
e importanti che siano, non possono certamente considerarsi
sostitutivi di contributi fondamentali per quelle discipline,
scritti in altra lingua.
Ma, fatta questa osservazione, si deve comunque
riconoscere con soddisfazione che il contributo dato alla nostra
disciplina da queste due miscellanee è molto ricco e
diversificato. I metodi sono ampiamente collaudati e si poggiano
spesso su interessi interdisciplinari apprezzabili; gli esiti della
ricerca permettono talvolta di avanzare proposte interpretative
inedite, talaltra di adottare nuovi punti di vista per una più
profonda e pertinente lettura del già noto. La riflessione
stimolata su rilevanti problemi di natura storica, filologica,
teorica relativi al secondo Quattrocento, è destinata
certamente ad avere ampie ripercussioni nel futuro dei nostri studi
e a suscitare nuovi interessi, nuove idee, nuove discussioni: il
che è già, di per sé, un grande merito.
MARIA CARACI VELA
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